I Vaccari, Proust e la sindrome di Stendhal
Data: Venerdì, 14 marzo 2014 ore 08:00:00 CET
Argomento: Redazione


"Ti ho mangiato con gli occhi". E' questa la frase che ben sintetizza la "filosofia digestiva" che aveva segnato le poetiche ottocentesche. Ad un certo punto però, in una notte buia e tempestosa sul far del nuovo secolo, irrompono le avanguardie artistiche. Simbolismo, espressionismo, astrattismo attuano una rivoluzione copernicana anche nelle dimensione estetica e filosofica. Da allora in poi, sarà la coscienza a pensarsi altro da sé (sulla scorta del concetto di intenzionalità husserliano), per "esplodere verso" l'opera d'arte. Questo assioma, che non sfugge alla sensibilità critica di Giacomo Debenedetti, è molto fertile in quelle poetiche del romanzo del Novecento (ma potrebbe valere anche per certa arte) che eliminano la vicenda a favore, appunto, di un "esplodere verso" del lettore, fatto di "epifanie" e proustiane "intermittenze del cuore" (vicenda descritta magistralmente dallo stesso Giacomo Debenedetti).

E' il caso dei notturni di Alfonso e Nicola Vaccari, gemelli pittori da Forlì, la cui intensità riesce spesso a farci respirare l'aria delle stagioni cui si ispirano. E poi il gesto pittorico li rende sempre vivi, in perenne movimento. Mai statici. A tal punto che vien voglia di "esplodere verso" il quadro e abitarlo. Piuttosto che mangiarlo con gli occhi, ingurgitandolo nelle nostre coscienze. Passeggiare lungo i suoi viali, all'ombra dei suoi cipressi, per scrutare la luna. Il suo fascino discreto e malinconico che ci svela, al suo chiarore, la magia dell'arte. Ecco cosa può succedere, dunque, allo spettatore, nella frazione di secondo in cui getta l'occhio verso un dipinto: l'"esplodere verso" grazie ad una proustiana "intermittenza del cuore".

Circa un secolo dopo la sindrome psicosomatica che provoca vertigini e confusione, al limite dell'allucinazione, allo scrittore Stendhal, rapito dalla bellezza delle opere d'arte di Firenze, la proustiana Bergotte, in preda ad un colpo apoplettico, al cospetto di un quadro di Vermeer (la veduta di Delft) sussurrava: "E' così che avrei dovuto scrivere...I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo".

Esiste certamente uno scambio osmotico tra scrittura e pittura, e Proust ne era certamente convinto allorché definiva la scrittura alla stregua di uno strumento ottico: "Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso".

Sorvolando sul fatto che, qui, Proust sembri un antesignano dell'approccio fenomenologico alla lettura (teorizzato dai critici della seconda metà del Novecento sulla scorta di Husserl, Heidegger, Gadamer, Derrida ecc.), quel che è certo è che, sovente, la scrittura diventi ancella della pittura. E, forse, anche il cinema. Sul set di Barry Lyndon, Kubrick non ricorreva, infatti, a macchine da prese con luce naturale, ispirandosi ai più famosi vedutisti e paesaggisti del Diciottesimo secolo? Il film verrà, infatti, definito una "pinacoteca di celluloide". Ma questa è un'altra storia...

Nino Arrigo - Ecodeimonti.it





Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-2485467.html