Fichi d’india o pane dei poveri?
Data: Sabato, 22 febbraio 2014 ore 07:30:00 CET Argomento: Redazione
In Sicilia, si
sa, anche la natura è cultura. Il forestiero che visita
l'isola per la prima volta deve essere re degli indifferenti per non
subire il fascino di una pianta di ficodindia carica di frutti maturi:
bianchi, rossi o gialli che siano. Il fotografo ne fissa immediatamente
l'immagine nella pellicola, il pittore non perde tempo a dipingerla, lo
scrittore prova spesso gioia a descriverla. Si dà persino il caso che
se ne enfatizzi l'importanza oltre ogni credere. È ciò che fece John
Galt, scrittore e drammaturgo britannico che visitò l'Isola nel 1808.
«In ogni parte voi v'incontrate piantagioni di fichi d'India, in ogni
villaggio coperte ne sono le stalle. Se egli porta un paniere, questo
non sarà d'altro pieno che di fichi d'India. Ogni asino che la mattina
s'avvii alla città, è carico di fichi d'India. Un contadino che in sul
far della sera stia sopra una pietra a contar monete di rame, non fa se
non il conto di quel che gli hanno prodotto i suoi fichi d'India. Se un
genere è cattivo, si dice che non vale un fico d'India, mentre non v'è
cosa più squisita al mondo che un fico d'India. Ecco il solo lusso che
gode il povero». Esagerato!
A parte il piccolo particolare che mai siciliano ha scomodato un
ficodindia per evocare l'immagine di merce scadente, tutti i
ficodindieti censiti nell'Isola dal Catasto borbonico nel 1853
coprivano una superficie pari a 7.078 ettari di coltura specializzata e
1.744 di coltura promiscua, non di più. Ma diamo a Cesare quel che è di
Cesare: qualche elemento di verità si può trovare tra le fole propalate
da Galt. Ha perfettamente ragione l'illustre suddito di Sua Maestà
Britannica nell'affermare che «non v'è cosa più squisita al mondo che
un fico d'India». Si può inoltre concordare tranquillamente con lui
quando conclude che il succulento frutto era il solo lusso di cui
godeva il povero di Sicilia. Ancora cento anni dopo il suo viaggio la
letteratura folklorica siciliana era unanime nel ritenere che, per i
meno abbienti, i fichidindia facevano le veci del pane, da agosto a
dicembre.
De Gasparin, agronomo francese che visitò la Sicilia una trentina
d'anni dopo, definì il popolare frutto «la manna, la provvidenza della
Sicilia [...], ciò che il banano è per i paesi equinoziali e l'albero
del pane per le isole dell'Oceano Pacifico». I fichidindia sono «la
provvidenza del popolino» gli faceva eco nel 1891 un suo illustre
connazionale, René Bazin, futuro membro dell'Accademia di Francia. «Con
una ventina di fichi d'India - il valore di due soldi forse - e un po'
di pane, un siciliano trova la maniera di fare la prima colazione, di
pranzare, di cenare e di cantare nell'intervallo. Sono freschi, sono
sani. Avvolti in carta sottile si conservano fino ad aprile». Insomma,
nella Sicilia dei tempi passati i fichidindia hanno assolto alla
medesima funzione cui assolvevano le castagne nell'Italia continentale.
Pane dei poveri, dunque! Ma da quando?
I documenti più antichi, letterari e iconografici, che attestano la
presenza del provvidenziale cactus nell'Isola non sono anteriori al
Seicento. Ad affermarlo sono i professori Giuseppe Barbera e Paolo
Inglese dell'Istituto di Coltivazioni Arboree dell'Università di
Palermo, ossia «i maggiori conoscitori italiani dì fichidindia». Dalle
loro ricerche abbiamo appreso tante cose. Sappiamo per certo, oramai,
che la pianta è originaria dell'altopiano messicano dove sono stati
rinvenuti alcuni reperti fossili (semi di ficodindia) databili nel
settimo millennio prima dell'era cristiana. In quell'area è peraltro
fiorita una curiosa leggenda relativa alla fondazione di Tenochtitlan,
già capitale dell'impero degli Aztechi e attuale Città del Messico. «I
nomadi che scendevano dal nord verso il centro della regione erano
guidati da una profezia: la loro peregrinazione avrebbe avuto fine
quando avessero incontrato un'opunzia [pianta di ficodindia] che
sorgeva dalla fenditura di una roccia con sopra un'aquila che si
nutriva di un serpente». Ebbene, questa scena è ancora oggi riprodotta
nello stemma degli Stati Uniti del Messico. Dal Messico il ficodindia è
approdato, dopo la scoperta dell'America, nel Vecchio Continente e in
alcune regioni africane. Si è però acclimatato solo dove ha trovato
l'ambiente adatto.
Quello siciliano si è dimostrato tale, fino al punto d'insinuare in
qualche studioso il sospetto che la spinosa pianta potesse avere remote
origini locali. Ma che venisse da fuori non hanno mai dubitato i
siciliani, se non altro perché il suo nome (comunque pronunciato nelle
parlate locali) ha sempre evocato l'immagine di un frutto originario
dell'India. Ma non mancano le eccezioni.
A Modica, per esempio, i fichidindia si chiamano fìcumori, cioè fichi
dei Mori. Più difficile è capire quale origine gli attribuiscano i
Ragusani, visto che li chiamano ficupali, fichi delle pale, cioè dei
cladodi, di quelle strane articolazioni spinose che fungono da rami e
da foglie.
Ma, a ben riflettere, anche a Ragusa si tramanda la legenda, nota in
tutta l'Isola, secondo la quale in tempi lontani i fichidindia erano
velenosi e perciò furono introdotti in Sicilia dai Turchi, che volevano
far morire la «carne battezzata», cioè i Siciliani; ma per fortuna,
come ci ricorda Pitrè, «fosse miracolo, fosse benefica diversità di
clima, vi si acclimò felicemente e cominciò a dar frutti sani e dolci».
A ogni buon conto, d'origine indiana, mora, turca o messicana, il
ficodindia c'è ormai da tempo, in Sicilia. Ne connota
inconfondibilmente il paesaggio agrario, comunque allevato: in funzione
di siepe o di foraggio, di coltura promiscua o specializzata.
C'è da chiedersi, semmai, che razza di Sicilia sarebbe l'Isola senza i
fichidindia. Pianta esotica quanto si vuole, il ficodindia deve non
poca della sua fortuna a questa regione ch'è continente in miniatura,
terra di grande inventiva, culla dei primi frutti scuzzulati, di quei
meravigliosi bastarduna vermigli che d'autunno fanno a tutte le ore
bella mostra di sé sui carrettini dei venditori ambulanti delle città
siciliane e sulle bancarelle di tutta l'Italia e che, dagli aeroporti
di Palermo e Catania, spiccano il volo per raggiungere mercati lontani,
ovunque li richiedano gli estimatori. Sì, sono stati prodotti in
Sicilia i primi ficodindia "scozzolati", checché ne dicano gli
Spagnoli. E non poteva essere diversamente, considerate le condizioni
in cui avvenne la prima "scozzolatura".
«È voce generale - scriveva nel 1884 l'agronomo siciliano Alfonso
Spagna - che un colono di Capaci si rifiutasse di vendere la produzione
dei suoi fichi d'India ad un conterraneo che vi aspirava e che costui,
indignato del diniego, vendicasse la ricusa con la violenza,
atterrandogli i frutti in piena fioritura. Quest'eccesso vandalico
produsse effetti contrari alle sinistre intenzioni del malvagio autore.
I frutti rinacquero poco dopo negli internodi in minor numero, ma
turgidi e promettenti oltre l'usato e vennero a maturazione con buccia
fina e polpa così serrata e consistente da potersi conservare a
magazzino per più mesi e resistere agli eventi delle lunghe
navigazioni». Mai sfregio è stato così benefico e illuminante. «Un
cotal Vincenzo Ferrante da Bellolampo, scosso dagli effetti
meravigliosi di quel trovato, avrebbe scoccolato i suoi fichidindia in
fioritura con pari successo e da quel tempo finora lo scoccolamento
delle bacche verdi fu adoperato in larga misura per ottenere da quella
Cactea i migliori frutti desiderabili».
I fichidindia un tempo si mangiavano anche per devozione: se ne
facevano grosse scorpacciate a digiuno nei giorni di vendemmia. Oltre
che allo stato fresco, si consumavano - come adesso - sotto forma di
marmellata e mostarda. Con le bucce si fanno squisite frittelle, la
polpa viene adoperata nella preparazione di ottimi liquori. Il succo di
ficodindia è importante rimedio contro la tosse. I frutti più scadenti,
i cosiddetti cularrussa (che vengono a maturazione fuori stagione) si
sono sempre dati in pasto ai porci. I fiori essiccati - che tutt'ora si
vendono a caro prezzo nelle bancarelle dei vecchi mercati di Palermo e
nelle migliori erboristerie dell'Isola - si usano per preparare,
talvolta su consiglio medico, infusi e decotti diuretici. Le pale,
oltre a integrare l'alimentazione di bovini, ovini, caprini e,
all'occorrenza, anche di asini affamati, possono essere considerate
veri e propri farmaci, a voler credere a certe "medichesse del popolo"
dal sussiego da gran dottoroni. Una pala fresca legata al collo
sconfigge il mal di gola. Ma cosa non si curava un tempo con le pale di
ficodindia? A parte il tumore alla milza (per il quale bisognava
seguire un rituale complicato e recitare un'orazione che pochi
conoscevano), dalle malattie cutanee alle slogature, alle lussazioni,
alle febbri malariche, ai rilassamenti dell'ugola, alla stessa
tubercolosi... tutto si curava con le pale di ficodindia "vergini", che
non avessero, cioè, mai prodotto fiori. Il segreto stava (e per molti
versi sta ancora) nel saperle spaccare come Dio comanda e nel preparare
a regola d'arte le "picate" e i "cataplasmi".
Con le pale si costruivano alcuni giocattoli: sedioline, tavolinetti,
carrettini siciliani. Le pale vecchie e ingobbite sostituivano i guanti
nella raccolta dei fichidindia. Fungevano da contenitori per la manna
fluente dai frassini sfregiati dal coltello del mannaloro; da piatti in
certi banchetti campestri, durante i quali, se mancava l'acqua e
bisognava pulire il coltello, non era un problema: bastava affondare la
lama in una pala. Le pale secche facevano degnamente le veci della
paglia nell'alimentazione del fuoco. E se non proprio le pale, quanto
meno i frutti di ficodindia hanno sempre eccitato la fantasia creativa
anche di gente che vive in città. Per incrementare le vendite, un
ambulante palermitano inventò "iocu d'a ficurinia c'a spingula". «Il
gioco consiste - si legge in un libro di Giuseppe Piazza - nel segnare
con uno spillo, ad insaputa dei clienti, un frutto da quelli scelti da
mangiare e a colui che toccherà il fico d'India segnato, toccherà anche
di pagare il conto».
Insomma, questa pianta multifunzionale importata dal Messico in Sicilia
continua a testimoniare umilmente tante storie silenziose e di lunga
durata, di cui però oramai si sta perdendo purtroppo persino la
memoria. Spetta, quindi, ai siciliani recuperarne storia e
utilizzazioni nei progetti di animazione e sviluppo rurale
eco-sostenibile.
Prof. Giuseppe Oddo
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