'Più testi meno contesti' di Francesco Diego Tosto
Data: Sabato, 01 febbraio 2014 ore 07:30:00 CET Argomento: Redazione
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gennaio nei pressi di Catania.
Vi propongo un mio pensiero sulla letteratura.
Più testi
meno contesti! Una frase ad effetto, uno slogan? No, solo
un’accorata esortazione dato che in materia letteraria resistono
ancora, ben arroccati nei loro percorsi, antiquati sistemi di
insegnamento. Quali? Quelli che mirano ad ingabbiare scrittori,
artisti, filosofi, all’interno di movimenti, correnti, mappe
concettuali e, appunto, contesti! Per quale fine?
"Per comodità di studio" – si dice solitamente - o "per dare ordine e
sistematicità", si ridice arzigogolando. Che idea peregrina. Essa
anziché semplificare, complica; anziché ordinare, disordina. E che dire
delle formulette del tipo:
Foscolo neoclassico-romantico;
Pascoli e D’Annunzio, testimoni di un decadentismo "bifronte", dimesso
e fiero;
Ungaretti e Montale, ermetici ma non del tutto.
Per non parlare degli scrittori classificati in recinti temporali con
un -pre, o quelli dotati di un -post o di un -neo.
Poveri scrittori, a cui si vuole dare una casa spogliandoli però
dell’anima.
Mi vengono in mente i personaggi pirandelliani in cerca d’autore, ma
poeti e scrittori sono già autori, forzati prigionieri, in cerca di
autenticità e libertà.
Hanno scritto pagine di vita e le hanno affidate al tempo; spetta a noi
il dovere di conservarle genuine e non corredarle di gabbie storiche,
economiche, politiche, sociali, religiose, spesso disposte come cornice
inadeguata di quadri non corrispondenti.
Rispettiamo gli scrittori e anche i nostri alunni; siamo noi a
guidarli; lasciamo che essi ricavino soprattutto dai nudi testi
intuizioni, incanti, "lacrime intellettuali", diceva Pasolini; lasciamo
il pensiero "ignorante", non contaminato, nato cioè dall’anima che
"ignora" un cammino non suo, poiché il pensiero nell’anima intende
sostare.
Sono allora inutili i contesti?
Non abbiamo detto questo. Sono il più delle volte rigidi contenitori,
spesso assoluti. Si appropriano di uno scrittore, lo racchiudono nei
loro binari interpretativi e semmai lo vedono crescere, trasformarsi,
diventare altro da sé.
Forse i critici hanno voluto solo proteggerlo, affidandolo ai "Pilastri
della cultura":
la Società, il Potere, l’Etica, ma come i "lanternoni" di letteraria
memoria, essi risulteranno spesso illusori e inattendibili. Poveri
autori e anche poveri critici. Hanno creduto di ridurre le risorse di
un testo ad un paradigma, compiacendosi del riuscito incastro. Ma la
letteratura non è né enigmistica né matematica, non è un esercizio
algebrico con il risultato annesso, non farà mai gridare al
ricercatore: "è così!".
La letteratura non conduce ad un esito, non vuole corrispondere; essa è
un’attitudine, un’emozione, sorprende, incoraggia il possibile, offre
un’esperienza interiore, contiene una vertigine, un abisso, se no
diventa mestiere. La letteratura rifugge dalle logiche della Scuola o
dell’Ateneo, si divincola dai legacci accademici, superando ogni
categoria che ne tarpi le ali; è la critica che invece soffre spesso di
militanza e con protervia copre l’essenziale.
Tra testo e contesto - in ultimo - non sempre c’è una linea di
continuità; se così fosse la letteratura sarebbe scontata e
prevedibile. Se il testo è figlio del contesto, non è detto che ne
indossi sempre la genetorialtà anzi, direbbe Seneca, esso "rivendica se
stesso".
Ahimé, penserete, se le cose stanno così, il critico e il professore
hanno perso il lavoro?
In un’epoca di crisi non sarebbe meraviglia. Ma il rimedio c’è.
Tornino in fretta alla loro professione originaria: essere soprattutto
"lettori", prima che interpreti!
Facciano in modo che emerga dalla "lettura" prima di ogni cosa la
bellezza e non - diceva Borges - le circostanze, spesso incollate,
della stessa.
Francesco Diego Tosto
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