Del cùnzulu e dintorni nella Sicilia d’un tempo
Data: Domenica, 26 gennaio 2014 ore 06:30:00 CET
Argomento: Redazione


Ovunque in Sicilia, in città e in campagna, era tenuto in gran conto il proverbio "A ccu ti leva ‘u pani, lèvaci ‘a vita". Si trattava di un’impietosa norma etico-giuridica, condannata dalle leggi dello Stato ma condivisa a livello folklorico. E non a caso giacché, essendo il pane (similmente al sangue) fonte di vita, chiunque lo levasse al prossimo meritava di essere ucciso, come il primo omicida nella vendetta barbaricina. Ma la morte prima o poi arrivava per tutti; ed era sempre causa di disordine esistenziale, specialmente nelle famiglie più povere. Il compito di rimuovere gli effetti più devastanti spettava anche al pane e agli attrezzi che servivano a produrlo. Il ruolo di questi ultimi era, per la verità, limitato al momento dell’agonia, «particolarmente esposto al pericolo della "perdita dell’anima"».
Antidoto certo era questo scongiuro:
 "Ti vagnu, Ti spagnu, Ti scugnu / a lu nomu di Diu! / cu st’acqua ca la benedici Gesù, / cu stu mazzettu di pitrusinu ch’ha la so virtù. / Va’ fora brutta bestia! In nomu di lu Patri, di lu Fìgghiu e di lu Spiritu Santu”.

Faceva parte del rituale bagnare la lingua del moribondo con un mazzetto di prezzemolo intinto in un bicchier d’acqua. All’origine dello scongiuro c’era anche la credenza che l’agonia prolungata fosse segno di una maledizione divina e che in fin dei conti con i suoi movimenti incontrollati lo stesso agonizzante manifestasse la volontà di salutare la casa. Bisognava porvi rimedio cercando di capire quali norme divine avesse violato colui che stentava a morire.
Uno dei tabù più radicati era distruggere gli attrezzi di lavoro.
A tal proposito recentemente «è stata rilevata la persistenza di un complesso di credenze e di pratiche relative alla tabuizzazione degli oggetti, all’agonia assunta come pena per la sua violazione e ai meccanismi di risoluzione della crisi agonica, molte delle quali già rilevate dai demologi ottocenteschi».

Eccone alcune:
A Furci e a Limina non possono essere distrutti né giogo né aratro da chi non li abbia costruiti: essi, comunque, non vanno mai arsi.
Ad Agira chi abbia bruciato un giogo non può avere buona o rapida fine. Qui viene costruito (con cera, con canne o legno) un giogo in miniatura che è posto sotto il letto di chi agonizza […].
Anche a Nissoria non è lecito dar fuoco al giogo, pena un’indefinita e dolorosa sospensione del trapasso.
Si usa dire:
Cu ammazza jatti e abbrucia isi nun po’ nesciri di ’stu paisi.
(Chi ammazza gatti e brucia gioghi non può uscire da questo paese).

Quando qualcuno stenta a morire, oltre a porre l’aratro sotto il letto, un membro della famiglia del moribondo va a gridare il suo nome per sette immondezzai diversi (si suol dire, vanniari lu numi ppi setti munnizzari).

A Nicosia, inoltre, non possono essere arsi l’aratro, il bastone da pastore, la zappa, e secondo una credenza popolare, quanti arnesi di lavoro sono a contatto con il sangue, umano o animale.
Ancora un’usanza relativa all’agonia è stata registrata a Mistretta.
È credenza che soffrirà a lungo, prima di morire, chi avrà, come altrove, arso un giogo o mangiato una gru. Qualora si fosse attentato alla loro inviolabilità, è necessario un rituale teso a purificare dalla colpa e rendere più agevole il trapasso. Un parente del moribondo deve uscire, chiudendo dietro la porta, quindi bussare e contemporaneamente recitare ad alta voce:
"Perché hai bruciato il giogo o hai mangiato carne di gru? Se non sei morto, muori".
Secondo un’altra versione, sempre a Mistretta, un vicino o un parente si affaccia alla finestra e grida la formula suddetta, mentre dirimpetto un’altra vicina la ripete.

Prof. Pippo Oddo





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