La critica lettreraria
Data: Sabato, 25 gennaio 2014 ore 20:00:00 CET
Argomento: Redazione


È incredibile come ancora ci sia qualcuno convinto che servirsi della letteratura per spiegare alcuni aspetti della realtà non significhi affatto distrarsi dalla specificità del testo. Di fatto, è la letteratura stessa che invita i suoi cultori a non relegarla all'interno di quel novero angusto dove, separata da ciò che la circonda, non potrebbe che consumarsi su se stessa, diventare un esercizio sterile che esaurirebbe presto la sua funzione, se mai potesse arrivare − secondo questa traccia − ad averne una. Parlare di letteratura non impone necessariamente di fare accademia oppure, sul versante opposto, di sporcare la purezza dell'opera. Se, in sede di analisi, considero l'estensione di ciò che è scritto su quello che circonda l'autore o, viceversa, la ricaduta di un fatto effettivamente successo sullo scritto letterario, facendo sì che gli estremi (posso definirli impuri?) di questo rapporto non risultino snaturati, sto forse travalicando il senso di ciascuno di essi?
Se anche osservassi che la letteratura è un luogo di salvezza, non sarei comunque autorizzato a pensare che la sua comprensione passi esclusivamente dal corpo a corpo col testo: si tratta di un punto di partenza, di sicuro imprescindibile, che però deve condurmi da qualche altra parte, fuori dai limiti della pagina.

Mi pare che un'indicazione possa fornircela Thomas Bernhard che affronta la questione all'interno de La fornace (l'edizione originale è del 1970, mentre la foto qui sotto, scattata nel 2013, è Cemento 4 di Francesco Delia); lo fa, giocando romanzescamente sul modo in cui il saggio dedicato all'udito al quale Konrad − il protagonista − sta lavorando da quasi vent'anni possa finire per coincidere in tutto e per tutto con la sua esistenza.

Il gigantesco inganno che ne deriva trova un equivalente materiale nell'edificio posto al centro della vicenda, la fornace appunto, ma già l'idea di esso assume una concretezza (che è anche salienza di stile) riscontrabile in diversi momenti della storia. Ecco come l'autore spiega la consistenza di quel raggiro sin dalle prime pagine: «qualsiasi idea della fornace e persino l'idea di un'idea, è sempre in ogni caso un'idea falsa, svilente. [...] La realtà è in realtà sempre diversa, è il contrario che − in realtà − è sempre la realtà» (T. Bernhard, La fornace, Torino, Einaudi, 1984, pp. 23-24).

Si vede bene come la costruzione della frase, come quella dell'edificio, «è stata studiata mirando all'inganno totale» (p. 24) e come la mente di Konrad (ma anche il suo corpo) sia fatta «proprio per gli edifici come la fornace» (ibidem), un enorme carcere composto da tante stanza vuote e da soffitte piene di robaccia. È questo stesso luogo (idilliaco e anti-idillico per eccellenza) − insieme a una frase che si ripete fino all'esaurimento − che arriva a esemplare quel processo di dissolvimento dell'Io che tanto spesso, come nell'esempio che riporto di seguito, ha attirato l'attenzione di Bernhard:
La massa nega al singolo ciò di cui soltanto la massa è capace e il singolo nega alla massa ciò di cui soltanto la massa è capace, ma il singolo non si cura della massa, in fin dei conti si cura solo e soltanto di se stesso con gran vantaggio per la massa, così come la massa non si cura del singolo con gran vantaggio per il singolo, la massa riconosce l'opera del singolo solo attraverso l'annientamento del singolo e il singolo riconosce la massa solo attraverso l'annientamento della massa e così via. (p. 50)

Per sottrarsi a questa inevitabile deriva, per mettere il saggio nero su bianco, Konrad sceglie l'isolamento assoluto della fornace, essendo convinto che, distaccandosi dal resto del mondo, riuscirà più facilmente nell'intento prepostosi. Una testa legata alla realtà esterna troverebbe maggiori difficoltà ed è per questo che Konrad si ritira dalla società, pur non potendo fare a meno di considerare il pensiero che riuscirà a mettere il saggio per iscritto perché vive nella fornace e, al contempo, il pensiero che non riuscirà mai a mettere il saggio per iscritto proprio perché vive nella fornace (cfr. p. 166).

Il saggio è tutto per Konrad e, una volta scritto, tutto sarebbe senza importanza. Ma egli riuscirà a completarne la stesura? Anche se la sua idea è già compiuta nella sua mente, sarà in grado di realizzarla, ribaltando sulla carta ciò che è già nella sua testa? Oppure risiede proprio nella sua compiuta incomunicabilità che la verità del saggio assume un senso? E comprendere che i limiti del testo superano più spesso di quanto si creda quelli della pagina, o che l'identità è configurabile soltanto antagonisticamente, che i fatti non sono solidi e che è lecito andare oltre il mero intento descrittivo o formalisticamente corretto, non significa forse assumere una prospettiva criticamente avvertita?

Alessandro Gaudio - "Eco dei Monti", Nicosia





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