La Corte Costituzionale dichiara legittimo il blocco delle retribuzioni nel pubblico impiego: ma qualcuno è più uguale degli altri!
Data: Giovedì, 23 gennaio 2014 ore 19:15:25 CET
Argomento: Recensioni


di Francesco G. Nuzzaci, segretario Dirigentiscuola della Puglia.
( Il presente contributo è stato scritto per la rivista Scuola & Amministrazione, numero 1 di gennaio 2014,nel suo nuovo formato telematico. Lo riportiamo qui per volontà dell’autore e con il permesso dell’editore).
La Corte costituzionale.In un prezioso libretto d’una decina di anni fa,scritto a più mani dai suoi stessi protagonisti per gli studenti della scuola secondaria superiore,si dice che la Corte costituzionale è un giudice molto particolare.
Lo è,anzitutto, per la sua composizione: quindici esperti tecnici del diritto,di cui cinque magistrati di carriera,appartenenti alle supreme magistrature e dalle medesime designati(tre espressi dalla Corte di cassazione,uno ciascuno dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti),dieci professori universitari ordinari e/o avvocati con almeno vent’anni di esercizio,per una metà eletti dal Parlamento,per l’altra nominati dal Presidente della Repubblica,normalmente in funzione di integrazione e di riequilibrio rispetto alle scelte effettuate dalle due Camere in seduta comune.

In tal modo la Corte costituzionale si vuole che sia lo specchio il più possibile fedele del pluralismo politico,giuridico e culturale del Paese. Perché,a differenza dei comuni organi giudiziari(ordinari,amministrativi,contabili e delle giurisdizioni speciali),non è propriamente chiamata ad applicare le leggi( il che,peraltro,non costituisce un’operazione soltanto tecnico-giuridica),bensì a giudicarne la conformità alla Costituzione,con valutazioni che – sebbene pronunciate in punto di diritto – richiedono,in senso lato,una sensibilità “politica”,che si alimenta di un dialogo costante con i giudici comuni e – non meno – con le supreme istituzioni politiche esercitanti il potere legislativo: il Parlamento,espressione della generale sovranità popolare,ma anche il Governo-legislatore,che invece – nell’interpretare gli interessi generali – è comunque espressione di una maggioranza politica(nonché,e pur sempre,datore di lavoro nel pubblico impiego).
Certamente,la cennata sensibilità è pure intrinsecamente esigita dalla stessa formulazione del testo costituzionale,che contiene sì precise disposizioni( costrutti linguistici di senso definito,da cui enucleare,con una più o meno agevole operazione ermeneutica,la norma: cioè la regola da far valere nella soluzione del caso concreto sottoposto alla cognizione del giudice),ma anche principi,cioè enunciati generici ed elastici,da cui dedursi la norma alla luce dei cangianti contesti,dell’evoluzione sociale dei costumi,dei valori e delle diverse visioni,che una comunità esprime nel tempo.
Senonché la sensibilità “politica”,nell’interpretare(rectius,ricavare)la norma,può travalicare in un “giudizio politico”: che risponde al – proprio – criterio,soggettivo,dell’utile (o del giusto,dell’opportuno),e non al criterio del vero,secondo i canoni intersubiettivi posti dalla scienza giuridica,che vincola ogni giudice,nell’interpretare e applicare la norma,al solo imperio della legge. Di conseguenza,può verificarsi ,più che una fisiologica e dialettica interferenza,un contrasto con il potere legislativo; che comunque,in qualche misura,possiede gli strumenti per riappropriarsi delle sue prerogative. Può però,non di meno,consumarsi una compressione dei diritti dei cittadini sulle materie sottoposte al vaglio di costituzionalità – e non sempre di tutti i cittadini – ,senza che vi siano dispositivi ripristinatori nell’ordinamento,siccome – è noto – trattasi di statuizioni  ex se definitive,spieganti altresì,a differenza delle sentenze emesse dai giudici comuni, validità erga omnes(sostanzialmente,creano diritto in senso oggettivo),dunque inappellabili.A meno che non vi provveda la stessa Corte.
Si legge infatti,sempre nel libretto da cui si son prese le mosse per queste notazioni introduttive,che la Corte costituzionale può ben mutare opinione su una questione – sulla stessa questione – già decisa in modo opposto,in seguito a differenti e/o nuove prospettazioni dei giudici remittenti.
Non è frequentissimo,perché la lunga durata del mandato(nove anni),i complesssi meccanismi di designazioni-elezioni-nomine peraltro sfalsate nel tempo,la collegialità piena delle decisioni(occorre sempre la presenza di almeno undici dei quindici componenti l’assise)costituiscono fattori di una strutturale stabilità delle decisioni(tecnicamente,della sua giurisprudenza).
Non è frequentissimo,ma può esserlo,anche a brevissima distanza di tempo,poco più di un anno,come nel caso qui in trattazione.
Inversione dell’ordine espositivo
E’ del 17 dicembre la sentenza  numero 310/13, che ha ritenuto legittima la reiterazione del blocco delle retribuzioni per il personale in regime di diritto pubblico e,a fortiori e per le motivazioni ivi esposte,per quello contrattualizzato; con un clamoroso ribaltamento dell’impostazione argomentativa figurante nella precedente sentenza,sull’identica materia,n. 223 dell’8 ottobre 2012,resa dagli stessi undici giudici tuttora in carica,unitamente ai subentrati a coloro medio tempore cessati Tal che sarà,ora, solo ed esclusivamente il pubblico impiego ad accollarsi un persistente sforzo solidaristico, che dura dal 2009 e che,a questo punto,esclusa comunque ogni possibilità di recupero,non è dato di prevedere quando potrà cessare.
Per comprendere,per primi noi stessi,nella massima misura consentita dalle nostre capacità,le performance degli illustri giudici del Palazzo della Consulta esibite nella sentenza che ha chiuso il 2013, la linearità(e la plausibilità) dei loro passaggi argomentativi sub specie iuris,la stessa cifra della loro “sensibilità politica”,è bene partire  da una più analitica disamina della sentenza 223/12; il che ci consentirà altresì di realizzare un’economia espositiva sulla parte centrale della trattazione.
Investita da una serie di ordinanze di remissione da parte di quindici,sui ventitré,TAR della Repubblica,aditi da magistrati ordinari,amministrativi e contabili,la Corte costituzionale ha pronunciato l’illegittimità di diverse disposizioni del decreto legge 78/10,convertito nella legge 122/10,per violazione degli articoli della Carta fondamentale: 2(principio solidaristico),3(principio dell’uguaglianza),23(principio dell’imposizione personale o patrimoniale solo in base a una legge),24(inviolabilità della difesa in giudizio dei propri diritti e interessi legittimi),36(giusta retribuzione),42(divieto di espropriazione,se non nei casi preveduti dalla legge per motivi d’interesse generale e salvo indennizzo),53(universalità e progressività del sistema tributario),97(imparzialità e buon andamento dell’amministrazione),101(soggezione dei giudici solo alla legge),100,104,108(autonomia e indipendenza della magistratura da ogni altro potere),111(giusto processo),113(pienezza della tutela giurisdizionale),117(vincolo dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali con riguardo all’art. 6 della Convenzione internazionale dei diritti dell’uomo,concernente ancora il giusto processo).
Poiché le questioni avevano ad oggetto,in larga parte,le stesse norme,censurate con argomentazioni anch’esse in larga misura coincidenti,la Corte aveva disposto la riunione dei giudizi,ai fini di un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.
Nell’ordine:
1.     E’ dichiarata l’illegittimità del’art. 9,comma 22 del d.l.78/10, laddove,in concreto,prevede per il personale della magistratura,di cui alla legge 27/81(magistrati,avvocati e procuratori dello Stato),il blocco della retribuzione complessiva ai livelli del 2010,con gli inerenti recuperi degli acconti già corrisposti e la riparametrazione del conguaglio per l’anno 2015:ciò che costituisce il parallelo del blocco nei confronti dei pubblici dipendenti contrattualizzati.
Per la Corte la preservazione dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura impone la sua sottrazione ad una dialettica contrattualistica col datore di lavoro pubblico(lo Stato) ,così come parimenti impone l’integrità e l’immodificabilità degli automatismi della retribuzione,in definitiva per non dipendere dall’arbitrio di un altro potere. Al riguardo,vengono richiamate le sentenze 1/78,238/90,42/93 e le ordinanze 137 e 346 del 2008,supportate dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente a sostegno dell’assunto secondo cui di cui “Il rapporto fra lo Stato e la magistratura, come ordine autonomo e indipendente,eccede i connotati di un mero rapporto di lavoro,in cui il contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore del rapporto”.
In precedenti circostanze(sentenza 245/97,ordinanza 289/99) misure finanziarie restrittive per il pubblico impiego erano state legittime perché “eccezionali,transeunte,non arbitrarie e consentanee allo scopo prefisso”:di riequilibrio della finanza pubblica,siccome limitate a un solo anno. Ma,nel caso di specie,i limiti sono stati irragionevolmente superati,peraltro spiegando un effetto ultroneo,sino a tutto il 2015,rispetto all’intervento emergenziale stabilito dal legislatore per il triennio 2011-2013(poi prorogato sino al 31 dicembre 2014: infra),suscettibile di determinare effetti permanenti del blocco dell’adeguamento soltanto per le categorie incise,con conseguente violazione dell’art. 3 cost.(oltre ai menzionati principi costituzionali posti a presidio dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura) e dell’art. 53,codificante – lo si ricorda – il principio dell’universalità e della progressività del sistema tributario.
Quanto alla violazione dell’articolo 3,è ben evidente come “la disciplina in esame realizzi un’ingiustificata disparità di trattamento fra la categoria dei magistrati e quella del pubblico impiego contrattualizzato,che vede limitata la possibilità di contrattazione soltanto per un triennio”.Perché – proseguono i giudici della Consulta – “il fatto che i magistrati,esclusi dalla possibilità di interloquire in sede contrattuale,si giovino degli aumenti contrattuali soltanto con un triennio di ritardo,salva la previsione di acconti,non può consentire di arrecare esclusivamente ad essi un ulteriore pregiudizio,consistente non soltanto nella mancata progressione relativa al triennio precedente,ma anche conseguente all’impossibilità di giovarsi di quella che nella contrattazione nel pubblico impiego potrebbe raggiungere oltre il triennio di blocco. In questo caso,l’intervento normativo censurato,oltre a superare i limiti costituzionali indicati dalla giurisprudenza di questa Corte,che collocava in ambito estremo una misura incidente su un solo anno,travalica l’effetto finanziario voluto,trasformando un meccanismo di guarentigia in motivo di irragionevole discriminazione. In definitiva,la disciplina censurata eccede i limiti del raffreddamento delle dinamiche retributive,in danno di una sola categoria di pubblici dipendenti”.
Quanto alla violazione dell’articolo 53,non è meno evidente che l’intervento del Governo,qui censurato,solo formalmente è ascrivibile a misure preordinate al mero risparmio di spesa,peraltro non distribuita sull’intera platea dei contribuenti. Perché,in concreto,esso riveste natura tributaria,atteso che – secondo consolidata giurisprudenza della Corte: in particolare, sentenze 245/97 e 299/99 – è dato qui ravvisarsi la concorrenza dei tre elementi indefettibili di ogni fattispecie tributaria: prestazione imposta in via autoritativa e in assenza di sinallagma(perché in capo al soggetto passivo non corrisponde un’attenuazione delle proprie obbligazioni); consistente in un’ablazione di somme di denaro(direttamente o indirettamente,poco importa);destinate allo scopo di approntare mezzi per il fabbisogno finanziario dell’ente stesso(cioè del Governo,nella sua qualità di legislatore materiale e non di datore di lavoro) a fini generali e senza specifiche e predefinite destinazioni.
Se così è – ancor più perché trattasi di misure dichiarate eccezionali e prive di ulteriori riflessi – allora risultano violati i principi di universalità (tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche…) e di progressività(…in ragione della loro capacità contributiva).
E se la norma non avesse una natura tributaria,comunque “sarebbe incontestabile la sua natura sostanzialmente espropriativa,dal momento che determinerebbe una vera e propria ablazione di redditi formanti oggetto di diritti quesiti,senza alcuna indennità. In tal senso,infatti,non potrebbe dubitarsi del fatto che il fenomeno espropriativo possa astrattamente colpire anche beni mobili fungibili,quali il denaro (nella specie,gli stipendi pubblici),sicché si tratterebbe altresì di una norma-provvedimento,con conseguente violazione dell’art. 97 cost.,avendo tale norma mutuato la natura del provvedimento,elidendone la fase del procedimento,deputata,fra l’altro,alla partecipazione degli interessati,al fine di interloquire sulla legittimità e sull’opportunità delle scelte cui sono chiamati a contribuire con il loro sacrificio.”
 2- Illegittimità,sempre del comma 22,nel punto in cui riduce l’indennità giudiziaria del 15%,25%,32%,rispettivamente per gli anni 2011,2012 e 2013.
Dovendosi ritenere la predetta indennità di natura retributiva( e quindi anch’essa di natura tributaria),facendo ordinariamente parte del trattamento economico complessivo e continuativo di ogni magistrato nell’espletamento della sua funzione,l’effetto sarebbe addirittura regressivo,perché percentualmente sono in misura maggiore colpite le retribuzioni,più basse,dei magistrati con minore anzianità di servizio.
E,sempre qualora essa non dovesse rivestire natura tributaria,sarebbe pur sempre da censurarsi l’ingiustificata disparità di trattamento con riguardo alle indennità percepite dagli altri dipendenti statali,non assoggettate,negli stessi periodi d’imposta,ad alcun prelievo tributario aggiuntivo. Di più,il mancato rispetto dei canoni della ragionevolezza e dell’eguaglianza emergerebbe dal fatto che la precipua funzione dell’indennità giudiziaria è di “compensare l’attività dei magistrati di supplenza delle gravi lacune organizzative dell’apparato della giustizia”. E tanto basta,”restando assorbite le ulteriori censure”.
3- Illegittimità dell’articolo 9,comma 2: questa estesa a tutti i pubblici dipendenti – magistrati compresi – nei cui confronti è stata imposta la riduzione dei compensi del 5% sugli importi superiori ai novantamila euro annui lordi e del 10% fino a centocinquantamila e importi superiori.
Non può dubitarsi – per le regioni dianzi esplicitate – della stessa natura tributaria delle altre disposizioni impugnate,quindi parimenti esposta ai,sanciti,rilievi d’incostituzionalità: per non essere universale siccome prevista a carico dei soli pubblici dipendenti,e per non essere progressiva,dato che la riduzione del 10%,per le complessive retribuzioni da novantamila a centocinquantamila euro rimane immutata oltre i centocinquantamila.
D’altro canto,il legislatore,pur avendo richiesto(nell’articolo 2 del decreto legge 138/11) il contributo di solidarietà del 3% sui redditi annui superiori a trecentomila euro,preordinato sempre al reperimento di risorse per la stabilità finanziaria( quindi,di inequivoca natura tributaria),ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici,per la medesima finalità,l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura. Sicché,nel caso in esame, “l’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato,ma nella ingiustificata limitazione del novero dei soggetti passivi”,così sortendosi “un irragionevole effetto discriminatorio”.
4- Illegittimità dell’articolo 12,comma 10, laddove nel passaggio – a decorrere dall’1 gennaio 2011 – dal TFS(trattamento di fine servizio) al TFR(trattamento di fine rapporto), secondo la generale disciplina privatistica dell’art. 2120 c.c.,non è stata esclusa la trattenuta del 2.50% a carico del dipendente pubblico.
Vi è però da aggiungere che,sul punto,è fulmineamente intervenuto un decreto legge del 26 ottobre 2012,abrogativo del predetto comma 10 a far data dal primo gennaio 2011. Pertanto – per la salvaguardia di immediate esigenze di cassa – non è stata disposta l’altrimenti obbligata restituzione alla larga platea degli interessati,ma è stata prontamente ripristinata la pregressa normativa,per gli stessi più favorevole,ai fini della corresponsione della buonuscita.
5- Manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 17,comma 7,inerente le  modalità di corresponsione della predetta buonuscita, frazionata in due o tre rate annuali: per non avere riferito nessuno dei remittenti di essere investito di una domanda da parte di un magistrato in quiescenza,per qualunque causa,in epoca successiva al 30 novembre 2010( data di entrata in vigore della norma contestata) e ne abbia perciò subito gli effetti. Per cui, “l’assenza di un pregiudizio e di un interesse attuale a ricorrere rende evidente come i rimettenti non debbano fare applicazione della norma impugnata. Inoltre,neppure risulta individuato alcun  immediato pregiudizio subito dai magistrati in servizio,diverso dalla rateizzazione,che essi subiranno nel momento del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età,il giorno successivo a quello del compimento del settantesimo anno di età o a quello fissato nel provvedimento di trattenimento in servizio,ovvero per anzianità di servizio,ovvero per dimissioni”.
Ciò non toglie – pensiamo sia opportuno rimarcarlo – che,secondo i principi,qualora in un nuovo ed autonomo giudizio la questione dovesse essere riproposta e la Corte dovesse stimarla rilevante per la decisione del giudice a quo,ed ovviamente sussistendo l’interesse diretto,concreto e attuale del ricorrente,potrebbe ben arrivarsi, nel merito,alla declaratoria di incostituzionalità del frazionamento della buonuscita,ora prorogato,ed aggravato,dalla legge 147/13: in specie perché non vengono corrisposti – per quella che è una retribuzione differita,alimentata da contributi forzosamente versati,sia dal datore di lavoro che(ancora)dal lavoratore(pubblico) in costanza di rapporto – gl’interessi sulle somme spettanti e dilazionate,in violazione della disciplina civilistica sulle obbligazioni pecuniarie.
La plausibilità di quanto testé asserito trova un immediato e significativo riscontro nella stessa sentenza in commento,nel punto in cui i commi 2 e 9,art. 22,d.l. 78/10 – subito dopo colpito da declaratoria d’incostituzionalità – nelle prospettazioni dei TAR Abruzzo e Umbria,in sede di vaglio preliminare,non erano riusciti ad accedere al merito,essendo stata dichiarata la manifesta inammissibilità della questione,può dirsi per un vizio tecnico insito nelle ordinanze di remissione. Testualmente, “In particolare,il TAR per l’Abruzzo,dopo aver premesso che i ricorsi proposti riguardano le decurtazioni conseguenti all’applicazione dell’art. 9,comma 22,conclude affermando che le medesime censure enucleate con riguardo a tale ultima norma varrebbero,a maggior ragione,per il prelievo disposto dal comma 2,in quanto incidente direttamente sul trattamento stipendiale dei ricorrenti.
Analogamente,il TAR per l’Umbria…premette che i ricorrenti si dolgono del mancato adeguamento automatico delle proprie retribuzioni,nonché della decurtazione subita dell’indennità giudiziaria ad essi spettante. Prosegue,altresì,affermando come risulti rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del comma 22 dell’art. 9 e,tuttavia,procede in conclusione ad impugnare anche la norma contenuta nel citato comma 2,relativa alla riduzione del trattamento economico complessivo superiore ai 90.000 euro ed a 150.000.
In entrambi i casi,poiché tale profilo del trattamento economico non aveva fatto parte dei motivi di ricorso delle parti del giudizio,la questione di legittimità costituzionale risulta manifestamente inammissibile,in quanto sollevata in relazione ad una norma di cui il giudice rimettente non deve fare applicazione nel giudizio a quo”.
 
Dunque,secondo le prospettazioni dei TAR remittenti,condivise dai supremi giudici togati, “la novellazione oggettiva ed unilaterale del rapporto di lavoro,realizzata con il d.l. 78/10,oltre a tradursi nel grave scardinamento del principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza della retribuzione,sacrificherebbe la stessa dignità sociale della persona-lavoratore,che si trova soggetto,senza possibilità di difesa,ad aggressioni patrimoniali arbitrarie non solo nelle modalità del prelievo,ma nello stesso presupposto,perché a determinarlo è lo stesso soggetto(Stato) che opera il prelievo,avvalendosi della forza derivante dall’essere ad un tempo datore di lavoro e legislatore;che in effetti ha posto in esssere una manovra irrazionale,spropositata,discriminatoria…e sostanzialmente inutile”.
E’ certo – viene precisato in sentenza – che sono costituzionalmente legittimi interventi discriminatori astrattamente lesivi del principio di uguaglianza,e delle prerogative di indipendenza e autonomia della magistratura,purché circoscritti nel tempo e non trasmodanti. Ciò invece si è proprio verificato,nel mentre ben avrebbe potuto,e dovuto,il legislatore rispettare i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, “anche modulando diversamente un universale intervento impositivo…nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti i cittadini necessitano”.Perché,se pure “l’ordinamento costituzionale…non è indifferente alla realtà economica e finanziaria,con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza,sul quale è fondato”.
Inopinato revirement
Con nove ordinanze di remissione,sette TAR,aditi da docenti universitari tra maggio 2012 e marzo 2013,avevano nel complesso sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 9,comma 21,primo,secondo e terzo periodo del d.l. 78/10,per violazione di buona parte degli stessi articoli della Carta fondamentale censurati un anno prima dai ricorrenti magistrati,anch’essi pubblici dipendenti non contrattualizzati. Sono esclusi quelli riguardanti nello specifico la magistratura, ma vengono richiamati in parallelo l’articolo 9(che impone alla Repubblica di promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica) e l’articolo 33(che dichiara,nel primo comma,la libertà dell’arte e della scienza e il loro libero insegnamento,perciò attribuendo,nell’ultimo comma,alle istituzioni di alta cultura,università ed accademie il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato). Sicché i ricorrenti,tra le altre doglianze e con le motivazioni che le sorreggono,possono censurare come irragionevolmente penalizzanti “le forti decurtazioni stipendiali…,in contrasto con le richiamate disposizioni costituzionali che testimoniano la rilevanza sul piano sostanziale della ricerca scientifica e dell’insegnamento,essendo in particolare la centralità della ricerca scientifica richiamata all’interno dei principi fondamentali”. Da qui l’asserita equivalenza tra autonomia e indipendenza della magistratura e la libertà d’insegnamento e di ricerca : per rivendicare le stesse prerogative che i supremi giudici della Repubblica avevano  già statuito, davanti a se stessi!
Come risponde,nell’ordine, la Corte costituzionale alle formulazioni dei diversi quesiti dei giudici remittenti?
1-     Nelle misure finanziarie disposte dal legislatore non sussiste,anzitutto, violazione dell’art. 77 cost. per l’asserita mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza,perché gli stessi sono in re ipsa nelle finalità di contenimento della spesa pubblica. Che ora possono ben persistere per un tempo astrattamente indefinito,”attese le esigenze di programmazione pluriennale delle politiche di bilancio”.
2-     Non sono fondate le censure concernenti il mancato rispetto dei principi di progressività e di capacità contributiva,in quanto “alle disposizioni in esame(ora) non può riconoscersi natura tributaria,atteso che non danno luogo ad una prestazione patrimoniale imposta,realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio,destinata a reperire risorse per l’erario”.Ma –lo si vedrà a breve –  tali disposizioni non hanno neanche natura provvedi mentale(sì da implicare una necessaria partecipazione della categoria dei soggetti incisi).
3-     Non c’è pertinenza,e quindi una necessaria correlazione,tra l’autonomia – solo organizzativa – delle università e istituzioni di alta cultura,strumentale alla libertà dell’arte e della scienza e del loro libero insegnamento,e lo stato giuridico dei professori universitari,”i quali sono legati da rapporto d’impiego con lo Stato e sono di conseguenza soggetti alla disciplina che la legge statale ritiene di adottare”.
Il reiterato richiamo della sentenza 223/13 ,che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del blocco dei meccanismi di adeguamento retributivo per il personale di magistratura,non può essere invocato dai ricorrenti a fondamento delle loro ragioni,perché detta decisione “va ricondotta alle specificità dell’ordinamento della magistratura;specificità non sussistente nella fattispecie in esame”.
4-     La censurata irragionevolezza del blocco dell’adeguamento retributivo e del blocco della progressione economica per classi e scatti,siccome non temporalmente limitati,quindi non transeunti né eccezionali – perché previsti per tre anni  e poi quattro - ,deve “considerare l’evoluzione che è intervenuta nel complessivo quadro,giuridico-economico,nazionale ed europeo”.
Al riguardo,mette conto rimarcare che la riforma costituzionale dell’articolo 81(l. cost. n. 1 del 20-4-12) impone il pareggio di bilancio,in ciò corrispondendo ai vincoli comunitari,particolarmente significati dalla direttiva 8 novembre 2011,n. 2011/85/UE,del Consiglio dell’Unione, evidenziante come “la maggior parte delle misure finanziarie hanno implicazioni sul bilancio che vanno oltre il ciclo di bilancio annuale”,e che “una prospettiva annuale non costituisce pertanto una base adeguata per politiche di bilancio solide”.
Ragione per la quale i sacrifici,anche gravosi,imposti a tutto il comparto – ma non è proprio così! – del pubblico impiego,in una dimensione solidaristica,possono ben ritenersi circoscritti in un tempo limitato,”che comprende più anni in considerazione della programmazione pluriennale delle politiche di bilancio”
5-     E’ priva di pregio la lamentata discriminazione nei confronti di chi non dichiara le proprie disponibilità economiche all’amministrazione finanziaria(chi evade il fisco,insomma!),in quanto “il legislatore non potrebbe che operare su altri piani,precipuamente fiscali,con meccanismi quindi non comparabili con le misure in questione”.
Se poi,in generale,si intende contestare una disparità di trattamento del lavoro pubblico rispetto a quello privato,”non può non rilevarsi che le profonde diversità dello stato giuridico,si pensi alla minore stabilità del rapporto, e di trattamento economico escludono ogni possibilità di comparazione”.
6-     La ragionevolezza delle norme impugnate non viene neanche intaccata dalle “generiche e assertive doglianze relative all’assenza di responsabilità dei cittadini gravati dalle misure in esame …e alla mancata partecipazione degli stessi alle scelte di politica economica”.
7-     La prospettata disparità di trattamento riservata ai ricorrenti rispetto agli avvocati e procuratori dello Stato – anch’essi beneficiati dalla pluricitata sentenza 223/12,unitamente alle Forze di polizia – difetta della “mancata considerazione,da parte dei remittenti,delle specificità di ciascuna categoria professionale in regime di diritto pubblico”. La qualcosa “priva le censure del necessario quadro di riferimento”(sic!).
8-     Non è ravvisabile la lesione dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica,poiché “ il legislatore può anche emanare disposizioni che modifichino in senso sfavorevole la disciplina dei rapporti di durata,anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti,sempre che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale…situazione che nella specie non può dirsi sussistente”.
9-     Non c’è lesione dell’articolo 36 della Costituzione e correlati(artt. 3 e 97),dato che nel caso di specie non viene colpita la retribuzione nel suo complesso, né emerge “una situazione che leda le tutele socio-assistenziali degli interessati e dunque l’art. 2 cost.”
10- Il blocco delle classi e degli scatti non ha nessuna correlazione con il meccanismo di valutazione della qualità dell’offerta formativa,che non è connesso al solo sistema di avanzamento di carriere dei docenti e dei ricercatori universitari,”che pertanto non risulta compromesso”.
11- Infine,il dedotto profilo di illegittimità afferente ai differenti effetti del blocco in ragione della diversa anzianità di servizio maturata,non considera l’urgenza e l’ampiezza della manovra economica contenuta nel d.l. 78/10,e “la sua stessa struttura(che) non rendeva,dunque,possibile una frantumazione delle misure previste”.
D’altronde, “la materia attiene a scelte di politica economica e sociale,che non spetta a questa Corte valutare…se non nei limiti della evidente irragionevolezza,(e) non emergono elementi che possano indurre ad una tale conclusione”. Se pure è particolarmente gravoso il sacrificio imposto ai docenti più giovani,esso “appare,in quanto temporaneo,congruente con la necessità di risparmi consistenti e immediati”.
Riassumendo e concludendo
Andando a stringere,dal combinato disposto delle due sentenze esaminate è dato di ricavare certezze cristalline e – al momento,purtroppo – cristallizzate.
1-     I supremi giudici della Corte costituzionale, per primi e distaccandosi dai comuni mortali,si sono autoesclusi da ogni sforzo solidaristico,unitamente ai magistrati ordinari,amministrativi e contabili,nonché agli avvocati e procuratori dello Stato(che peraltro magistrati non sono),allegando la “tutela e garanzia della loro indipendenza…e per essere al riparo da ogni forma di interferenza”.
Per loro,e solo per loro,il blocco delle retribuzioni è tam quam non esset. Per fugare ogni equivoco il regolamento governativo di cui al d.p.r. n.122 del 4 settembre 2013 – avvalendosi della facoltà figurante nell’art. 6,comma 1,lett .b del decreto legge 98/11,convertito dalla legge 111/11 – puntualizza che la proroga del blocco degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti non contrattualizzati a tutto il 2014 non si applica per il personale della magistratura,avvocati e procuratori dello Stato.
Del pari,questa volta non solo per loro, si sono peritati ,dichiarando l’incostituzionalità del c.d. contributo di solidarietà del 5%(sopra i novantamila euro annui lordi) o del 10%(dai centocinquantamila ed oltre),di preservare l’integrità delle loro retribuzioni – sui quattrocentomila euro annui,benefits inclusi – e quelle dei colleghi delle giurisdizioni inferiori, ammontanti,in media,a centoventimila euro annui.
Ne hanno non meno beneficiato tutti i dirigenti pubblici,le cui retribuzioni veleggiano tranquillamente,ed anche notevolmente,oltre la soglia dei novantamila euro. Tutti i dirigenti pubblici,tranne i dirigenti delle istituzioni scolastiche,astretti surrettiziamente in un’autonoma area contrattuale all’interno del comparto scuola per contemplarvi la loro sublime “ specificità” capovolta. E difatti,quanto a remunerazione,sono agevolmente doppiati dai “generici”colleghi di pari seconda fascia: operanti in strutture amministrative semplici,non connotati dall’immedesimazione organica con un autonomo organo-ufficio pubblico a rilevanza esterna,socialmente non esposti; privi di un autonomo bilancio da gestire e di cui rispondere; non datori di lavoro e quindi non gravati dalle inerenti e pesanti responsabilità penali,civili,amministrative e contabili; attributari di competenze raramente autonome e comunque nominate, prevalentemente delegate e/o di supporto per la realizzazione di obiettivi e programmi circoscritti e ben definiti,in ciò avvalentisi dell’opera di poche unità di persone( i numeri dicono di una media di nove dipendenti per dirigente),quando non si è dirigenti solo di se stessi!
Il predetto contributo di solidarietà risulta adesso,in esito all’ultima legge di stabilità,riparametrato e traslato sulle,presunte,pensioni d’oro,quelle da duemila euro netti mensili in sù. E,astrattamente,sarebbe una misura più equa,se colpisse – come sembrerebbe – anche la magistratura; mentre è particolarmente odiosa,perché incide retribuzioni differite laddove siano integralmente coperte da contributi ,per lo più forzosamente versati : ed è il caso delle pensioni di “ottone”,dei duemila euro mensili netti o poco più. Ma,allo stato e volendosi mantenere coerenti,è ragionevole presumere che,qualora fosse sollevata una questione di costituzionalità, gli stessi illustri magistrati in toga nera lunga come una tonaca,collo e maniche merlettati,raccolti intorno a un lungo banco a forma di ferro di cavallo, sovranamente decreterebbero che questa rapina legalizzata è,almeno fino al 2016, “ congruente con la necessità di risparmi consistenti e immediati”.
2-     Le misure finanziarie di cui si discorre,non rivestendo più natura tributaria né provvedi mentale,perché preordinate a meri “risparmi di spesa”,privano i soggetti colpiti dalle garanzie e dalle tutele predisposte,nello specifico ,dai plurimenzionati articoli 53 e 97 della Costituzione.
In concreto,e per conseguenza,acquista una ,per così dire,rinforzata legittimazione postuma il citato d.p.r. 122/13,che,tra l’altro,ha congelato, sempre ai livelli del 2009, la  già risibile indennità di vacanza contrattuale sino al 2017, prefigurando, in fatto, un ulteriore rinvio dei rinnovi contrattuali e senza possibilità di recupero delle mancate utilità economiche per i trienni 2010/12, 2013/15 – oramai andati in cavalleria – e, presumibilmente, del biennio 2016/17. Perché il meccanismo, dopo l’avallo dell’Alta corte, potrà replicarsi ad libitum, bastando l’allegazione di straordinaria  necessità e urgenza riveniente da insopprimibili ragioni di riequilibrio finanziario (lo vuole l’Europa!), e il gioco è fatto.
 Se, per gli esimi magistrati della Consulta, può alterarsi, sino a rompersi, il sinallagma qualità e quantità della prestazione-sufficienza della retribuzione, il Governo, ad un tempo legislatore e datore di lavoro, potrà anche determinarsi a non pagare più i propri dipendenti, atteso che – dopo la semiclandestina riscrittura dell’articolo 81 della Costituzione e, in parte qua, le integrazioni apportate ai successivi articoli 97,117,119 – la nostra Repubblica pare, ruvidamente, (ri)fondata sul pareggio di bilancio, non più sul lavoro, che i padri costituenti, in apertura della Carta, avevano elevato a strumento di progresso personale e sociale, remunerato in proporzione alla sua quantità e qualità, in ogni caso a misura tale da garantire il decoro della professione svolta e un’esistenza libera e dignitosa, per sé e per la propria famiglia.
3-     A soli due giorni di distanza dalla statuizione dei supremi giudici,il MEF ha attivato le procedure di annullamento di tutti gli aumenti corrisposti al personale docente,educativo e ATA sotto forma di scatti di anzianità,già erogati e ora soggetti a restituzione,ancorché autofinanziati con la corrispondente potatura dei già magri fondi in origine destinati al miglioramento dell’offerta formativa, e ovviamente non restituiti alle scuole perché incamerati dall’erario.
La minaccia di uno sciopero dei sindacati di comparto – sembra che ancora funzioni,almeno per i grossi numeri – ha risvegliato le forze politiche dal loro disinteresse per la scuola.
Decisiva sarà stata la bruciante battuta – saremo mica su “Scherzi a parte?” – pronunciata dall’astro nascente Renzi,proprietario della golden share in una compagine governativa giudata dalle nuove leve di,sedicenti,rivoluzionari,ma in perenne sofferenza,replicanti le paludi da Prima Repubblica,in cui – è stato scritto – i tempi si allungano,gli incontri si dilatano,gli argomenti scoloriscono,le chiacchiere proliferano e dietro un trascurabile maquillage linguistico la Terza Repubblica dei trenta-quarantenni sembra di colpo vecchia come il cucco.
Sicché i docenti e,dopo una breve ma imbarazzante incertezza di Viale Trastevere,il personale ATA – i cui stipendi sono ancor più da schifo – non dovranno restituire,in rate mensili di centocinquanta euro,gli importi percepiti per la maturazione degli scatti di anzianità nel 2012 e/o rivenienti dalla remunerazione delle c.d. posizioni economiche,anche se al momento qui residua qualche dubbio.
Naturalmente,nell’immediato,si pone il problema della copertura finanziaria per la compensazione dei mancati introiti all’erario,pari a trecentosettanta milioni di euro. La soluzione sembra quella di un’ulteriore riduzione del fondo delle istituzioni scolastiche per il miglioramento dell’offerta formativa,pari a duecentocinquanta milioni,mentre gli altri centoventi sarebbero detratti dai risparmi – un salasso di otto miliardi imposto alla scuola – dell’epocale riforma Gelmini-Tremonti. Ma il problema si riproporrà,aggravato,per gli scatti  di anzianità e per le posizioni economiche del 2013,già posti all’ordine del giorno dai sindacati; e l’alternativa sarà,giocoforza,quella di azzerare il Mof. Dopodiché potrà cantarsi il de profundis dell’autonomia scolastica.
4-     Dopo un inverecondo balletto tra i cinque sindacati –quattro generalisti di comparto e uno autonomo – rappresentativi della quinta area della dirigenza scolastica,il MIUR e il MEF,l’esito che ne è scaturito è stato il non doversi dare corso ai contratti integrativi regionali per le retribuzioni di posizione variabile e di risultato(nonché delle reggenze),spettanti ai dirigenti scolastici e relative all’a.s. 2012/2013,già terminato da quattro mesi.
Qui l’arrogante presa di posizione del MEF,con la sua cervellotica procedura per il calcolo del fondo unico nazionale, va ben oltre lo spirito e la lettera del decreto legge 78/10,convertito nella legge 122/10,che impone sì il blocco delle retribuzioni ai livelli del 2010,ma non la loro decurtazione. Tal che i dirigenti scolastici,ancora una volta,pagherebbero la loro “specificità”,per essere l’unica categoria che non solo non percepisce aumenti,ma addirittura subisce una diminuzione monetaria della propria retribuzione,in termini medi di circa duemila euro annui pro capite. E la subisce in contestualità ad un ulteriore aggravio dei suoi carichi di lavoro.
Difatti,in seguito alla mancata intesa nella Conferenza Stato-Regioni,dovrà procedersi al dimensionamento della rete scolastica,anche per il 2014/2015,con i parametri di cui alle leggi 111 e 183 del 2011,che prescrivono la media di mille alunni-studenti affinché ogni istituzione scolastica possa conservare la propria autonomia e così avere un suo dirigente e un suo DSGA.
Per cui dopo la cancellazione di duemilacinquecento dirigenze scolastiche se ne prospetta l’amputazione di altre ottocento.
Si dovrà dunque assicurare l’impossibile governo di megaistituzioni frantumate – specie nel primo ciclo,lo snodo più delicato del sistema – in più plessi o sedi e in più comuni,anche distanti tra di loro,senza rimborsi delle reali spese di spostamento,senza l’esonero dei collaboratori,con gli uffici di segreteria progressivamente impoveriti negli organici e composti da soggetti non sempre qualificati,che siano stati sottoposti o meno a riconversioni forzose e sbrigative, perché soprannumerari nelle qualifiche di provenienza e/o docenti inidonei all’insegnamento; e in più non pochi dirigenti dovranno accollarsi la reggenza di scuole sottodimensionate e prive di un DSGA titolare.
Tre delle associazioni sindacali generaliste,le stesse che hanno levato gli scudi per la giusta difesa delle retribuzioni dei docenti e del personale ATA,rese rappresentative dell’Area quinta dall’autolesionismo dei dirigenti scolastici,di alimentare chi cura,nella sostanza e legittimamente,gli interessi del personale del comparto,si sono ancora,e a tutt’oggi,limitate a chiedere al ministro Carrozza “un autorevole e incisivo intervento sul MEF,per evitare un consistente arretramento della retribuzione dei dirigenti scolastici,a fronte dei crescenti carichi di lavoro e delle connesse responsabilità su di essi gravanti”. In caso contrario “si vedranno costretti ad attivare le necessarie iniziative di mobilitazione,a difesa di legittimi interessi retributivi e professionali”.
La quarta associazione,in ordine di tempo,ha proclamato lo stato di agitazione(sic!) e chiesto al MIUR l’esperimento delle procedure conciliative su otto punti di rivendicazioni per il personale docente,amministrativo,tecnico e ausiliario,riservando,in coda, un’attenzione alla sua appendice dei “datori di lavoro”; perché siano sbloccati i contratti integrativi regionali per la retribuzione di posizione variabile e di quella  offensiva mancia costituente la retribuzione di risultato,”nel rispetto della quantificazione del fondo nazionale definita dal MIUR( e contestata dal MEF) a dicembre del 2012 “: tredici mesi fa!
A stretto seguito,la quinta componente della Pentiade,già associazione sindacale-professionale di soli dirigenti scolastici ed ora comprendente le autodefinitesi alte professionalità, comunque e pur sempre docenti e personale amministrativo,ha indirizzato due separate missive al ministro dell’Istruzione (l’una) e al presidente del Consiglio,nonché ai titolari dell’Economia e della Funzione Pubblica( l’altra).
Al primo destinatario chiede “un incontro, nei tempi più brevi,per entrare(ancora?) nel merito delle diverse questioni non più differibili”,non mancando – come la recente vicenda dei docenti ha dimostrato – le possibilità “di affrontare e risolvere le criticità esistenti anche con gli ordinari strumenti della gestione amministrativa,solo che sussista la volontà politica di farlo”. Nel caso che l’invito rimanesse inascoltato,oltre a un sit in presso il ministero,in corso di organizzazione,non si sente di escludere “ulteriori e più incisive iniziative successive”
Agli altri auspicati interlocutori – sin qui silenti,se non ostili – chiede di “portare il contributo delle rispettive Amministrazioni alla gestione delle criticità rappresentate”.
Può dirsi il minimo sindacale, se non giusto per onor di firma,evidentemente non potendo meritare di più una categoria frantumata,incapace di avere una propria rappresentanza  e adusa ad affidarsi all’improbabile benevolenza altrui.
Lo scenario,dunque, appare plumbeo, e solo per esigenze di completezza mette conto richiamare l’ordinanza del giudice del lavoro di Roma,del 27 novembre 2013,emessa su ricorso di associazioni sindacali rappresentative di pubblici dipendenti contrattualizzati della Presidenza del Consiglio,dei Ministeri e degli EE.LL.
Con la suddetta ordinanza è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale delle  stesse disposizioni,tutte più volte citate,del d.l. 78/10 e del d.p.r. 122/13,che ha prorogato sino al 31 dicembre 2014 il blocco delle retribuzioni di tutto il pubblico impiego,già decorrente dal 2010,e quindi delle procedure contrattuali,ferma restando la possibilità di negoziare la parte normativa e senza possibilità di recupero per la parte economica.
I divisati profili di incostituzionalità ineriscono anzitutto agli articoli 35,36 e 39 cost.
Osserva il giudice a quo che la sospensione della possibilità di negoziare,anche solo in ordine ad incrementi retributivi,viene a determinare,indirettamente,un’anomala interruzione dell’efficacia delle disposizioni vigenti in materia(artt. 40,43 e 45,d.lgs. 165/01) e quindi del valore dell’autonomia negoziale riservata alle parti nell’ambito della contrattazione collettiva.
La predetta interruzione è da imputarsi all’esclusiva e affatto peculiare posizione dello Stato-datore di  lavoro. Peraltro, in un regime normativo nel quale la retribuzione è determinata da accordi di categoria,il rispetto del principio costituzionale della proporzionalità tra il lavoro svolto e la sua remunerazione è affidato proprio allo strumento del contratto collettivo. Conseguentemente,l’inibizione prolungata della contrattazione in ordine all’adeguamento dei trattamenti retributivi può sollevare il legittimo dubbio di una conseguente violazione del principio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione. Né tale situazione risulta sanata dalla parziale riespansione,solo normativa, della contrattazione per il biennio 2013-2014,con espressa esclusione di ogni recupero delle pregresse utilità economiche in esito al blocco ex d.l. 78/10,        “con ciò evidenziando il carattere definitivo della limitazione imposta a prescindere dall’attuale situazione emergenziale posta a fondamento della decretazione d’urgenza”.
E vi è altresì violazione dell’art. 3 cost. anche in relazione al precedente art. 2, “per non manifesta infondatezza per violazione dei principi di uguaglianza,ragionevolezza legislativa e di solidarietà sociale”. Infatti,prosegue l’ordinana, “a fronte delle esigenze contingenti che hanno sollecitato l’agire del legislatore d’urgenza…le misure di risanamento sono state adottate agendo sulle retribuzioni dei soli pubblici dipendenti…perché,ove l’esigenza inderogabile di riduzione della spesa derivasse dalla richiamata eccezionalità della situazione economica internazionale,ne discenderebbe la necessità di accollare tale onere sulla collettività considerata nel suo insieme e non già solo su una parte dei cittadini(i pubblici dipendenti)”.
Certamente,ed in conformità della giurisprudenza costituzionale in materia,non si sarebbe posta la questione di legittimità qualora le censurate misure di contenimento della spesa pubblica per realizzare immediate esigenze di riequilibrio di bilancio fossero state circoscritte nel tempo e senza dispiegare effetti ulteriori,oltreché impeditivi di qualsivoglia possibilità di recupero,in relazione al decorso triennio contrattuale 2010-2012 e al biennio 2013-2014. Ma un’emergenzialità reiterata nell’arco di un quinquennio sancisce la “definitiva ablazione”del diritto alla negoziazione, “venendo a determinare i denunciati effetti permanenti del blocco dell’adeguamento delle retribuzioni.
 Quanto or ora argomentato si rinforza a contrario dall’inconferente allegazione,ad opera della difesa erariale,di quanto prescritto dall’articolo 4 del d.l. 78/10,laddove recita che “i rinnovi contrattuali del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni per il biennio 2008-2009 ed i miglioramenti economici del rimanente personale in regime di diritto pubblico per il medesimo biennio non possono,in ogni caso,determinare aumenti retributivi superiori al 3,2 per cento”. Perché in tal modo indirettamente si conferma come la contrattazione collettiva in materia,seppure limitata,debba comunque potersi esplicare entro un determinato ambito di manovra; “spazio che,invece,la disposizione di cui al successivo comma 17 esclude completamente,inibendo del tutto la negoziazione per gli anni 2010-2012 e limitandola alla sola parte normativa per gli anni 2013-2014”.
In conclusione,potrebbe dirsi che,qualora la Corte costituzionale dovesse,per ipotesi,pronunciarsi domani,il rigetto dell’ordinanza del giudice del lavoro di Roma sarebbe assicurato,perché sarebbe,ragionevolmente,riproposto il medesimo criterio di giudizio,tutto “politico”,connotante la sentenza 310/13: di un’emergenza indefinita nei tempi a frustrare ogni diritto dei dipendenti pubblici comuni mortali; fino a quando al legislatore non piaccia di decretare il suo punto d’arresto.
Non potendosi invece avere una pronuncia,come di regola,prima di un anno,i tempi della Corte coinciderebbero con quelli della politica.
Si vuole cioè affermare che ogni possibile schiarita sull’orizzonte è,in definitiva,legata al miglioramento della congiuntura economica,ancora incerto e lontano. Ma sarebbe comunque una speranza vana se si dovesse restare inerti,senza comprendere che ciascuno dovrà essere artefice del proprio destino,intanto iniziando a dismettere,come non hanno disdegnato di fare categorie professionali non meno  titolate,senza particolari patemi d’animo e senza remore,il proprio aplomb istituzionale
 
Francesco G. Nuzzaci, segretario Dirigentiscuola della Puglia.
( Il presente contributo è stato scritto per la rivista Scuola & Amministrazione, numero 1 di gennaio 2014,nel suo nuovo formato telematico. Lo riportiamo qui per volontà dell’autore e con il permesso dell’editore)






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