Il cùnzulu, la morte e il cibo nella Sicilia arcaica
Data: Domenica, 19 gennaio 2014 ore 08:00:00 CET
Argomento: Redazione


Un tempo, nel giorno della morte, i familiari della buonanima avevano un gran da fare. Quelli dei comuni siculi-albanesi si affrettavano a distribuire ai poveri, in suffragio per l’anima del defunto, dei pani a forma di croce detti ’ncrikiet, ma anche frumento cotto, detto cuccìa, senza dimenticarsi di dar loro da bere. L’usanza, sconosciuta nel resto della Sicilia, almeno nella seconda metà dell’Ottocento aveva un preciso riscontro nei paesi calabro albanesi dove si distribuivano ai poveri le stesse cose. Il pane, a detta del Dorsa, si chiamava però pizzatuglit. Aveva forma «bislunga, con uno dei capi rilevato a tondo, che dicono la testa, e nel centro un buco, quasi ombelico di corpicino».

In tutta l’isola i parenti si facevano carico di portare da mangiare ai familiari del morto, usanza, questa, chiamata cùnsulu, cùnzulu, cùnsulatu nel Palermitano, casu a Marsala, cùanzilu a Mussomeli, cònsulu a Siracusa. Ma, indipendentemente dal nome, si trattava di un vero e proprio pranzo, nel quale accanto alla pastasciutta, alla carne e al vino, non mancava mai il pane, spesso impastato nottetempo, per offrirlo ancora flagrante ai parenti addolorati. Per farla breve, in certe case si mangiava a volontà solo nei tre giorni di lutto. La tradizione era più rispettata prima dell’unità d’Italia, quando la morte di un congiunto comportava lo spegnimento del cufularu o fucularu (focolare) per una settimana intera. Il ritorno alla vita normale era contrassegnato dalla solidarietà dei parenti e degli amici, che portavano il fuoco con cui riaccendere il fucularu. Adesso questa tradizione è tramontata, anche perché sono scomparsi i focolari e i fiammiferi sono stati inventati, già nei primi decenni dell’Ottocento. Il cùnzulu tuttavia resiste, anche se ha perduto gran parte del significato originario; e continua ad essere motivo di reale consolazione: “Ogni pena, ogni dogghia,/ pani e vinu la cummoghia”, recitava un antico proverbio.

A Gioiosa Marea, nel messinese, l’offerta del pasto veniva addirittura caricata su un asino che sfilava dietro il corteo funebre. «Portato al camposanto il cadavere, e seppellito, tutta quella roba s’imbandi[va] all’aperto o entro una casa»: parola di Giuseppe Pitrè. Ancora una ventina d’anni fa il direttore del Museo Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari di Roma, Annabella Rossi, notò in un cimitero palermitano «la presenza di alcune donne che mangiavano presso le tombe».

Nell’Ottocento a Modica si offriva da mangiare persino al morto. Si credeva, infatti, che nei primi tre giorni della dipartita la buonanima tornasse in famiglia «a sfamarsi di un po’ di pane, e a spegner la sete in un catino d’acqua». Perciò di notte i parenti lasciavano l’uscio socchiuso e collocavano dietro la porta il pane e l’acqua. A scanso di equivoci era spesso lo stesso moribondo a richiedere il rispetto di questa usanza.
Da altre fonti sappiamo che per soddisfare le esigenze nutrizionali della buonanima nei tre giorni successivi alla morte, nella stessa città, i parenti lasciavano l’uscio di casa socchiuso e puntellato da una sedia, sulla quale collocavano «un bel pane fresco dalla forma di una cuddura, e un candeliere a tre beccucci accesi la prima giornata, due candelieri a tre beccucci la seconda, e tre candelieri a tre beccucci la terza».

Nelle famiglie borghesi la salma, a detta di Angelo Siciliano «era vestita con un pigiama e composta in un lettino come se dormisse. Per loro non vi erano lamentazioni funebri e risaltava un’estrema compostezza nell’atteggiamento dei parenti. La nenia funebre era inventata dai parenti stretti del defunto, normalmente le donne, durante la veglia che si teneva attorno al catafalco. Ciò rientrava nella serie di gesti e operazioni ritualizzate, che la psicanalisi considera come l’arcaica elaborazione del dolore e del lutto fatta a caldo. Attraverso il canto, i parenti dialogavano col morto. Gli parlavano amorevolmente, gli rammentavano le vicende brutte e quelle belle vissute insieme, gli ponevano domande all’apparenza paradossali, lo rimproveravano affettuosamente, lo ringraziavano per la saggezza con cui era vissuto, gli si raccomandavano per il futuro.

Insomma, le scene di una vita vissuta erano riviste come in un filmato. L’intensità dei lamenti, che diventavano anche urli impressionanti, cresceva quando altri parenti o amici venivano a rendere omaggio alla salma». La sobrietà borghese non impediva che almeno dopo i funerale si consumasse, nella casa del trapassato «u cùnzulu, il consolo […], un pranzo sostanzioso, per rifocillare i familiari del morto, offerto da amici, compari o parenti larghi. Anche in quest’occasione, naturalmente, si tessevano le lodi del defunto».

Prof. Pippo Oddo





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