I licei dove si studia cinese al posto del ''vecchio'' inglese
Data: Sabato, 21 dicembre 2013 ore 05:30:00 CET
Argomento: Comunicati


La lingua del futuro? Il cinese. Come al solito c'è voluto un po', ma alla fine anche l'Italia l'ha capito. E s'è messa timidamente al passo, aprendo le medie superiori alla lingua dei Mandarini. L'ultimo della lista è il liceo «Ariosto-Spallanzani» di Reggio Emilia, dove venerdì scorso ha preso il via un corso da 50 ore, metà delle quali con insegnante madrelingua. Un'iniziativa concordata con il Provveditorato e curata dall'associazione «Progetto Cina», sorta nel 2012 dall'intesa tra gli enti locali e un pool di investitori privati in cui spiccano Confindustria, Unindustria e la Fondazione delle Casse di Risparmio di Modena, a conferma del fatto che chi guarda ad oriente lo fa certo «per uno stimolo di riflessione culturale e linguistica», come sostiene la preside del liceo reggiano, Maria Rosa Ferraroni, ma pure (e forse soprattutto) per provare ad inserirsi in un mercato in espansione, che potrebbe finire con il travolgere ed inglobare le fragili economie europee. Sempre più morte come le lingue che, fino agli inizi del Novecento, facevano parlare il mondo: spagnolo, francese, inglese.

Gli americani, inutile dirlo, lo avevano intuito con largo anticipo. E nel 2010 oltreoceano erano più di 1.000 i licei attrezzati per l'insegnamento del putonghua, il cinese ufficiale, già padroneggiato da milioni di studenti giapponesi nel frattempo (secondo costume nipponico) portatisi avanti col lavoro e passati a studiare il cantonese e il cinese in uso nella provincia del Fujian, vere e proprie lingue nella lingua.
E il Belpaese? A rimorchio, adagio: negli anni Novanta erano soltanto quattro gli atenei con lo sguardo rivolto a levante (la romana Sapienza, l'Orientale a Napoli, Ca' Foscari a Venezia e l'università degli studi a Milano). Adesso pure gli altri si sono uniformati, finanziando anche borse di studio che annualmente consentono a centinaia di universitari di recarsi a Pechino, Shanghai e Guangzhou per perfezionare la conoscenza di una lingua che si compone di 5.000 caratteri, da imparare a memoria. «È vero che gli stessi cinesi in parte li ignorano -, dice Giada Alì, coordinatrice dell'istituto Confucio di Pisa- ma è comunque indispensabile essere in grado di riconoscerne una buona quantità». Per riuscirci, «serve tempo: almeno due anni per poter esprimersi con un minimo di scioltezza. Scrivere è più difficile e saper leggere è considerato l'ultimo gradino».

Insomma, prima si inizia meglio è. Per questo, sia pur in ritardo rispetto al resto del mondo, nel marzo del 2012 il Miur ha sottoscritto un protocollo d'intesa con la fondazione «Italia-Cina», impegnandosi a portare il putonghua nelle superiori, «attraverso l'attuazione di corsi di lingua e cultura cinese negli istituti tecnici e professionali per offrire occasioni ai giovani studenti di migliorare le loro competenze nella preparazione all'accesso al mondo del lavoro». Detto fatto: pochi mesi dopo a Bologna, all'istituto «Aldini Valeriani», è stata attivata la scuola di cinese, lingua che in Lombardia fa media in pagella già in una trentina di istituti. Ad ottobre s'è aggiunto alla comitiva il liceo «Machiavelli Capponi» di Firenze, apripista delle scuole toscane che presto s'uniranno al coro. A Prato, ad esempio, il prossimo anno scolastico inizierà con l'esordio sulla scena del liceo scientifico internazionale, nato per gemmazione dal Convitto Cignonini (tra i cui banchi sedette Gabriele D'Annunzio). Si potrà scegliere tra l'inglese ed il cinese. Chi opterà per quest'ultimo, nel quinquennio studierà in cinese anche materie come scienza, storia e geografia «per proiettarsi verso l'avvenire forte di una formazione linguistica, antropologia e culturale», spiega il rettore Mario Di Carlo. Il domani è oggi. E parla cinese. Ora anche in Italia.

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