Il gelato: prelibatezza inventata in Sicilia (Parte II)
Data: Domenica, 01 dicembre 2013 ore 09:30:00 CET
Argomento: Redazione


I Normanni concessero ai Vescovati estesi possedimenti comprese le nivere con l’obbligo, però, di approvvigionare di neve le città sedi delle curie. Al vescovo di Catania concessero buona parte delle falde dell’Etna e le cosiddette tacche di neve, profonde insenature tra le colate laviche dove la candida manna si accumulava naturalmente. Per raccoglierla in quantità apprezzabile, e senza troppe impurità, erano necessarie alcune operazioni precise. «La prima di queste – osservava, all’inizio del Novecento, un celebre geologo francese – si effettua in ottobre, e consiste nel far ripulire le tacche, togliendone le pietre che vi fossero cadute dentro, e le foglie o le sudicerie rimaste dopo l’estrazione di neve dell’anno precedente. Dopo che, nel mese di febbraio, la neve s’è accumulata nelle infossature del suolo, una squadra di 50 o 60 operai si reca in marzo sulla montagna, e con lunghe aste di ferro graduate rileva la profondità dello strato nevoso. Lo scavo si limita ai punti dove lo spessore della neve raggiunge i tre metri; e di queste zone utilizzabili sono indicati i limiti per mezzo di mucchi di cenere eruttati dal cratere».

Da notare che tutti i lavori preparatori si facevano di notte: «Al lume della luna o della torce, gli operai ricoprono la superficie utilizzabile con uno strato di cenere alto 30 centimetri, avente agli orli uno spessore doppio; e lo scopo di siffatta copertura è il difendere la neve dai caldi raggi solari. In tal modo si preparano quattro o cinque tacche, a seconda dell’abbondanza della neve, che vengono aggiudicate a un imprenditore, il quale è passibile di una fortissima multa nel caso che lasciasse Catania priva di neve». Più complesse erano le operazioni di raccolta: «Giunta l’estate per raccoglier la neve si sbarazza quest’ultima [la tacca] del suo mantello di cenere e poi se ne divide la superficie in una rete di tanti rettangoli per mezzo di strumenti di ferro, che vanno sino a metri 1,50 di profondità. Lungo il giorno un po' di neve è fusa dal sole e l’acqua che penetra nei solchi scavati nella massa si congela durante la notte seguente; in tal modo la neve può esser divisa in blocchi parallelepipedi, che hanno le facce congelate. Questi blocchi vengono ricoperti con foglie di felci e di castagno, poi sono chiusi entro sacchi, di cui un paio per ogni animale è portato a dorso di muli e su carri; la neve è distribuita a Catania e alle città vicine».

Ma tutte le città siciliane erano approvvigionate di neve che veniva raccolta anche su monti diversi dall’Etna. A Girgenti (Agrigento), per esempio, la neve arrivava dal monte Cammarata. A Palermo c’è ancora un toponimo che ricorda questa antica attività che legava la pianura alla montagna, l’entroterra alla costa: Vicolo della neve all’Alloro. In questa vecchia stradina un tempo arrivavano tutti i giorni retini di muli e asini carichi di blocchi di ghiaccio intagliati nelle nivere delle Madonie e di Rocca Busambra: ci fosse caldo o freddo, la nobiltà palermitana non rinunciava mai ai sorbetti e alle bevande gelate. Era, tra l’altro, opinione diffusa in tutta la Sicilia che le bevande fredde facessero bene alla salute. La carestia di neve era perciò considerata «un danno uguale a quella del vino e dell’olio», occasione di disordini persino, come testimonia il pittore francese Jean Houel che si trovava in Sicilia un brutto giorno che i Siracusani si diedero all’arrembaggio di un natante carico di neve, «con perdita di alcuni di loro nel conflitto».

Si comprende quindi bene perché nel 1761 la Principessa di Villafranca, padrona dello Stato di Buccheri, stabilì con un bando del governatore che nessun vassallo potesse raccogliere anche una sola palla di neve prima che si riempissero tutte le sue nivere (grotte e ripari in pietra vulcanica a secco con copertura a cupola o a volta). E non è senza ragione che ancora adesso il più grande industriale siciliano del gelato sia, appunto, il Principe di Villafranca.

Né erano soltanto quelle cui abbiamo accennato le nivere di Sicilia. Ce n’erano tante altre a fossa o a pozzo sullo stesso Monte Lauro, su Pizzo Cane, Monte San Calogero, Pizzo Niviera, Monte Genuardo, la Pizzuta, Monte Barracù, Montagna delle Rose; ce n’erano persino sulle modeste alture che fanno da corona alla Conca d’Oro (Monte Cuccio) e in provincia di Trapani: sul Monte Inici e su un’altura boscosa nei pressi di Vita. «Nei paesi attorno alle Madonie – assicura Luigi Romana – fino alla Seconda guerra mondiale si produceva il gelato con il ghiaccio proveniente dalla montagna, se lo ricordano benissimo gli anziani Mario Fiasconaro di Castelbuono, Domenico Sottile di Isnello, Domenico Ferrara di Locati, gelataio ambulante fino agli anni ‘50 del secolo scorso.

Da alcuni anni il CAI di Polizzi Generosa organizza la Festa della Neve, una manifestazione gioiosa che fa scoprire ai partecipanti la sorpresa della neve nella stagione estiva. Grazie ai preziosi ricordi dell’anziano Peppino Intravartolo, morto recentemente, è stato possibile localizzare la neviera a pozzo di Piano Principessa, a 1860 m di altitudine, dove il ghiaccio riesce a conservarsi quasi naturalmente e con pochissimo intervento umano sino alla fine di luglio».

In quale altra terra, se non in Sicilia, il sorbetto poteva evolversi in gelato e granita? Dove poteva essere inventata la cosiddetta giardiniera, quella «fresca delizia al cedro, alla fragola e al pistacchio, sormontata da colorati canditi», che lo chef della gelateria Ilardo nel 1860 preparò per Garibaldi, ispirandosi ai tre colori della bandiera nazionale? La giardinetta è tuttora una delle specialità che si gusta da Ilardo. «Questo storico bar, racchiuso in una piccola porzione delle mura delle “Cattive” – nota Valentina Caviglia – è un paradiso per golosi e amanti delle ricette locali che qui potranno gustare il loro gelato godendo della vista del mare». Eppure c’è chi sostiene che il gelato vero e proprio, cioè il mantecato di crema, sia stato inventato a Firenze nel secolo XVI, forse per opera di Bennardo Buontalenti. Se così fosse stato, non si capirebbe perché Caterina Dei Medici, che ne diffuse il consumo in Francia, si sia circondata di gelatai siciliani.

Ancora più stupefacente è leggere nell’enciclopedia per ragazzi Vita Meravigliosa: «Inventore della macchina dei gelati ancora adottata per l’uso domestico (un recipiente metallico con agitatore a spatola, posto in un mastello per contenere il ghiaccio) fu un altro fiorentino, Procopio Coltelli». Ma non c’è campanilismo che tenga di fronte ai fatti: Francesco Procopio dei Coltelli (e sottolineo la preposizione articolata) era uno squattrinato nobile siciliano, capace di sopperire all’ormai cronica mancanza di denaro con la ricchezza del suo ingegno. Non per nulla fu il primo ad aprire, nel 1686, un caffè all’italiana a Parigi, il Café Procope. Da vero uomo di mondo, Procopio dei Coltelli dimenticò le due ultime vocali del proprio nome, ma non certo le ricette di casa sua. Servì ratafià, rosoli, maraschino, anice, grappe variamente aromatizzate, spremute di limone e, ultima meraviglia, sorbetti e gelati. E, insieme a tutte queste cose, anche un tocco di raffinatezza che poteva solo albergare in un gentiluomo siciliano.
Onore alla verità, dunque; onore alla fantasia creativa di questo intraprendente figlio di Sicilia!
Prof. Pippo Oddo





Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-2484208.html