La disneylandizzazione della cultura
Data: Giovedì, 28 novembre 2013 ore 08:00:00 CET
Argomento: Redazione


Era logico che anche la letteratura, condotta per mano da patetici mestieranti, arrivasse in tv, e ci arrivasse nel peggiore dei modi: squinternata, denudata del silenzio e della concentrazione, spogliata di ragioni, svestita della fatica. Esibita. L’hanno fatto prima col nozionismo quizzaiolo che ormai è sdoganato perfino a scuola, poi con la privacy familiare, poi con la musica, poi con la danza; perfino coi bambini dati in pasto ai bavosi cannibali della democrazia del gusto. Figuriamoci se la televisione avrebbe dovuto avere qualche remora con la letteratura. Del resto, in questa disneylandizzazione della cultura che sempre più imperversa in Europa e in Italia, coi suoi festival, i corsi di scrittura creativa, i concorsi letterari fitti come gli aculei di un istrice, gli eventi culturali, (che inconcludente espressione!) c’è la dimostrazione di quanto non sia importante il “manufatto”, il libro, quanto il protagonismo di chi lo maneggia, di chi ne farfuglia l’idea, di chi ne vagheggia le atmosfere, di quel pubblico che a vario titolo gli bivacca o gironzola intorno senza sentire nemmeno l’esigenza di leggere gli autori; il protagonismo di quanti insomma amano infiocchettarsi della cultura per ostentarla come status symbol.
D’altro canto, gli addetti ai lavori, questi taumaturghi dell’editoria che contribuiscono a sprofondare l’Italia nel baratro dell’ignoranza, mostrano una fantasia davvero encomiabile: tutto inventano per acculturare le masse, per fornire alle orde statusimboliste il nettare del doglio meno avaro: quello fatto di gadget, di biglietti omaggio, di appuntamenti nei luoghi più chic e improbabili, e – tenetevi forte – perfino del contatto con uno scrittore in carne e ossa; di quelli che vendono tanto, naturalmente.
E il format “Masterpiece”, questo tribunale da avanspettacolo che "giudica e manda secondo ch’avvinghia”, questa trimurti mariadefilippiana non fa altro che liofilizzare la letteratura, offrendo al pubblico la sua apoteosi, che è poi il suo avvelenamento: la mancanza di sforzo, la gratuita pigrizia. Gli offre una partecipazione "attiva" all’annichilimento sbrigativo dell'autore: occhiate, pause indagatorie, smorfie, giudizi sommari, citazioncine ad effetto. Oppure lo rende partecipe dell’incensamento del “fortunato” con altrettanto spicci segnali: epidermiche effusioni, visi illuminati, convincimenti ancestrali, atti di fede muzioscevoliani.
Latitano, come dicevo, le ragioni, ossia i ragionamenti. Latitano i giudizi di valore. Provo grande imbarazzo per gli scrittori lì convenuti, specie per i meno giovani: stretti nelle spire di un gioco sciocco e umiliante, in una galleria antropologica che va dall’esibizionista al masochista, e che sembra non aver fine nell’Italia di questi tempi minchioni.
Qualunque cosa sia la letteratura, sono certo che essa mostri il suo lato migliore nel silenzio della lettura e della comprensione, nella conquista interiore di un significato, di una sfumatura. In una empatia destinata a non svelarsi del tutto, a rimanere forte e segreta. E’ lì la forza di un libro: nell’intima consapevolezza che ne ha il lettore, nella sua intelligenza. Il resto è sociologia di mercato, e qualche volta volgare accattonaggio.

Filippo Martorana





Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-2484170.html