Il gelato: prelibatezza inventata in Sicilia (Parte I)
Data: Domenica, 24 novembre 2013 ore 09:30:00 CET
Argomento: Redazione


"Ivi è raccolta la neve la fragola gentil, che di lontano pur con soave odor tradì se stessa, vi è il salubre limon, vi è il molle latte…".
Quando il poeta Giuseppe Parini (prete brianteo, fin troppo sensibile al fascino del gentil sesso e vero estimatore delle raffinatezze culinarie) tesseva con questi versi le lodi del gelato, i gelatieri siciliani si erano fatti apprezzare nelle maggiori capitali europee da almeno un secolo. E i sorbetti di Sicilia, confezionati a mo’ di frutta, avevano raggiunto un così alto livello di perfezione da sembrare doni del Creatore. Traevano perciò in inganno persino i più navigati uomini di mondo. A fare la figura del provinciale di fronte a uno di questi capolavori di arte dolciaria fu, nel giugno 1770, persino Patrick Brydone, «gentiluomo scozzese di 34 anni che univa alla facilità di scrittura un notevole interesse per i viaggi ed una viva curiosità scientifica», il quale fu casualmente invitato a un pranzo offerto dalla nobiltà di Girgenti al proprio vescovo. «Perché – spiega Giuseppe Pitrè – finita la seconda portata, e presentatoglisi a guisa di retroguardia, altra maniera di gelati, un servitore gli pose davanti una bella e grossa pesca, che egli prese per frutta naturale: e tagliatela in mezzo, e portatene la metà in bocca, a bella prima ne rimase scosso, e come per allargare lo spazio gonfiò la gote. Ma l’intensità del freddo vincendola sul ripiego e sulla sofferenza, egli la palleggiò con la lingua, poi non potendo più oltre resistere, con gli occhi rossi di lacrime la rigettò disperato nel piatto, bestemmiando come un turco e imprecando al servitore, dal quale si credette burlato quasi gli avesse offerto per quel frutto una palla di neve dipinta».

Nelle principali città siciliane a quell’epoca non c’era ricevimento ufficiale, riunione mondana, serata danzante o festa di gala che si concludesse senza spreco di sorbetti. A tal proposito basti ricordare un episodio già annotato nel Diario del Marchese di Villabianca e riproposto ai lettori da Pitrè nel primo volume della sua prestigiosa opera La vita in Palermo cento e più anni fa. Nel corso di una sfarzosa cena servita il 13 maggio 1799 nell’esclusiva cornice della terrazza del Palazzo Butera, per l’occasione convertita in galleria coperta, mentre due orchestre di strumenti a fiato gareggiavano in virtuosismi nel tentativo di ingraziarsi la crema dell’aristocrazia siciliana e le più alte sfere della gerarchia militare, la neve consumata per i gelati fu di 40 carichi, ossia cinque tonnellate, chilogrammo più, chilogrammo meno. Naturalmente non in tutti i conviti si scialava così, e non capitava tutti i giorni di veder gozzovigliare insieme circa trecento fra gentiluomini e gentildonne. Ma se c’era anche un solo ospite di riguardo, si poteva star certi che le mense dell’aristocrazia e degli stessi conventi sarebbero state arredate di tutto punto con cristalli di ottima fattura, piatti e posate d’argento, vasi d’oro, spesso cesellati dai migliori artisti; le portate sarebbero state numerose e ben assortite, e così gli intramezzi e i tornagusti, il post pasto e i sorbetti. Da questa regola non derogava nemmeno la più scalcinata nobiltà di provincia.

Se ne rese conto l’abate Paolo Balsamo quando, nella primavera del 1808, fu invitato a pranzo dal Cavalier Rossi di Modica. «Vivande, vini, frutti, sorbetti, caffè, liquori fecero bastantemente copia di se per delicatezza e varietà; e non si notò isbaglio o imbarazzo di sorta alcuna nel dispensarli: e spiccò nei convitati la più vivace giocondità, senza che in venti, o più persone si fosse osservato gesto, o sentita parola, la quale avesse potuto in loro annunziare poco uso di pulite, e costumate maniere». Sappiamo dallo stesso Balsamo che durante il suo soggiorno modicano ricevette altri inviti che poi presero forma di gioiose feste. Anche in queste riunioni non dovette registrarsi penuria di sorbetti, dato che il bel mondo di Sicilia era allora fedele al motto «Noblesse oblige». E tra gli obblighi morali dell’aristocrazia uno dei più onorati era quello d’introdurre gli ospiti alle delizie della gola. Persino le manifestazioni religiose si concludevano col rinfresco. Ebbe modo di testimoniarlo autorevolmente un viaggiatore inglese che, trovandosi a Palermo nel dicembre 1841, partecipò a una coloratissima processione in compagnia del Duca di Serradifalco.

Ad aprire il corteo, cui parteciparono le massime autorità cittadine, molti aristocratici e i più alti dignitari ecclesiastici sotto un bel baldacchino di broccato d’oro, furono i popolani con torce di stoppie accese, seguiti «da contadini che suonavano cornamuse, tamburelli e castagnette»; sfilarono immediatamente dopo alcuni penitenti a piedi ignudi e corone di spine in testa. E poi due confraternite: quella «dei signori Spazzini», i quali, armati di scope nuove, «spazzavano la strada per il passaggio dell’Immacolata» e un’altra che, provvista di ceste con erbe e fiori, trasformava il percorso in una sorta di prato fiorito. Dietro di questa s’incolonnò «un gruppo di penitenzieri in bianco, con scarpe e cappucci dello stesso colore». C’era, insomma, di tutto in quella processione: c’erano «monaci neri», varie confraternite e semplici fedeli con bandierine d'argento, c’era persino «la milizia volontaria cittadina con la sua banda» che evocava l’immagine di «un curiosissimo corpo di cavalleria». E c’era «la statua dell’Immacolata, con il suo altare e i suoi ceri, portata a spalla da sessanta trasportatori e accompagnata da altri sessanta che indossavano la stessa uniforme, pronti a dare il cambio ai primi».

Chiudevano il corteo un reggimento di guardie e dragoni e «le carrozze di rappresentanza dei governatori, senatori e degli altri personaggi importanti». Ma forse nulla di tutto questo risultò più gradito all'ospite straniero del rinfresco che gli fu servito alla fine: «Ci congedammo dal Duca dopo che questi ebbe offerto a tutta la compagnia quei deliziosi gelati di pistacchio per i quali Palermo va giustamente famosa e che, nonostante si fosse in dicembre, sono un vero lusso, e anzi, con questo clima, qualcosa di quasi necessario». E non conosceva, il Nostro, quell'autentico trionfo della gola che i Siciliani hanno sempre chiamato “scursunera”, gelato di gelsomino che, a volerlo servire come Dio comanda, va sempre insaporito con un pizzico di cannella.

Pistacchio, gelsomino, cannella, limone: sapori, odori, colori d'Oriente; prelibatezze ghiacciate che i siciliani ricchi consumano da una dozzina di secoli. Ma i poveri non si potevano concedere lussi di questo genere. Anche se del sorbetto avevano sempre sentito parlare, e spesso anche narrare mirabilia, fino a non molti decenni addietro il massimo di refrigerio che si erano potuti permettere i popolani era stato un bel bicchiere di acqua ghiacciata con poche gocce di zammù (distillato di anice), oppure qualche frutto di ficodindia raccolto all'alba, ancora bagnato dalla brina. Né poteva trarre in inganno il fatto che i contadini mangiassero una o due volte all'anno il cosiddetto gelato di campagna. Quel dolce era tutt'altro che refrigerante: metteva sete, come il torrone, la cubbaita e altri dolci inventati dagli Arabi e venduti nelle bancarelle in occasione delle principali feste religiose.

Comunque, già nella prima metà del ventesimo secolo, in occasione della festa del Patrono, anche nei villaggi rurali cominciarono a esser posti in vendita i primi pezzi duri. Ma chi li poteva comprare? I galantuomini e i preti, insomma i cappeddi, gente che aveva roba al sole, toh!, anche qualche artigiano che portava il don da casa sua, i campieri che arraffavano a man salva, e la mammana, forse. Chi altro, nelle campagne, conosceva il sapore del gelato? Se si escludono le criate (servette tuttofare), le perpetue e i leccastivali, nessuno. O quasi. Bisognava aspettare il secondo dopoguerra perché i prodotti di sorbetteria cominciassero a esser consumati anche dai ceti popolari, e non senza l'indignazione degli ultimi galantuomini che gridavano allo scandalo tutte le volte che vedevano un contadino con un gelato in mano: per loro il mondo girava alla rovescia. Di conseguenza quei campagnoli che avevano la fortuna di frequentare saltuariamente la città, per prima cosa andavano a comprarsi un gelato, convinti di non scandalizzare nessuno, lontani com’erano dagli occhi indiscreti dei cappeddi del paese. Ma cadevano dalla padella nella brace: «I cittadini – a detta del gastronomo Giovanni Coria – li prendevano in giro chiamandoli acqui tisi, cioè acqua solida, rigida, tesa; e per un certo tempo anche i gelati presero lo stesso nome». Si racconta anzi che erano spesso certi burloni di città ad offrire il gelato ai paesani, pur di godersi lo spettacolo di vedergli affiorare in viso le smorfie più strane, quando non gli avvolgevano il gelato in una foglia di cavolo per farglielo portare al paese. Comunque, barzellette a parte, in Sicilia il gelato ha una storia antica come in nessun’altra regione del mondo.

L’uso di consumare frutta ghiacciata era per la verità conosciuto dagli antichi Egizi, anzi dai fortunati mortali che ronzavano attorno al Faraone. Sembra inoltre che i ricchi Persiani la modellassero a forma d'uovo e che, tra una battaglia e l’altra, Giulio Cesare non rinunciasse ai succhi di frutta ghiacciati. Ma all'invenzione del sorbetto, il parente più stretto del gelato, non fu affatto estranea la Sicilia, anche se il merito principale è universalmente riconosciuto agli Arabi. «Giunti infatti in Sicilia, – scrive non senza una punta d’orgoglio Coria – essi scoprirono non solo la neve, ma anche i nevaroli, cioè persone che per mestiere andavano sui monti, scavavano delle fosse profonde (esposte a nord), le riempivano di neve e le tappavano per bene. Poi in estate prelevavano carichi di neve e la vendevano quando il caldo premeva, ed era piacevole avere dell’acqua fresca o bevande ghiacciate. Ecco allora gli arabi sfruttare questa neve: la insaporivano dolcificandola, e la profumavano con gli aromi. Nasce così il sorbetto, antesignano di gelati e granite: prima il sorbetto al limone, poi quello alla scorzonera».

Prof. Pippo Oddo





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