Il bisogno di credere
Data: Domenica, 24 novembre 2013 ore 08:00:00 CET
Argomento: Redazione


Si è detto qualche volta che bisogna regolarsi nelle proprie scelte come se ci fosse Dio, a prescindere dalle proprie convinzioni, e lo si è detto per dare forza e continuità all'impegno quotidiano di vivere secondo giustiza e nel rispetto degli altri, supponendo o dando credito all'opinione che per chi creda in Dio sia più facile fare la propria parte nella vita di ogni giorno. Si chiama in causa Dio e lo si invoca a sostegno di una sfida che si fa fatica ad affrontare. Per altri, invece, che hanno modo di confermare a sè stessi razionalmente la convinzione dei principi morali che seguono non cambia nulla,se Dio non c'è e dicono che è meglio non pensarci. Credono che le motivazioni ad agire bene vadano trovate in se stessi e nella capacità di giustificarle presso altri.
Forse sono sostanzialmente estranee all'attuale modello di organizzazione sociale degli stili di vita e del lavoro sia le riflessioni di ordine religioso sia le riflessioni di ordine filosofico su questo tema. Si vive trascinati dall'onda e dai ritmi di un sistema che lascia sempre meno spazi ai tempi della consapevolezza, della riflessione. Si fanno le cose a prescindere e nelle scelte di qualsiasi genere si è condizionati più di quanto non si vorrebbe e di quanto non si pensi.

Esiste per tutti, però, la necessità di dare un fondamento solido, un orientamento più sicuro nelle scelte di vita e per molti il bisogno di dare un senso alle proprie giornate, di riscattarle, di liberarle dagli ingranaggi dei condizionamenti.
In quest'ambito di problemi la filosofia torna utile con le sue domande e con i suoi chiarimenti e ci riporta a chiederci se davvero tutto resta come prima e funziona bene se Dio non c'è. Il Dio dei filosofi, che eventualmente dovrebbe porsi a garanzia e ad ispirazione dei propri comportamenti morali, non è quello di Abramo e di Isacco;non è il Dio della fede, ma della ragione e forse non varrebbe la pena di farci sopra una scommessa.

La fede, che va oltre la ragione, è "fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" (Lettera agli Ebrei). Offre un'ancora, la possibilità cioè di una spiegazione che dia conforto, che alimenti la speranza di andare oltre le tragedie, la morte, le sofferenze, la disperazione. E' una via di fuga, se del male che si incontra non si riesce a dare una spiegazione.
Non c'è fede senza consapevolezza della propria fragilità e dei limiti della ragione. Molte forme di ateismo e di agnosticismo si costituiscono nel rifiuto di ciò che travalica il logos umano,nell'occultamento di ciò che stupisce e non si lascia catturare dai ragionamenti. "Qualcosa ci dice che è assurdo che l'assurdo sia, che in più l'assurdità del mondo non è la conclusione di una ricerca, ma l'espressione di un partito preso, non meno deliberato di quello della ragione"(E.Mounier).

Il Cristianesimo, ripensato nella sua purezza e riportato alla freschezza delle sue fonti originarie, dà il calore umano e affettivo della fraternità alla fede, la colloca in una dinamica di attesa e di speranza,ma conferisce ad essa una complessità che può essere motivo del suo rifiuto."Noi predichiamo Cristo Crocefisso, scandalo per i giudei stoltezza pe i pagani"(San Paolo). Nell'incarnazione di Cristo si esprime il massimo della donazione, dell'amore di Dio per l'uomo, ma anche l'assolutezza del mistero e della follia per la sapienza degli uomini. La sceltà di prossimità più grande che si potesse fare, è anche il mistero più incomprensibile.

L'incarnazione del Figlio è vicinanza alla fragilità, alla sofferenza, ai limiti dell'uomo, alla stessa mortalità di cui si vuole la vittoria con la resurrezione. Non c'è stata valorizzazione dell'umanità dell'uomo, della sua "carne" più grande del mistero di Dio che si fa uomo; eppure nulla di più difficile da accettare.Incarnazione, passione e resurrezione raccontano una storia, che è un dogma di fede; una teodicea di peccato, sacrificio e redenzione che non si riesce facilmente a interiorizzare, a ripensare con la logica di uomini del terzo millennio.

L'incarnazione è quanto di più anti-ellenico potesse essere pensato, detto e creduto e ciò nonostante e proprio con la cultura ellenistica ha voluto misurarsi il cristianesimo e ha trovato il modo di universalizzarsi. Ma non è stato un passaggio facile; è stato il passaggio dal vangelo di Paolo a quello di Giovanni. Il primo è il vangelo dello "scandalo", del "paradosso", che fa della fede, del dono della fede, il tratto peculiare di una religione che non vuole diventare una dottrina: sempre ai limiti dell'eresia e della marginalità ecclesiale. Il secondo, il vangelo del Logos ,è in qualche modo una forma di "Razionalizzazione", un tentativo di inculturazione del Cristianesimo in ambienti non ebraici; l'inizio del processo di trasformazione dottrinaria del messaggio evangelico, della trasformazione della fede in teologia. Se il Vangelo di Paolo è sul sentiero rischioso che può portare alla ribellione,quello di Giovanni conduce negli spazi agevoli delle grandi costruzioni teologiche. Paolo è dentro l'ebraicità, Giovanni incomincia a uscirne.

L'Apostolo delle genti ha sradicato dall'ebraismo gli elementi etnici che lo rinchiudevano nella formula terra/tempio/popolo; ha creato le condizioni dell'universalizzazione del cristianesimo, ma il risultato l'ha ottenuto Giovanni col suo Vangelo.
Il Cristianesimo fa propri due principi che costituiscono la sua novità: questa vita non è il luogo della giustizia, nè sulla terra scorrerà latte e miele, anche se non ci si può sottrarre all'obbligo di renderla migliore; c'è una vita oltre la vita ed è quella vera, quella in cui i giusti avranno il premio della fedeltà alla parola di Dio. Rompe con ogni forma di messianismo terreno e riformula la prospettiva del Regno di Dio. Il Vangelo di Marco (il più antico)è la testimonianza di questo passaggio nell'ebraismo. Il rifiuto della proclamazione messianica esprime forse il senso della "Buona Notizia".

La fedeltà al Vangelo è ancora oggi segno di contraddizione e a volte di inconciliabilità col mondo,con la quotidianità del mondo, con le sue distorsioni, con i suoi privilegi, con i suoi abissi di corruzione e di violenza, con la sua estraneità a qualsiasi logica di potere. Il cristianesimo è radicale negazione della mondanità; rinuncia al valore delle cose.
Nulla allora di più anticristiano della cosiddetta civiltà occidentale: civiltà di cose e di dominio sulle cose e sugli uomini.
Oggi è speranza per molti un cristianesimo che vada oltre le cosiddette società cristiane, oltre la sua storia,oltre le sue tradizioni; che recuperi la forza dirompente della sua alterità e della sua semplicità; che si disincarni dall'essere stato pensato e proclamato come figura della cultura occidentale per recuperare la sua vocazione universale (Katà olon).
E' una scommessa difficile se non impossibile,ed una delle ultime risorse per dare un senso alla sua presenza e alla nostra esistenza.

Prof. Raimondo Giunta





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