A scuola di formazione professionale dai tedeschi
Data: Lunedì, 21 ottobre 2013 ore 06:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Il decreto legge 104/2013 è stato ben accolto dalla scuola come segnale di attenzione (basta tagli!) ma è stato criticato da parte della stampa per non aver rivolto attenzione al rapporto tra scuola e lavoro, limitandosi a potenziare i fondi destinati a progetti di orientamento scolastico, da anticipare al 4° anno di scuola secondaria di secondo grado. Il tutto nonostante le lamentele del ministro Carrozza sulla scarsa esperienza lavorativa dei giovani italiani rispetto a quella di altri ragazzi europei (tipicamente i tedeschi).
Sulla utilità formativa del lavoro contrapposta all'eccesso di idealismo che permea la cultura didattica in Italia si è scritto molto. Sull'auspicabilità di imitare il modello formativo tedesco come strategia di avvicinamento dei giovani italiani al lavoro vale la pena di riflettere. Innanzitutto perché il modello tedesco è un modello sistemico, che abbraccia tanto il sistema formativo quanto le relazioni industriali. Alla sua base sta l'esigenza condivisa di selezionare e formare una forza lavoro qualificata, che rappresenta un elemento centrale della competitività del modello tedesco. Perciò il settore della formazione professionale non è residuale, come in Italia, ma selettivo (e incontra difficoltà di reclutamento in anni recenti): ciò significa che gli studenti che si rivolgono al canale professionale non sono necessariamente studenti con background familiari deboli, magari appartenenti alla seconda generazione di immigrazione, quanto studenti motivati che intravedono nella qualificazione professionale opportunità di ascesa sociale. Per funzionare tale sistema ha bisogno di una controparte speculare dal lato del mercato del lavoro: le carriere interne alle imprese sono condizionate al possesso delle qualificazioni conseguibili nella formazione professionale. E questo non solo in età giovanile ma anche negli stadi successivi della vita lavorativa adulta.
Occorrerebbe ripensare la riqualificazione della nostra formazione professionale ma questo non può essere fatto solo dal ministero dell'Istruzione. Se, ad esempio, il ministero del Lavoro non modifica in modo radicale il canale d'ingresso oggi rappresentato dall'apprendistato, le certificazioni rilasciate dalla formazione professionale rischiano di rimanere pezzi di carta. Il dibattito dopo la riforma Fornero sembra invece spingere in una direzione opposta, indebolendo i requisiti formativi necessari e spostando la responsabilità formativa nelle aziende. Si corre il rischio di ottenere una qualificazione di fatto, non di diritto, che non dà spinta nella direzione di una meritocraticità degli accessi lavorativi.
Questo non può essere affrontato in un decreto legge. Se si vuole introdurre l'esperienza lavorativa come contenuto formativo per tutti gli iscritti alla scuola secondaria di secondo grado, occorre ripensarne l'ordinamento. Come già nei principi ispiratori della riforma Berlinguer-DeMauro, all'interno di un biennio secondario unificato è possibile immaginare l'accreditamento di attività pratico-manuali svolte al di fuori delle mura scolastiche.
Tuttavia resta il nodo del riconoscimento dei contenuti formativi nella futura carriera lavorativa, e questo non può essere regolato o imposto per legge (pena l'inutile moltiplicazione di albi e ordini). Affinché il sistema produttivo attribuisca valore alle certificazioni scolastiche, si rendono necessarie almeno due condizioni: che i rappresentanti del sistema produttivo siano resi corresponsabili nella scelta di quella parte dei contenuti formativi, che possano avere ricadute sulle competenze lavorative; che le imprese accettino di negoziare i percorsi di carriera interni con le rappresentanze sindacali, che per questa via sono coinvolte nella progettazione dei percorsi di formazione professionale. Si tratta di modifiche istituzionali di ampia portata, che richiedono governi forti e larghe maggioranze parlamentari. Ma se si condivide l'obiettivo di lungo periodo, spezzoni di riforma possono essere introdotti localmente già ora, sfruttando la concorrenza di competenze Stato-Regioni su questo terreno.

Daniele Checchi
Ilsole24ore.com





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