Italo Calvino e i suoi novant’anni, 'Sarei il profeta che sono stato'
Data: Domenica, 20 ottobre 2013 ore 08:00:00 CEST
Argomento: Redazione


Italo Calvino, lo scrittore de, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato, Marcovaldo, La giornata di uno scrutatore, oggi avrebbe 90 anni. E in quest’Italia incagliata in una putrida “bassa marea morale”, ci mancano i suoi pensieri, le analisi e l’ironia. Immaginiamoci Calvino novantenne; cosa ci direbbe? Le domande sono immaginarie, le risposte vere, tratte dai suoi scritti e interviste. 

Angelo Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it

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Perché scrive?
«Scrivo perché sono insoddisfatto di quel che ho già scritto e vorrei in qualche modo correggerlo, completarlo, proporre un’alternativa. In questo senso non c’è stata mai una “prima volta” in cui mi sono messo a  scrivere. Scrivere è sempre stato cercare di cancellare qualcosa di già scritto e mettere al suo posto qualcosa che ancora non so se riuscirò a scrivere. Allora cerco dì immaginare questa impresa impossibile, penso al libro che non scriverò mai ma che mi piacerebbe poter leggere, poter affiancare ad altri libri amati in uno scaffale ideale. Ed ecco che già qualche parola, qualche frase si presentano alla mia mente. Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano “la scienza della vita». 
Passano i decenni, ma le sue opere restano nelle librerie: che ne pensa?
«Se qualcuno dei miei libri è definito un “classico”, non può che farmi piacere. Quando proposi la riflessione “Perché leggere i classici”, raccontai il sogno di tutti gli scrittori, ossia l’idea di libro totale, che Mallarmè augurava alle proprie opere. Un classico è un libro ch non ha mai finito di dire che ha da dire. Ma ancor di più è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso. Se allora mi si chiede dei giudizi della critica su di me – o dei suoi silenzi, che pure parlano – rispondo spolverandomi la giacca».
D’accordo, parlano le sue opere. Perché non ha mai amato raccontare di sé?
«Ho ripetuto in circostanze un’espressione verissima di Croce: di un autore contano solo le opere. E a ciò aggiungeva un “forse” significativo, dato che tante cose potrebbero rimanere dentro la testa dello scrittore, senza finire sulla carta. Per quanto mi riguarda, dati biografici non ne do, o li do falsi, o cerco sempre di cambiarli, da una volta all’altra. Anzi non dirò mai la verità. Ho un rapporto nevrotico con l’autobiografia».
Una questione: lei è uno scrittore impegnato o disimpegnato?
«Grazie per la citazione dantesca, ma si ricade nella vecchia diatriba, realismo o fiaba, e noto l’incertezza se collocarmi tra gli scrittori engagé oppure, diciamo, tra i rinunciatari. Sarei come il mio visconte dimezzato, con le sue due contrarie metà, giusto? Che ritiene che io abbia maturato una protesta tale da svincolarmi dalla responsabilità, sbaglia. E non mi contraddico. Ricordo che esiste la fiaba filosofica, la grandezza della morale che ci hanno mostrato per primi Esopo e Fedro, poi continuata nei secoli. Chi vede ambiguità?».
Due anime in lei straordinariamente unite. Sarebbe questa la “leggerezza” da lei invocata?
«Nelle mie lezioni americane del 1985-1986 ho affrontato sei proposte per il nuovo millennio: ho esordito proprio con la parola “leggerezza”, dandone un senso positivo e contrapponendola al peso, all’inerzia e all’opacità del mondo, anche se ammetto che in certe opere queste ultime cose funzionano perfettamente. L’immagine che ho evocato è quella di Guido Cavalcanti, definito da Boccaccio in una novella “colui che leggerissimo era”, pronto a rispondere a una provocazione con “voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”: è il poeta-filosofo che salta sule arche, su pesantissime tombe che alludono alle ipocrisie dei suoi tempi, perché molti confidavano nella vitalità di quell’epoca rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, invece era un regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite».
In quella lezione citò Lucrezio, Leopardi, Montale, Kundera, Shakespeare e il suo amato Ovidio con i miti, che lei ha definito “degni di profondo rispetto”. Ma quando, a un certo punto della sua vita, ha detto “non darò più fiato alle trombe”, mettiamoci “una pietra sopra”, con un certo disfattismo, cosa ha voluto indicare? Ha buttato via la tessera del PCI: c’entra qualcosa?
«Non facciamo confusione come hanno fatto molti. Prima la mia scelta politica, poi la letteratura. Quella lettera di dimissione dal PCI, che risale all’agosto 1957 e che tanto ha creato malumori, rappresentava la mia protesta contro il mancato sollevamento dei giovani comunisti contro i dogmatici. Soffrivo del granitico conservatorismo senza ascolto delle idee nuove. Sono andato via, ma sono rimasto un intellettuale militante, senza abiure. Le confesso che ero un candidato del PCI, per far numero nella lista, naturalmente, e giravo i seggi dovei rappresentanti chiedevano aiuto al partito per liti da risolvere. Visitando il seggio del Cottolengo mi sono sfogato in “La giornata di uno scrutatore”. Chi vuol capire il mio pensiero politico lo legga».
Letteratura e politica possono convivere?
«In una conferenza del 1976 negli Stati Uniti, “Usi politici giusti e sbagliati della letteratura”, ho sostenuto che la letteratura è necessaria alla politica prima di tutto quando dà voce a ciò che è senza voce, quando dà un nome a ciò che non ha ancora un nome, cioè escluso dal linguaggio politico. Lo scrittore ascolta e vede più in là, nelle zone d’ombra: il risultato rigoroso raggiunto è un punto di partenza imprescindibile per ogni attività pratica».
Che dire della nostra crisi attuale?
«Prospettiva surreale. Ma si sfonda una porta aperta, è perché del surreale ho fatto un mio principio di ricerca. Si vuole che io mantenga l’etichetta di “profeta”, che molti mi hanno riconosciuto? Si sappia che c’è un altro anniversario, oltre al mio compleanno: l’uscita nel 1963 di “La speculazione edilizia”: là dentro ci si trova la febbre del cemento, le ossessione di cantieri, le interferenze di oggetti del futuro che sarebbero segni inequivocabili di progresso. Io invece ho denunciato questa bassa marea morale anticipando i tempi. Chiudo con l’idea del mio alter ego Palomar: “Il mondo non si lascia capire”».

Stefano Vicentini - Brescioggi





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