Voci dal carcere. Il tempo ritrovato
Data: Venerdì, 18 ottobre 2013 ore 06:30:00 CEST Argomento: Redazione
Nelle galere il tempo
smette di camminare, avanza, come nei manicomi, a passi cadenzati da
catene di sentenze e diagnosi che determinano misure carnali e mentali.
Le galere fanno male a chi ha fatto male e a chi ha la colpa di non
avere colpe. Andrebbero aperte e rinchiuse, come i cancelli delle case
di campagna ad evitare che i lupi affamati di potere facciano razzie
del bene comune. Carichi di questo preambolo siamo andati nell’isola di
Favignana, capitale onoraria delle carceri italiane, dove si isolano i
carcerati collocandoli in isolamento. Ci siamo andati a mani nude,
lasciando le nostre riserve e bisacce ricolme di giudizi e sentenze
fuori dai cancelli mastri. Abbiamo osato, portandoci ben nascosta
dentro la nostra carne armi invisibili: un’idea dominante, la curiosità
e una sfida: ne vale la pena? Ci trovammo, appena entrati, tra muri
altissimi armati di cemento, sbarre d’acciaio vigoroso macchiate da
impronte di mani che le logorano e le accarezzano continuamente.
Chiavistelli che si lasciavano penetrare con fragore da chiavi
scorbutiche e sbilenche. Nei corridoi circolavano sorrisi educati e
maleodoranti che sfioravano e vibravano d’indifferenziata curiosità.
Ma chi sono? Che vogliono?
Che sono venuti a fare qui? Sussurravano tra labbra serrate, gli uni e
gli altri.
*
* *
Nell’entrare in galera ci tiene conforto e ci guida, nascondendo la
nostra paura con spavalderia, il pensiero, la presa d’atto che noi non
siamo loro, i carcerati, i malati di pena, gli allontanati. Noi non
siamo loro, dopo saremo accompagnati fuori, in strada a riprenderci i
nostri passi. E noi non siamo né colpevoli né giudicanti, e se loro
rimangono lì, dentro le mura, è perché un delegato dello Stato, un
giudice ha stabilito l’ordine della pena. Appena arrivati nel salone
principale, ci sediamo, togliendo il tavolo, sul muro basso. Per
comodità o per solidarietà… boh, chissà, forse per mestiere. Entrano
loro, coloro, essi i carcerati, in fila per due, scanzonati, penzolanti
e scontenti. Tutti hanno le dita delle mani pendenti e gli occhi che
sezionano tutto con accortezza senza dimostrare alcuna curiosità. Prova
microfoni, quello a sinistra non funziona, musici e parlatori assumiamo
un contegno rigido e professionale, gentilezze da protocollo e
soprattutto rassicurazioni militari dagli uomini e dalle donne in
divisa. S’impone all’improvviso un pensiero: e se scoppiasse la
rivolta? E se ci prendessero in ostaggio? Noi carcerati dei
carcerati!!!! Un bel casino, saltano i conti. Ma che stiamo combinando,
dice il silenzio parlato… uno di noi. Ma ne vale la pena? Si attacca
con la musica, i professionisti delle note scelgono un brano
circostanziato, consono all’ambiente murario. Dopo la lettura di
scritture: “Sarò”, “Non passa… tempo”, etc. Dal primo microfono seguono
sussurri e grida di storia, di letteratura, e di cancelli che si aprono
e si chiudono, di sentenze e deportazioni. Altre note cantate e
recitate ed ecco che si piazza tradito dalla commozione degli scritti
in mezzo alla sala, il manutentore delle strade della mente. Lui che sa
si volta e si rivolta, cerca finché prima ne afferra uno poi un altro,
il secondo, il terzo… lo spazio si allarga, il tempo restringe, il
cerchio è fatto. Magia, violazione di senso, saper fare. Qualcuno
addirittura osa. E perché non ci parla di lei che interrogare noi!!!!
Non fa una grinza la provocazione, all’improvviso diventa dialogo,
scambio. I volti si tramutano, i visi grigi degli astanti, finalmente,
si impossessano del colore, dei primordiali rossori dell’intesa. Ne
nasce un concerto di volti umani che chiedono e vogliono e sanno
di sapere. Basta, meglio non andare più in là, dove diventa
difficile risalire le pareti lisce e bianche. E per zittire la parola
serve la musica e la voce, ancor meglio se forestiera, ad evitare e
fermare quel tempo che per la gioia della felicità stava iniziando a
camminare, con il rischio che andasse a sbattere in uno di quei muri di
cemento armati di ferro. La lancetta del tempo s’era mossa dentro la
sfera magica delle parole. Era questo quello che voleva la macchina del
pensiero prima di entrare in galera, per questo eravamo andati in
carcere: mettere in moto il tempo!!!! Siamo alla fine del permesso
stabilito, qualcuno si confonde è quasi allegro, è quasi contento, ci
invita a pranzare con loro, i carcerati ed ha quasi voglia di salutare
con un abbraccio… ma quello era solo un uomo che si era ubriacato di
parole e di canti, di canti e cunti. La realtà imponeva altro: loro
dovevano rimanere in carcere e noi dovevamo rimanere fuori dal
carcere!!!!! Si va via, appena uscita dalla galera, contenti e
scontenti, annusando l’odore della libertà ci sforziamo di ricordarci i
momenti di un sogno appena sognato. Gli occhi nostri che non usano
parlare con le parole dicevano tra di loro: “E si che ne è valsa la
pena!!!!”.
Pasquale Musarra
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