Parliamo di Scuola come pubblica istituzione per la formazione
Data: Mercoledì, 16 ottobre 2013 ore 06:30:00 CEST Argomento: Opinioni
Si, perché
da un po' di tempo a questa parte di scuola non si sta parlando più. Si
parla di investimenti sulla scuola, di qualità dei docenti, di
riduzione delle classi e dell'aumento del numero di alunni per classe,
di refezione e problemi relativi, di libri di testo e lavagne
elettroniche, di professori che perdono il posto di lavoro o che non
possono andare in pensione se non dimezzando lo stipendio, ma della
scuola italiana, come pubblica istituzione per la formazione dei
giovani non si parla più da tempo. Forse dal tempo in cui era ministro
un certo Berlinguer, di mestiere docente e un po' politico.
Probabilmente si è smarrito il discorso sulla scuola da quando sono
iniziate delle riforme, ad oggi vigenti, intese a ridurre alcuni
insegnamenti, alcune ore di lezione, dichiarare l'importanza delle
lingue straniere (ma a tutt'oggi chi vuole parlare lingue diverse dalla
materna deve fare ricorso al privato o vivere all'estero).
Piccole variazioni sono state fatte, i titoli di studio sono stati
aggiornati in base alla evoluzione degli istituti magistrali o seguendo
particolari tendenze o abilità (musica, sport) che dovrebbero
riguardare tutti gli adolescenti. La struttura della scuola italiana,
dietro l'apparente cambiamento, è mutata poco. Si sta più anni a
scuola, rispetto agli europei, e molto meno nell'arco della giornata
(che ci si starebbe a fare di più?).
In cambio si ha una ricchezza di docenti forse spropositata ai tempi.
La torta (il diagramma circolare colorato che rappresentava le ore di
lezione per classe di concorso) che solevo presentare ai colleghi nel
tempo in cui presiedevo ad una scuola rappresenta ancora nei licei una
assoluta predominanza di letterati, una quasi equivalente presenza di
scienziati, ginnici, teologi, linguisti, filosofi ed una sparuta
presenza di artisti.
Naturalmente c'è da rispettare una tradizione culturale con
proporzionale presenza di ceto docente. Naturalmente l'esercizio
fisico è molto importante, come le lingue europee, ma chissà perché poi
quasi tutti i ragazzi (e le ragazze) vanno pomeriggio in palestra e a
scuola di lingua.
Bisognerebbe altresì parlare dei tanti istituti professionali che tante
attività svolgono con i fondi europei e lasciano sguarnite quelle
professionalità “manuali” che le imprese italiane cercano. Il problema
forse sta sempre lì, come conciliare la tradizione italiana di
eccellenza culturale e artistica con la professionalizzazione
necessaria per quelli che una volta si intendevano col nome di “arti e
mestieri”.
I genitori tutti vogliono i figli medici, notai, giudici dei TAR,
ingegneri elettronici, al peggio giornalisti o presentatori televisivi,
meglio se calciatori. Tutte cose per cui la scuola secondaria serve
poco o punto. Anche i giornalisti oggi (lo si vede dagli svarioni
linguistici e dai grossolani errori ortografici) hanno poco appreso dai
Licei. I tentativi poi di innestare la manualità nelle scuole di
cultura e la filosofia in quelle professionalizzanti (fine anni
settanta, primi ottanta, Franzoni, Frabboni, Ariosi, Armento, Nardiello
e affini) sono falliti (forse) per mancanza di soldi o per ostilità
ideologica.
L'anticipazione delle superiori ed il prolungamento della giornata
scolastica altrettanto. Le lingue e la matematica sono rimaste tabù. Ci
siamo allontanati ancora dall'Europa (per non parlar dell'India e della
Finlandia).
Per questo forse bisognerebbe finalmente parlare di scuola. Certo anche
per dare un posto ai docenti cha a quarant'anni (o a sessanta?)
aspettano ancora il posto di lavoro che gli è stato fatto balenare
davanti quindici, trent'anni fa.
Le proposte? Non sono facili. Bisognerebbe forse aprire la scuola alla
società, chiedere alle professioni (Confindustria, Confcommercio e
simili) che suggeriscano alla scuola i loro bisogni e le figure
professionali che potrebbero interessare lo sviluppo della società
italiana, dal turismo alla ricerca scientifica ed economica, dalla
salute ai servizi, dallo sviluppo tecnologico alla bonifica sociale
della politica usurata e marcia (sic!) ed aprire un dialogo con gli
operatori della scuola (non le signore berlusconiane delle ultime finte
riforme, ma proprio i professori e i presidi, assieme alle famiglie
degli allievi).
Far uscire la scuola dalle mura cadenti più spesso per confrontarsi con
il mondo del lavoro, ma anche con il mondo in genere (attraverso una
buona educazione interculturale) per imparare le lingue e uscire dal
provincialismo (tutti, non solo i figli benestanti dei politici).
Sarebbe utile che tutti i giovani almeno due settimane l'anno li
passassero in una scuola europea (ma anche asiatica o africana) ospiti
di coetanei alla pari, come pure dovrebbero farlo docenti e presidi,
sotituendosi tra colleghi anche per brevi periodi (metà di scuola, metà
di vacanza) ma ogni anno del loro lavoro. Si faceva una volta, si può
fare meglio oggi con i voli low cost. Gli allievi meno abbienti li si
potrebbe aiutare con i fondi europei che sovrabbondano per altre
iniziative.
Bisognerebbe quindi aprire il vasto capitolo dei rapporti didattici,
dell'enorme problema che rappresenta la relazione tra docenti e allievi
e tra famiglie e scuola, al fine di creare delle responsabilità comuni
che superino il bullismo degli allievi e le acrimoniose pretese (spesso
assurde) dei genitori.
Nessuno ha da dimostrare niente a nessuno. I grandi professori sono
quelli che lasciano profonde tracce (positive) sui propri allievi ed i
buoni genitori sono quelli che aiutano la scuola a che i professori
possano lasciare queste forme (“formare”) sui loro figli. E i presidi?
Basta che riescano a creare il clima sereno e produttivo perché tutto
ciò avvenga. Se ci riescono quel (tanto o poco) che guadagnano se lo
saranno meritato tutto.
Roberto Laudani
robertolaudani@simail.it
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