L'agonia dell'università. A mali estremi, estremi rimedi
Data: Mercoledì, 25 settembre 2013 ore 21:49:31 CEST
Argomento: Redazione


La scuola e l’università sono la cinghia di trasmissione dei valori dominanti in un dato periodo in una società, che in tal modo confida di perpetuarsi. Strumenti, dunque, di conservazione, pur nel mutare di quei valori: oggi è il modello-azienda, è la settorializzazione e la polverizzazione e la monetizzazione del sapere a prevalere, ma fra un docente d’antan che insegnava i cipressetti di Bolgheri a colpi di bacchetta e uno d’oggi che smercia crediti ad anonimi test a risposta multipla la differenza è irrilevante: sempre di imposizione, coercitiva e unilaterale, si tratta.
E invece io sogno una scuola e una università senza programmazione e senza autorità, e una didattica erratica e interattiva. «Saranno non più scuole, ma accademie popolari, in cui non vi sarà distinzione tra insegnanti e allievi, a cui la gente accederà liberamente per ricevere, se lo vuole, un’istruzione gratuita, in cui ognuno a turno metterà a frutto la propria competenza specifica per insegnare ai professori, i quali a loro volta si occuperanno di trasmettere quelle conoscenze che agli altri mancano». Parola di Bakunin: già, di quel temibile sovversivo…

Un esempio più recente di questa libera scuola d’istruzione superiore? La Institución Libre de Enseñanza fondata alla fine dell’Ottocento da docenti universitari licenziati dalla scuola di Stato spagnola, peraltro asservita alla Chiesa. Vi si formarono e/o vi insegnarono Unamuno, Ortega y Gasset, Machado, Lorca, Dalì, Buñuel… Sacrosanta la polemica contro le scuole private, lucrose oasi per ricchi e/o asini, e lo Stato che le foraggia, abdicando ai suoi compiti. Ma siamo certi che l'istruzione sia compito suo? Dimentichiamo quale macchina penosa e tediosa, coercitiva e di scarsi ed effimeri effetti sia la scuola statale? Dico di tutta la scuola, fino all'università; ad eccezione, forse, delle materne, dove spontaneità, interazione e gioco inevitabilmente prevalgono. Dico di quella cinghia unidirezionale di trasmissione di nozioni polverizzate, inscatolate e immediatamente deperibili di cui, e magari con estro e passione, siamo agenti e portavoce. E mi piace invece fantasticare su libere aggregazioni didattiche, dialogiche, laboratoriali, ludiche e conviviali, in cui regalarsi a vicenda passioni e valori, senza gabbie di norme né segregazioni sedentarie. E naturalmente sulla soppressione di quella grottesca menzogna che è il valore legale del titolo di studio.

In conclusione: l'università che vorrei...... e che non ci sarà mai. Una università i cui docenti trasmettano passione e diletto e non noia e fatica. Una università i cui docenti trasmettano valori e non soltanto nozioni. Una università che alimenti vocazioni, non mestieri e routines. Una università che non uccida la speranza, che non trasformi i giovani in vecchi a immagine e somiglianza dei loro docenti. Una università in cui un giovane e brillante neolaureato possa farsi valere più d'un bolso e annoiato cattedratico. Una università in cui docenti e allievi convivano gioiosamente e si scambino opinioni su un romanzo o un film, un’ideologia o un governo o una partita di calcio. Una università che insegni a sognare, a indignarsi, a progettare, a demistificare, a vivere intensamente.

Una università senza cialtroni  - docenti o studenti che siano -, senza marpioni e faccendieri, senza burocrati. Una università che se ne fotte del mercato e valuti una ricerca su un sirventese di Guittone d’Arezzo o un affresco di Giusto de’ Menabuoi alla pari di una d’ingegneria idraulica o diritto amministrativo.
E tanto altro ancora… E crediti, moduli, tabelle, 3+2, TFA, ANVUR, VQR e chi più ne ha più ne metta?

Rispondo come Rhett Butler: “Francamente me ne infischio”.

prof. Antonio Di Grado





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