‘U pani da me’ casa ...
Data: Domenica, 15 settembre 2013 ore 09:15:00 CEST
Argomento: Redazione


Ricordo che, tanto tempo fa, anche a me’ casa facevamo il pane. Ricordo quanto impegno metteva mia mamma! E quanta fatica! Ma oltre al lavoro, mi sovviene, soprattutto, il profumo, quel buon profumo di pane, di casa e di fanciullezza…

Ma per me e mio fratello, a quell’epoca, fare il pane era innanzitutto una dura e gravosa “incombenza” che si ripeteva, puntualmente, una volta a settimana, e che durava un lunghissimo giorno, ma era anche un rito familiare, un passatempo, quasi un gioco di ragazzi! Mia mamma, chissà perché, sceglieva sempre il sabato per fare il pane, probabilmente, perché così veniva celebrata la domenica, il giorno del Signore, con il pane ancora fresco! Poi ‘a “‘nfurnata ‘i pani”, avvolta in panni, per conservare la fragranza e la morbidezza, durava per un’intera settimana! Ricordo ancora gli arnesi che adoperavamo, li ho rivisti, qualche tempo fa, nascosti d’ombra e fuliggine, tra le mille cianfrusaglie del mio garage, ‘u “furcuni” (un lungo bastone di ferro), ‘a “pala” di legno, u cufuni, (un recipienti di ferro), ‘a maidda, (la madia), una vecchia scopa di saggina.

Intanto tutto iniziava la sera precedente, quando mia mamma mi mandava a casa della zia Pippa (sua cognata), a prendere ‘u cruscenti. Confesso, sinceramente, di non aver mai capito in cosa consisteva esattamente quella pasta cruda e qual era la sua vera funzione. Allora mi sembrava un impiastro strano e misterioso, quasi magico, che mia mamma, scambiandolo periodicamente con sua cognata, conservava gelosamente, e segretamente, dentro un recipiente di plastica (porta magiari), di terracotta o di vetro, ben coperto, preferibilmente, da una verde pàmpina di vite, e che, la sera precedente la panificazione, quel panetto, ben fermentato e asciutto, veniva impastato con farina ed acqua tiepida, e messo in un luogo coperto e ben riparato. Così il “cruscenti” (lievito naturale), l’indomani mattina, era pronto per far lievitare tutto il pane.

Infatti, all’alba, verso le sei, la mamma preparava lo “scanaturi” (asse) su cui sarebbe stato impastato il pane. Per prima cosa si pesava la farina che veniva “cirnuta” (setacciata) con un “crivu di sita” (setaccio molto sottile) per poi essere messa sullo “scanaturi”, a formare una piccola montagna. A questo punto si procedeva all’impasto, ricordo che veniva fatto un piccolo “cratere” al centro del quale veniva adagiato il “cruscenti”, preparato la sera prima, poi si cominciava ad aggiungere, poco alla volta, acqua riscaldata e salata, cercando di non farla fuoriuscire dal “cratere”, facendo sciogliere il cruscenti, con le mani, delicatamente, fino a ridurlo in poltiglia. Quando il liquido terminava si versava dell’altra acqua tiepida fino ad inzuppare tutta la farina e ad ottenere un impasto abbastanza solido, che mia mamma ci ordinava di “scanari” con le mani, girandolo e ripiegandolo nella “maidda”, fino ad ottenere una poltiglia omogenea, liscia ed elastica. La pasta per il pane, finalmente, era pronta!

Da questo impasto venivano staccati dei pezzettini alla volta, modellati in forme rotondi e uguali, i “vasteddi”, messe da parte e coperte da una salvietta; il primo pezzo, però, “diventava” ‘u cruscenti, il lievito per la prossima panificazione. Le forme di pane che facevamo a casa nostra erano: ‘a “vastedda” (pagnotta rotonda e piena, di circa un chilogrammo), ‘a “cuddura” (pagnotta più piccola), ‘u “filuni”, “pupuni” o “pistuluni” (pagnotta di forma allungata), ‘u “cucciddatu” o ‘i “cucciddateddi” (buccellato, ciambelle di pane, grandi o piccoli), la “mafalda” (una treccia di pane); certe volte preparavamo anche ‘a “facci vecchia” (piccole pagnotte, non lievitate, che noi ragazzi mangiavamo ancora calde, condite con olio, origano e sale, acciughe o formaggio), e ‘u “pani cunzatu”, (pagnotte rotonde preparate con un impasto più morbido, ulteriormente ammorbidito con acqua tiepida e un po’ d’olio da mangiare farcite con olio, sale, pepe nero, olive, filetti di acciughe salate, formaggio o con altri condimenti). Infine ‘a “scacciata”, che veniva aperta e farcita con ogni ben di dio, pomodori secchi, olive, patate, formaggio, salsiccia. A volte, per delle ricorrenze particolari, i vari pani venivano abbelliti con disegni e incisioni.

Appena finita l’intera l’operazione, i pani venivano adagiati su un letto di farina e avvolti con lenzuola riscaldate e coperte antiche, ‘a “cuttunata” della nonna, o con delle “mante” (coperte di lana), e lasciati a riposare per almeno quattro ore. Intanto, iniziava il faticoso lavoro di “preparare” il forno. Il nostro, ubicato in un locale della terrazza che chiamavamo ‘a “stanza do’ furnu”, come tutti i forni siciliani, aveva la forma di un emisfero, con un’apertura a semicerchio, costruito con mattoni di terracotta e murati con gesso, anche la porticina d’ingresso, ‘a “ucca do’ furnu”, con il portale in lamiera, era costruita in gesso. Quindi, iniziava il lavoro di noi ragazzi, accendevamo il fuoco con fascine di rami ben secchi, “zucca” e “zuccuni” (ritagli di tronchi d’ulivo o d’arancio), mentre dentro il forno si preparava una vera e propria impalcatura di legna da ardere con rametti secchi sottili, accompagnati da un po’ di “rastùccia” (stoppia) e di vecchi giornali che s’incendiavano facilmente, infine, mettevamo ‘a “scòccia” (la buccia secca) delle nostre mandorle.

Il fuoco covava fino a raggiungere la giusta temperatura ed a consumare tutto il combustibile fino a quando le pareti interne non diventavano bianche, dopodiché il forno veniva prima liberato dalla cenere, e riposta nel “cufuni”, poi pulito con delle vecchie scope bagnate, lasciando solamente un piccolo mucchietto di brace. Solo allora era pronto per accogliere il pane, che mia mamma infornava, velocemente, per non far disperdere troppo calore; ma prima, con delicatezza, si percuotevano le pagnotte col palmo delle mani, e se facevano un rumore di vuoto, ad indicare che le molecole interne erano sufficientemente distanziate tra loro, per effetto della lievitazione, il pane era pronto per essere infornato. Poi, dopo un segno di benedizione, e dopo che con un coltello ben appuntito venivano ripresi i disegni che vi erano stati fatti, soprattutto quello centrale (“sgrignatura”) per permettere al pane di aprirsi durante la cottura, mia mamma li portata in prossimità del forno.

Qui, ad uno ad uno, dopo essere stati deposti su un asse di legno ed avvicinati alla bocca del forno, i pani venivano ‘nfurnati, cioè deposti sulla pala ed adagiati sul pavimento del forno, i più grandi in fondo, i cudduri, invece, vicini all’apertura, avendo cura di distanziarli tra loro e dalle pareti del forno per dar loro lo spazio di gonfiare senza “’ncugnàrisi” (attaccarsi gli uni agli altri). Successivamente, il forno veniva chiuso ermeticamente e con rapidità, ‘a “valata” veniva sigillata con un impasto di vecchi giornali inzuppati d’acqua per non far disperdere il calore. Dopo almeno una ventina di minuti, si schiudeva ‘a valata e si controllava l’andamento della cottura, successivamente, di tanto in tanto, si ricontrollava fino ad attendere la cottura completa.

Se il pane posto in prossimità della “bocca” era già cotto si tirava fuori in tutta fretta e si lasciava cuocere il resto; se tutta l’infornata di pane rischiava di bruciarsi, il forno veniva lasciato un po’ socchiuso; se, invece, sembrava che avesse difficoltà a prendere colore, gli si “faceva la facci” cioè si accendeva un po’ di rametti o di stoppia davanti alla porta affinché la temperatura salisse del necessario. Alla fine, mia mamma, raggiante di gioia, con la pala in mano, sfornava tutto il pane, adagiandolo sulla tavola a intiepidirsi, dopo averlo “sbattuto” con le mani per ripulirlo dall’infarinatura che le era rimasta attaccata. Il pane, finalmente, era pronto per essere… gustato! E dalla “stanza do’ furnu” si spandeva tutt’intorno il caldo profumo del pane … da’ za’ Tina! E adesso, che compro grissini e pancarrè in freddi scaffali lombardi, ancora adesso, risento, inconfondibile, quel buon profumo di pane, di casa, e di fanciullezza…

Angelo Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it





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