Distopie siciliane. Cos’altro è la letteratura dei grandi siciliani se non un’utopia?
Data: Sabato, 10 agosto 2013 ore 12:32:07 CEST
Argomento: Redazione


È l’utopia di case del nespolo incontaminate dalla speculazione, di "vinti" umiliati e offesi ma non omologati, di una diversità antropologica fiera e diffidente che si trasforma in opposizione intellettuale, in lettura polemica e demistificatrice della storia, in lungimirante osservatorio e in appartato laboratorio di moralità e di stile.
Da Verga che fa irrompere quei vinti coi loro bisogni e le loro ferite nel salotto buono della letteratura, a De Roberto che smaschera le menzogne dei potenti e svela come cambino bandiera pur di mantenere il potere, a Quasimodo e a Vittorini che cantano "il mondo offeso", a Brancati che alle dittature oppone il buon senso degli uomini qualunque, a Sciascia che denunzia le sconfitte della Ragione e le imposture del Potere (e quanti altri, da Pirandello a Tomasi di Lampedusa, fino a Consolo, D’Arrigo, Bufalino, potremmo aggiungerne!), si celebra uno spietato processo alla storia in nome, appunto di una utopia: l’universo contadino dei veristi ancora vergine e ignaro, antecedente alla storia stessa, refrattario alle sue norme e perciò vittima dei suoi abusi, la piccola umanità di creature miti e indolenti di cui Brancati popola la sua Catania che è solo un sogno leggiadro da opporre a un alienante progresso, le fiere Madri e "il genere umano dei morti di fame" incontrati da Vittorini nella sua Sicilia sotterranea e notturna, il sontuoso "mondo di ieri" agonizzante in un ballo o gettato via con una carcassa di cane nel Gattopardo, il dubbio sistematico di De Roberto o di Sciascia sulle "magnifiche sorti" millantate dal Potere.
Ebbene: a me pare che Vincenzo Consolo, recentemente scomparso, sia stato l’ultimo a credere, e sia pure con crescente disperazione, in quell’utopia e a rievocare con note struggenti quell’isola che non c’è, che non c’è più perché fin dall’inizio e a dispetto della sfida degli scrittori isolani è stata travolta dalla omologazione, dalla speculazione, dalla reificazione dei valori, dal trasformismo delle oligarchie. E allora forse è possibile formulare un’azzardata congettura: e cioè che i nostri scrittori più recenti, drammaticamente scontata l’impraticabilità dell’utopia, si siano convertiti al suo contrario: alla distopia, cioè alla prefigurazione d’un futuro apocalittico in cui le tensioni funeste già oggi operanti trionfino o rischino di trionfare.
Non parlo della pur ricchissima area palermitana, i cui scrittori hanno optato piuttosto per un furente realismo e per una denunzia espressionisticamente "carica", ma di quella orientale e anzi etnea: penso perciò alle recenti distopie romanzesche di Maria Attanasio col suo "condominio" orwelliano, di Massimo Maugeri con la sua isola-parco e nido di vipere, di Elvira Seminara con la sua “penultima” apocalisse nel borgo dei suicidi felici, di Viola Di Grado con la sua città come cosmica estensione e marcescente tripudio della morte individuale, di Ottavio Cappellani con la sua "isola-prigione" e le sue "città alla fine del mondo".
E scusatemi se ho citato due mie congiunte: potevo farne a meno?

Prof. Antonio Di Grado
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Il testo del Prof. Antonio Di Grado, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Catania, è stato letto a Viagrande,  il 9 agosto 2013, in occasione della cerimonia del Premio Città di Viagrande - Antonio Aniante.





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