«La capirei
se fosse una proposta, ma così si tratta di un’imposizione che toglie
libertà alla scuola, comprensibile solo in un regime assolutista. Tanto
più che, per dirla con Clifford Stoll, uno dei pionieri di internet, se
vogliamo un Paese di stupidi è sufficiente centrare sulla tecnologia il
sistema di studi. Un’istruzione di qualità, invece, richiede
applicazione, sacrifici, richiede di fare i compiti a casa e senza fare
il copia-incolla dal web, come purtroppo molti insegnanti mostrano di
accettare». A parlare in questi termini è Giovanni Reale, uno
dei maggiori esperti a livello mondiale di pensiero antico (i suoi
libri sono tradotti in 22 lingue), già docente alla Cattolica di Milano
e all’Università San Raffaele. Sull’onda della decisione del ministero
di sostituire obbligatoriamente dal 2014 nelle scuole i testi cartacei
con quelli digitali ha scritto un
pamphlet per la
Editrice La Scuola, dal titolo: Salvare la scuola nell’era digitale
(pagine 101, euro 10). «
Attenzione
però – aggiunge Reale – io non sono contrario alle nuove tecnologie,
dico però che non devono essere assolutizzate, ma considerate come uno
strumento»
Secondo lei non è
stato ben compreso il rischio di questa scelta?
«Ho letto alcuni articoli che hanno
paragonato questa iniziativa alla diffusione della stampa nel
Rinascimento, in cui si sosteneva che proprio la stampa ha fatto
nascere la cultura della scrittura. Un errore storico gravissimo. La
cultura della scrittura è precedente a Platone. E non è vero che l’uso
diffuso della scrittura ha fatto nascere la filosofia, semmai è il
contrario. È stata la necessità di conservare i dialoghi di Socrate a
costringere i suoi discepoli a trascriverli, perché la semplice memoria
non poteva essere sufficiente. Erano famosi i dialoghi trascritti da
Simone il ciabattino, nella cui bottega spesso Socrate si intratteneva.
Quando il filosofo usciva, Simone ne trascriveva le parole. Insomma, la
diffusione della stampa ha rafforzato una cultura che esisteva da
migliaia di anni, non l’ha creata né promossa. E le nuove tecnologie
nei fatti capovolgono quello che per 2500 anni è stato diffuso con la
scrittura, che ne esce sconfitta».
Un rischio culturale
e sociale insieme.
«Ciò che non si vuole comprendere è
che questi strumenti cambiano il modo di pensare, di rapportarsi con le
cose, con gli altri e con se stessi. Io uso i treni dei pendolari da
tanti anni per recarmi a Milano. Oggi la gente sale, non saluta più
nessuno, si siede e si mette in rapporto con uno strumento tecnologico.
Nessuno si cura più di nessuno».
Ci sono milioni di
persone entusiaste di fare amicizia su internet.
«Gli studi più recenti dicono che
quasi tutte le relazioni nate sul web quando diventano conoscenze
"fisiche" si interrompono. Il virtuale non è il reale. Negli Usa ci
sono aziende che cominciano a imporre ai loro dipendenti di comunicare
fra loro, almeno una volta alla settimana, senza mediatori tecnologici,
faccia a faccia. La comunicazione multimediale è ridurre al minimo le
relazioni».
Questo che
significato ha per la scuola e gli studenti?
«Qualcuno ha già teorizzato il
passaggio del sapere dagli insegnanti alle macchine. Nei fatti gli
insegnanti dovrebbero diventare dei tecnici, degli assistenti delle
macchine. In questo modo si rompe il rapporto fra persona e persona e
la scuola non è più scuola secondo un modello che è servito a costruire
la nostra cultura (quindi anche le nuove tecnologie) per migliaia di
anni».
Ormai da decenni il
rapporto fra docenti e allievi è compromesso.
«Si dice che la scuola peggiore in
Europa sia quella francese (ma noi seguiamo a ruota) in cui la colpa è
sempre dell’insegnante e mai dell’alunno, in cui si è proposto di
abolire i compiti a casa, perché la famiglia, corrosa dall’interno, non
vuole più avere problemi con i figli. Ma già 50 anni fa, quando
insegnavo nelle scuole di recupero, i ragazzi più difficili venivano da
famiglie sfasciate, che non se ne prendevano cura».
Oggi le
famiglie sono sempre meno famiglie e i ragazzi sempre più soli...
«Per questo è necessario che la
scuola ricominci a fare la scuola e non abdichi definitivamente».
E cosa deve
fare la scuola per fare la scuola?
«Bisogna tornare a
comprendere che tutto ciò che si apprende è frutto di fatica e il grado
di istruzione è direttamente proporzionale all’impegno. Oggi invece c’è
chi si presenta per la laurea con tesi scopiazzate da internet.
Recentemente a un premio per i giovani sull’Europa sono stati trovati
tre temi uguali. Gli autori, esclusi, si sono ribellati sostenendo di
essersi impegnati nel fare ricerca. Ma hanno fatto solo copia e incolla
dallo stesso sito web».
Viene in mente
la frase di Clifford Stoll da lei citata all’inizio.
«Il problema non sono le nuove
tecnologie, ma l’uso sbagliato che se ne fa. Internet lo uso e mi è
utile. Ma lo uso come mezzo, non come fine della mia conoscenza. Quando
venni chiamato dal ministro Berlinguer nel gruppo di studio per la
riforma scolastica, mi trovai in conflitto con alcuni dei colleghi (gli
stessi che hanno ispirato il ministro Profumo) che sostenevano che i
classici a scuola sono superatissimi. "Basta con i classici" dicevano,
bisogna dare strumenti multimediali. Io obiettavo che gli strumenti non
sono i contenuti. Loro a insistere che i contenuti vengono fuori
dall’uso degli strumenti. Ma questi strumenti non possono essere
considerati dei creatori di contenuti. Gli strumenti servono per
diffonderli, non per crearli. Chi mette i contenuti negli strumenti?».
Quindi,
tornando alla scuola?
«Un Paese che vuole costruire futuro
deve fare in modo che la scuola non perda il suo ruolo di costruttrice
di rapporti umani e di quella forza produttiva che è l’intelligenza
dell’uomo, che costruisce le macchine e le usa, ne idea e ne costruisce
altre. Lo scopo del mio libro è denunciare questo rischio. Come diceva
Marco Aurelio, "al mattino, quando ti svegli e ti senti stanco, devi
dire: mi alzo per compiere il mio mestiere di uomo". E allora dobbiamo
chiederci con sincerità: ma l’uomo ipertecnologico come se la cava nel
mestiere ultimativo che è quello di essere vero uomo? Oggi a chi è
affidato il compito di costruire gli uomini di domani? Alle macchine?».
Intervista di R. Zanini,
Avvenire