Un breve ricordo del Boccaccio nel settimo centenario della sua nascita
Data: Venerdì, 05 aprile 2013 ore 07:30:00 CEST Argomento: Redazione
Dell’autore
del Decamerone ricorre
quest’anno il settimo centenario della nascita. Ricordarlo direi
che sia quasi un dovere ineludibile se si considera che la
terza delle “tre corone fiorentine” è l’autore di un libro di
novelle che è stato da sempre nel canone delle
nostre letture scolastiche obbligatorie, e nei secoli si è
imposto come l’archetipo della scrittura narrativa, lasciando un
segno indelebile, non solo nella storia letteraria del
nostro paese.
Giovanni Boccaccio viene alla luce a Certaldo, nella Val d’Elsa, a 40
km. da Firenze, una calda giornata di giugno o, forse, luglio, del 1313
-( dovevano frinire forte le cicale)-, da Boccaccino di Chelino e una
donna la cui identità anagrafica ci è sconosciuta. La storia della sua
avventura umana e scrittoria inizia, per noi, a partire dal
1327, anno in cui Giovannino giunge a Napoli verso la fine dell’estate.
Ha appena compiuti 14 anni. Deve far pratica di mercatura, come impone
tradizione di famiglia. Ma l’adolescente non sembra portato per tale
mestiere; se lo fa, è di mala voglia; ha altri grilli per la
testa; il suo spirito discolo e arguto, veleggia altri lidi che non
quelli dei libri di conto; si trova a suo agio solo tra le Muse e,
meglio ancora, se sono Muse “in carne e ossa” svolazzanti tra le dorate
mondanità aristocratiche della raffinata e colta corte angioina.
Inguaribile galante, sognatore di avventure amorose con addosso una
gran vitalità, il giovincello di Certaldo si rivela un instancabile
appassionato lettore di libri romanzeschi, soprattutto francesi, e di
cantàri, oltre che un incorreggibile scavezzacollo! Inutili
i richiami e le scenate e i crucci del padre che sogna per il figlio
una carriera radiosa, e più redditizia, da gran banchiere! L’aritmetica
e il tirocinio di pratica finanziaria non si confanno per nulla al suo
carattere. La corte, con le sue belle donne, e la biblioteca di Roberto
d’Angiò, con i suoi preziosi libri: sono questi i luoghi
preferiti dalla giovinezza napoletana, spensierata ma studiosa, del
certaldese, frequentati e deputati a meglio soddisfare le sue
intemperanze insieme con le naturali vocazioni.
I frutti scrittori della dozzina d’anni del soggiorno partenopeo non
sono certo avari di soddisfazioni. Sotto la forte e ammaliante
pressa della lettura intrigante degli autori latini e della cultura
romanza, sgorgano fluenti le storie dalla fantasia del giovane
narratore. E sono, spesso, rime e storie d’amore e morte. Ne
citiamo alcune( di storie): il Filocolo,
primo romanzo in prosa della nostra letteratura, appassionatamente
rielaborato e dinamizzato sulla falsariga della materia del notissimo
romanzo francese, narra i casi avventurosi di Florio e Biancofiore; il Filostrato, poema in ottave
suddiviso in nove canti, in cui è “cantata” la lacrimevole vicenda
dell’infelice amore di Troilo, figlio di Priamo, per Criseide,
bellissima e infedele vedova, figlia di Calcante; la Caccia di Diana, poemetto in terzine
che racconta in chiave mitico-allegorica una battuta di caccia condotta
dalle dame napoletane devote alla dea; ecc. ecc.. Mica male, per uno
che, nel frattempo, non rinunciava a divertirsi!
Nel 1340 Boccaccio, richiamato dal padre, deve fare ritorno a
Firenze. Vi giunge in un freddo e piovoso giorno d’inverno.
Ha ventisette anni compiuti; al suo attivo, un discreto numero di opere
in versi e in prosa, e una folta schiera di ammiratori e, soprattutto,
di ammiratrici. La Firenze della “gente nova” e dei “subiti guadagni”,
“tutta in arme e in guerra, e di avara e invidiosa gente fornita”, e
“piena di innumerabili sollecitudini”, non somiglia affatto alla città
partenopea , “ oasi di pace [[…] lieta, pacifica, abondevole, magnifica
e sotto ad un solo re” (Fiammetta,c.II). La stagione degli amori
e delle scorribande, anche notturne e postribolari, è un lontano
ricordo. Pure i rapporti del padre con la prestigiosa compagnia dei
Bardi si sono raffreddati. Gli affari, infatti, in casa Boccaccino non
girano per il verso giusto. Vanno proprio piuttosto male. Non
così, la vena scrittoria di Giovanni. A Firenze, pur tra
incombenze di vario genere, porta a termine opere ideate in
precedenza a Napoli, e altre nuove ne compone: il Teseida, poema in ottave
diviso, sul modello dell’Eneide, in dodici libri, in cui si narra la
guerra di Teseo contro le Amazzoni e, frammista alle battaglie,
la contesa sorta tra Arcita e Palemone, prigionieri tebani, per la
conquista amorosa di Emilia. E ancora: Il
Ninfale d’Ameto; L’Amorosa visione; l’Elegia di madonna Fiammetta
(1343-44), primo esempio di romanzo psicologico della nostra
letteratura, in cui si narra in prima persona la storia di un’amante
abbandonata dal suo uomo, e che non si rassegna al suo triste
destino); il Ninfale fiesolano
(1346?), poemetto pastorale che narra la storia d’amore
tormentata di un pastore, Africo e di una ninfa, Mènsola, ecc. ecc.
Opere, queste, certamente, “minori”, ma non prive, a sfogliarle
qua e là, di pagine ancora fresche e di non sgradevole lettura.
Beninteso: siamo sempre a libri, comunque, che mantengono solo una pura
importanza storica, nessuno, oggi, consiglierebbe di leggerli per
intero! Ma il capolavoro bussa già alle porte .
Il 1348 è l’anno terribile della peste,
che semina morte e stravolge la vita dei normali rapporti
umani e del consorzio civile. Il Nostro ha 35 anni; è giunto “nel mezzo
del cammin” della sua vita. Questa età anagrafica, in concomitanza col
la peste dell’anno 1348, sembra acquistare una valenza
simbolico-allusiva sul piano storico e personale. La peste descritta
nel proemio del suo capolavoro, nell’immaginario collettivo è un vero e
proprio castigo di Dio; un male immondo da cui bisogna fuggire
per ritrovare e rifondare nuovi valori più umani e più giusti,
per potersi salvare. Verso il 1349-1351, Boccaccio dà
una sistemazione generale e conclusiva a quel libro che noi chiamiamo
Decamerone, e che lui propriamente intitola così: Libro chiamato Decameròn, cognominato
Prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì
dette da sette donne e da tre giovani uomini. Si tratta,
dunque, di una raccolta organica di cento novelle, raccontate in dieci
giornate, che sia come lo specchio della molteplicità e complessità del
reale; un’ opera didattico- allegorica e salvifica; quasi una
nuova e più laica “commedia” umana”( De Sanctis). Con essa
lo scrittore si propone di celebrare il trionfo della vita sulla
morte, e una nuova concezione del vivere operoso, nel quale “gli ideali
cavallereschi e cortesi del mondo feudale” si possano adattare alle
esigenze di quella borghesia mercantile che “nella seconda metà del
Trecento costituiva il ceto sociale più ricco e più elevato di
Firenze”.(Petronio). In effetti, l’allegra brigata del Decamerone che,
passata la peste, ritorna in città, dopo la esperienza
etico-estetica del suo idilliaco soggiorno in villa, è la
prefigurazione dell’ l’immagine di quella nuova società, fatta di un
nuovo ordine di rapporti e di regole di convivenza civile, e di quella
nuova letteratura, realistica e cortese insieme, cui sempre il
Boccaccio ha agognato, sin dai primi esordi napoletani.
Nel ventennio che segue la composizione del Decameron, la produzione in
volgare del Boccaccio è di scarso valore artistico e non fa
conto, per noi, menzionarla. Piuttosto ricordiamo, degli ultimi
anni, l’amicizia col Petrarca, che fu intensa a partire dal ’50 ;
alcune ambascerie per conto del comune di Firenze. Nel 1361 Boccaccio
si ritira definitivamente a Certaldo, patria dei suoi avi, dove qualche
terra e una casa gli son rimaste. Per ammazzare il tempo nelle lunghe
serate d’inverno si dedica ad opere erudite in latino; copia di
suo pugno ex novo nel ‘ 70-71 il Decamerone( la copia
calligrafica che ci è pervenuta, e che si chiama” Codice Hamilton 90”,
è il Decamerone del Boccaccio come lo conosciamo, oggi, noi
); e prepara, intanto, le letture dantesche. Con delibera,
infatti, del Consiglio comunale di Firenze del 13 agosto 1373,
gli era stato conferito l’incarico di tenere pubbliche letture dell’Inferno di Dante, “ con salario di
cento fiorini”. Accetta con entusiasmo Boccaccio quest’ultimo faticoso
impegno, anche se la salute, malferma già da un pezzo, tende sempre più
a peggiorare. Soffre di obesità, forse di idropisia. Le sue letture
nella Badìa Fiorentina è costretto ad interromperle al
canto 15 dell’Inferno, per gravi motivi di salute, ai primi del 1374.
Giovanni Boccaccio muore la notte del 21 dicembre del 1374. Quasi
cinque mesi dopo la dipartita ad Arquà del suo grande amico e maestro
Francesco Petrarca.
Nuccio Palumbo
antonino11palumbo@gmail.com
Biblioteca essenziale di base.
L. Battaglia Ricci, G. Boccaccio, sta in : Storia della Letteratura
italiana, Il Trecento. Ed. Il Sole 24 ore, 2005
G. Dossena, Storia confidenziale della Letteratura italiana, 2. Ed.
Rizzoli, 1989
G. Petronio, Compendio di storia della Letteratura italiana, ed.
Palumbo, 1971
F. De Sanctis, Storia della Letteratura italiana. Ed. Feltrinelli,1970
C. Muscetta, G. Boccaccio e i novellieri, sta in: Storia della
Letteratura italiana. Ed. Garzanti, vol.2°,1965
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