L’autonomia dai 'presidi-manager'
Data: Lunedì, 25 marzo 2013 ore 07:30:00 CET Argomento: Opinioni
Nella mia
carriera professionale ho incontrato soprattutto due generi di capi
d’istituto.
La prima categoria, forse la più diffusa nel mondo della scuola, è
quella del preside “hitleriano”, o dispotico, che gestisce
l’istituzione in modo autocratico e verticistico, scambiando
l’autonomia scolastica per una tirannide individuale e considerando i
rapporti interpersonali in termini di supremazia e subordinazione.
Questa figura di preside non ama affatto le norme e le procedure
democratiche, scavalca gli organi collegiali ed assume ogni decisione
in maniera oltremodo arbitraria e discrezionale senza consultare quasi
mai nessuno. Costui si pone sempre in modo arrogante, protervo ed
autoritario, dimostra (intenzionalmente o istintivamente) un cipiglio
severo e spietato per intimorire e mettere in soggezione gli altri.
Abusa spesso dei propri poteri e tende a commettere facilmente angherie
e soprusi verso i sottoposti, trattati alla stregua di sudditi privi di
ogni diritto ed ogni libertà, con i quali si comporta in modo
inclemente.
La seconda tipologia, forse la più pericolosa, è quella del dirigente
affarista e demagogo, che spesso si sovrappone e coincide con il tipo
assolutista. Tale soggetto concepisce la scuola come una sorta di
proprietà privata, la sfrutta per scopi di lucro e prestigio personale,
per cui la gestisce in modo da trasformarla nel più breve tempo
possibile in un progettificio scolastico. In tal senso si adopera per
reperire ogni finanziamento aggiuntivo messo a disposizione delle
scuole, da cui attinge elargendo i fondi senza un giusto criterio,
applicando logiche clientelari e paternalistiche per favorire di solito
una cerchia composta dallo staff dirigenziale. Da un tale assetto
politico-gestionale scaturisce un carrozzone progettuale ed
assistenzialistico carico di una pletora di iniziative didattiche
eccedenti che non hanno alcuna ricaduta positiva sulla formazione
educativa e culturale degli studenti. Una tale sovrabbondanza di
sovvenzioni e di contributi finanziari in realtà serve a beneficiare
esclusivamente una minoranza di faccendieri e di cortigiani, ma
soprattutto ad arricchire il dirigente stesso.
Infine, esiste un’altra tipologia, che è quella del preside umano, con
tutti i suoi pregi ed i suoi difetti. E’ indubbiamente l’esemplare più
raro, ma è l’unico che ispiri la mia simpatia e la mia approvazione
sincera. Di rado se ne può incontrare persino qualcuno.
L’esser diventati più influenti e decisivi a livello
politico-gestionale, sia pure in seguito ad un’investitura calata
dall’alto e non per effetto di una designazione democratica proveniente
dal basso, ha comportato per i dirigenti scolastici una serie di
ineludibili responsabilità e di doveri che sono anche di natura
informativa ed interpretativa, e consistono nel fornire in modo
corretto e tempestivo il maggior numero di dati e cognizioni utili a
far comprendere meglio le problematiche della “comunità scolastica” sia
alla collegialità dei docenti e dei lavoratori della scuola, sia alle
famiglie o, se si preferisce, all’“utenza”, tanto per usare un gergo
caro agli aziendalisti. Ormai nella scuola si sente sempre più spesso
adoperare un lessico semi-imprenditoriale: termini come “profitto”,
“competitività”, “produttività”, sono di uso comune tra i dirigenti
scolastici che non sono più esperti di psico-pedagogia e didattica ma
pretendono di essere considerati “manager”, benché siano in pochi a
saper decidere come e perché spendere i soldi, laddove ci sono. Anche
nella scuola sono stati introdotti organigrammi e metodi di gestione
mutuati dalla struttura manageriale dell’impresa capitalista. In questo
assetto gerarchico sono presenti vari livelli di comando e
subordinazione. Si pensi ai “collaboratori-vicari” che, in base alle
norme vigenti, sono designati direttamente dal dirigente, mentre in
passato erano i Collegi dei docenti che eleggevano dal basso i propri
referenti a supporto della dirigenza. Si pensi alle RSU, i
rappresentanti sindacali eletti dal personale docente e non docente. Si
pensi alle cosiddette “funzioni strumentali”. In altri termini si tenta
di emulare, sia pure in modo maldestro, la mentalità utilitaristica, la
terminologia economicistica, i sistemi e i rapporti produttivi, gli
apparati di tipo industriale all’interno di un’istituzione come la
scuola che dovrebbe perseguire quale fine ultimo “la formazione
dell’uomo e del cittadino”. Altro che fabbricazione di merci.
E’ evidente a tutte le persone di buon senso che si tratta di uno scopo
diametralmente opposto a quello che è l’interesse prioritario di
un’azienda capitalista, vale a dire la massimizzazione dei profitti. I
ministri e i “manager” dell’istruzione, in buona o in mala fede
confondono tali obiettivi, alterando il senso primario dell’azione
educativa, sempre più affine al ruolo di un’agenzia di collocamento o
un’area di parcheggio per disoccupati e precari permanenti. Inoltre,
taluni dirigenti concedono fin troppo spazio e credito alle meschinità
umane: pettegolezzi, maldicenze, ipocrisie, sospetti, risentimenti
personali e finti vittimismi, comportamenti e situazioni
controproducenti che avvelenano l’ambiente lavorativo, pregiudicando il
fine supremo dell’educazione alla convivenza democratica.
Se non si fosse compreso chiaramente, non nutro stima o simpatia verso
tali figure, che ho sempre giudicato con diffidenza e criticità. Reputo
i sedicenti o pretesi “manager” (non solo nel settore scolastico) come
individui abili nell’arte della mistificazione, della dissimulazione,
della manipolazione delle idee e delle persone. Insomma, una sorta di
“virus” capaci di infettare e corrompere un corpo già potenzialmente
malato come quello delle scuole (ma il discorso potrebbe essere esteso
ad altri ambienti di lavoro) semplicemente per la loro presenza che
rischia di infettare le cellule ancora sane ma vulnerabili. Il
riferimento alla medicina è calzante in quanto è l’unico termine di
paragone che consente di illustrare, con una metafora brutale quanto
efficace, il convincimento che mi sono formato a proposito di tali
dirigenti e degli ambienti che essi costruiscono a propria immagine e
somiglianza. Presumo che nelle scuole private la situazione sia persino
peggiore in quanto i dirigenti agiscono da padroni assoluti. Questo è
l’esito a cui sono approdate le scuole dal giorno in cui è entrata in
vigore la legge sulla “autonomia scolastica”, specie quella
amministrativa-finanziaria, che assegna una serie di prerogative
decisionali ai dirigenti e alle oligarchie che li affiancano nei loro
arbitri.
In virtù della cosiddetta “autonomia” lo strapotere e l’autoritarismo
paternalista di molti dirigenti dilagano oltre ogni misura ed è quasi
impossibile contrastarli sul terreno della democrazia collegiale dato
che gli organi collegiali sono esautorati, resi di fatto passivi e
subalterni. Le scuole sono dunque gestite da presunti “manager”, molti
dei quali perseguono un’opera di proselitismo nel senso deteriore
del termine, esibiscono atteggiamenti troppo disinvolti e spregiudicati
in chiave personalistica, frutto di una mentalità paternalista forgiata
su favoritismi concessi a vantaggio di una cerchia ristretta composta
da traffichini, lacchè e adulatori. Tali scuole infestate dal
“malaffare” non sono luoghi moralmente integri e frequentabili dai
discenti. Le scuole contaminate dagli “agenti patogeni” dell’affarismo,
dell’utilitarismo e del clientelismo, che decompongono un corpo già
malato con il rischio di infettare le cellule ancora sane, non sono
ambienti educativi in cui si esplica la formazione dell’uomo e del
cittadino, come detta la Costituzione. Sempre più scuole si configurano
come progettifici, nel senso che hanno assunto la fisionomia di
“fabbriche di progetti” che sfornano in dosi industriali (solo sulla
carta) iniziative inutili e fasulle, in qualche caso fantomatiche, non
per rispondere alle istanze culturali, psicologiche e sociali degli
allievi, bensì solo per appagare gli appetiti venali e l’ambizione di
potere (un miserrimo potere) dei dirigenti e dei loro cortigiani. I
quali si mostrano ossequiosi verso le figure gerarchicamente superiori,
arroganti verso i soggetti umili e sottomessi. Le malcapitate scuole
sono diventate carrozzoni assistenziali e pseudo aziendali che curano
gli interessi esclusivi di cricche formate da gente mediocre e venale,
conformisti e faccendieri, che circondano e corteggiano i capi
d’istituto. I quali agiscono sovente in modo cinico e spregiudicato,
cercando di condizionare o manipolare a proprio piacimento le persone,
quasi fossero una sorta di sultani locali. Inoltre, un dirigente serio
e scrupoloso, che ha a cuore l’interesse degli studenti e degli
insegnanti, dovrebbe preoccuparsi di promuovere un clima relazionale
sereno e favorevole al processo di insegnamento e di apprendimento.
Laddove imperversano i notabili della politica, funzionari e burocrati
ottusi, arrivisti, carrieristi e affaristi, la Politica, intesa
nell’accezione più nobile della partecipazione diretta ai processi
decisionali, degenera inesorabilmente in clientelismo e paternalismo
che sono un malcostume antidemocratico. Tutto ciò che i notabili o i
pretesi manager toccano, finisce per corrompersi e in ogni caso si
deteriora. Si pensi alle scuole che essi organizzano e trasformano a
propria immagine e somiglianza: mega-carrozzoni assistenziali, nella
migliore delle ipotesi circhi in cui si spettacolarizza ogni
iniziativa, in cui si spaccia per “cultura” un ventaglio di azioni
pseudo formative prodotte in quantità industriale che rivestono una
sola valenza, ossia una finalità affaristica e commerciale.
Non intendo generalizzare ragionando per categorie astratte o
semplicistiche, tuttavia i presidi più “insidiosi” o “inaffidabili” sul
piano della gestione politica delle scuole (a livello umano il discorso
si fa ovviamente più complesso e profondo) sono quelli che, in
malafede, vogliono a tutti i costi mostrarsi democratici e tolleranti
verso chi dissente. E’ indubbio che il dirigente effettivamente
democratico non si vede, né si giudica nei momenti di consenso ma di
dissenso. E’ questo un caso emblematico in cui il “potere tautologico”
della parola si contrappone alla “tautologia del potere”. L’evidenza
tautologica, o l’ovvietà, è il paradigma attraverso cui il potere, una
volta affermato, tende a rafforzarsi ed auto-legittimarsi. E’ facile
professarsi, a chiacchiere, “convinti democratici” senza dover
sostenere un contraddittorio, circondandosi di falsi adulatori in
livrea che non vogliono, né sanno svolgere un ruolo critico sul piano
della trasparenza e del controllo democratico. Il modo in cui si
affronta la contestazione è la prova del nove per un vero democratico,
a maggior ragione se si tratta del preside di un’agenzia educativa che
adempie al ruolo, assai arduo e delicato, di formare i cittadini di
domani.
Lucio Garofalo
l.garofalo64@gmail.com
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