Vivalascuola. Rileggiamo don Milani
Data: Venerdì, 08 febbraio 2013 ore 15:30:38 CET
Argomento: Rassegna stampa


L’esperienza della Scuola di Barbiana e la sua eredità odierna
di Franco Toscani

1. La “parola ai poveri”. Una lotta per la cultura e il linguaggio, per l’eguaglianza e la dignità
Lettera a una professoressa – che ancor oggi, a decenni dalla sua pubblicazione, suscita polemiche e discussioni appassionate – è ben più che un atto di denunzia contro la scuola classista, è la rivendicazione d’una scuola al servizio della vita, che prepari ad essa con rigore e concretezza, senza vuoti formalismi.

Una scuola che non contempli più la tragica separazione tra lavoro intellettuale e manuale, come se l’uomo fosse fatto di sola mente o di solo sapere da un lato, di sola prassi o abilità tecnica dall’altro.

Una scuola per la quale la cultura non sia mera chiacchiera da salotto, sterile esibizionismo e ornamento, gergo riservato a pochi specialisti, ma indispensabile caratterizzazione qualitativa ed elemento di crescita delle persone.

Che non indottrini, ma contribuisca a formare uomini liberi e autonomi, in grado un giorno di prenderne le distanze criticamente, sino a deriderla.

Che denunzi e smascheri la violenza come legge del mondo, lotti contro il mondo ingiusto e per l’affermazione della dignità di tutti.

Che alimenti la speranza dei e nei poveri, colga e valorizzi le differenze culturali, il rispetto per le culture di tutti i popoli del pianeta:

“In Africa, in Asia, nell’America Latina, nel mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d’essere fatti eguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell’umanità”. (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 80)

Qui davvero Milani e la scuola di Barbiana – assumendo pienamente i risultati dell’antropologia culturale del XX secolo – anticipano la proposta dell’ “uomo planetario” di Ernesto Balducci.

Ma, secondo quest’ultimo, noi ci comportiamo come se le tante “Barbiane del mondo” non ci fossero e come se al mondo ci fossimo solo noi:

Il nostro mondo occidentale è ormai in via di rapida omologazione, senza più Est e Ovest, è un mondo che presume di possedere la cultura autenticamente umana. Di fronte al nostro mondo occidentale, le Barbiane del mondo…, perché Barbiana è un nome emblematico, Barbiana non è più in Mugello: Barbiana è in Africa, è nel Medio Oriente, Barbiana è una comunità musulmana, Barbiana è nell’America Latina. Le Barbiane del mondo dicono che noi ci comportiamo come se il mondo fossimo noi” (E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, p. 128; cfr. G. Pecorini, Don Milani. Chi era costui?, pp.  89-91).

L’attenzione va dunque rivolta alle “Barbiane del mondo” e al nostro rapporto con esse. A distanza di vent’anni dalla pubblicazione della Lettera a una professoressa, sul tema della “parola ai poveri” ha scritto nel 1987 Giancarlo Zizola:

Sono passati venti anni dalla morte di don Milani e la parola ai poveri continua ad essere un messaggio estremamente valido, purché sia reinterpretato alla luce della nuova condizione dei saperi tecnologici oggi. Noi viviamo in un processo di crescente omologazione. Il problema, quindi, non è quello di dare la parola. Essa è data, ma è una parola che fa poveri. Questa è la differenza fondamentale. È una parola che non libera più i poveri, ma li rende schiavi.

Attraverso questi processi di omologazione, omogeneizzazione crescenti, noi abbiamo la parola usata, consumata all’interno dei valori o disvalori del mercato. In diretta connessione con gli interessi del mercato, un modello antropologico che è subalterno e funzionale agli obiettivi del mercato stesso. La parola si fa mercato e il mercato si fa parola.

Nel bagaglio dei poveri, oggi, non ci sono più duecento parole. Ce ne sono duemila, ma non sono parole di liberazione: sono parole di schiavitù. Questo è il punto decisivo della discussione. Per cui, il messaggio di don Milani per ritrovarsi come messaggio identico a sé stesso deve essere riletto sotto quest’aspetto. Lo dico con molta sommarietà e con tutta la sofferenza implicita in questa constatazione che non è facile”. (G. Zizola, in Aa. Vv., Don Milani e la pace, pp. 163-164.)

A distanza di decenni dalla Lettera a una professoressa e dai tempi della scuola di Barbiana, è purtroppo rimasta immutata all’inizio del XXI secolo la miseria culturale delle classi subalterne, che ha soltanto cambiato forma nei nuovi scenari della civiltà consumistica e (come direbbe Günther Anders) “sirenico-spettacolare”.

Le masse odierne sembrano quasi completamente irretite nei meccanismi e nei modi d’essere di tale civiltà. Questo irretimento ostacola e impedisce quella presa di coscienza e quella radicale assunzione di responsabilità che sono il fine essenziale cui mira il processo educativo secondo Milani. Anzi, l’irretimento favorisce i processi tuttora ampiamente in atto che vanno nella direzione dell’eterodirezione, del controllo e della manipolazione politico-massmediatica delle masse, della crescita del conformismo e del populismo.

Su ciò riflette acutamente Pecorini nel suo Don Milani! Chi era costui?:

Identica a quella di allora, immutata, è oggi (nel Mugello come in tutto il nostro mondo ‘progredito’) la miseria culturale delle classi subalterne, cui un po’ di sacrosanto benessere economico e di ubriacatura consumistica sommati a dosi massicce di rimbambimento evasivo-calcistico-televisivo, han tolto la consapevolezza della subalternità. Hanno anestetizzato la rabbia. Hanno dato la persuasione di vivere felici nel migliore dei mondi possibili. Hanno insegnato l’indifferenza, scorciatoia sulla via della droga. Hanno inculcato la presunzione di superiorità sui diversi, radice dell’odio e seme del razzismo. Hanno trasmesso l’orgoglio dei privilegi illusorii. Li hanno persuasi del valore dell’ignoranza. Della necessità dell’obbedienza a ogni moda. Dell’estraneità della politica. Dell’inutilità di qualsiasi impegno. Della priorità dell’interesse personale e privato sul collettivo e sul pubblico. Della superfluità risibile del senso civico. (…)

Le proposte di Lorenzo Milani e di Barbiana restano dunque tutte valide e possibili anche se probabilmente tutte irrealizzabili. Tutte necessarie, quindi tutte irrinunciabili. E su tutte bisogna continuare a puntare e a lavorare. Pur sapendo che forse non si attueranno mai. Anzi: proprio per questo. Perché non è vero che il ‘segreto di Barbiana non è esportabile’.

Lorenzo Milani lo ha scritto nel 1960, ‘cristianamente’ confortando con quel ‘non vi resta dunque che spararvi’ chi gliene domandava. Ma l’aveva scritto soltanto ‘per dar forza al discorso’, come sei anni dopo farà nel testamento. Esportare il segreto della Barbiana del Mugello, che sta tutto negli obiettivi, e ripeterne il metodo, che è tutto di impegno e di coerenza, nelle tante Barbiane del mondo, è l’unica possibilità/speranza che ci resta” (G. Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, pp. 149-150).

La scuola di Barbiana – nella quale il priore amò quotidianamente come propri i figli dei poveri, nella speranza del loro riscatto – fu un piccolo e prezioso experimentum mundi, un laboratorio di “utopia concreta, il cui valore non potrà mai essere adeguatamente compreso dagli intellettuali saccenti con la puzza al naso, contro i quali don Lorenzo polemizzò a più riprese.

Può venir fuori un buon comunista dalla mia scuola. È evidente”, egli disse nell’intervento del 3 gennaio 1962 a un convegno fiorentino di direttori didattici (L. Milani, I care, pp. 90-91).

In tale scuola – che fu per il suo animatore il modo per amare gli ultimi al di là dei dettami dell’universalismo astratto, anche cattolico – si operava per 12 ore dalla mattina alla sera, non si faceva neppure un giorno di vacanza all’anno, il priore incitava gli insegnanti al celibato per offrirsi totalmente all’insegnamento, esortando tutti a non avere alcun tipo di debolezza e a dedicarsi esclusivamente al servizio del prossimo.

Campeggiava a Barbiana una frase di un ragazzo cubano: “El niño que no estudia no es buen revolucionario”, alla quale Milani aggiunse un’altra precisazione fondamentale: “El maestro que no estudia no es buen auctoritario” (cfr. L. Milani, I care, pp. 114-115; E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, pp. 46-47, 98). Le due frasi sono da dedicare a tutti quei presunti rivoluzionari e a quei sessantottini che – in nome di uno pseudo-egualitarismo ideologico e di un permissivismo che finiscono col sancire esclusivamente il dominio dei privilegiati – ignorano o sottovalutano il valore della cultura, della ricerca e dello studio.

Il vero educatore è colui che confida nelle capacità creative, nelle possibilità ancora inespresse e latenti negli individui. L’educazione non è dunque essenzialmente in alcun modo indottrinamento ideologico, filosofico, religioso o politico.

Rileva qui con grande lucidità Balducci in Coscienza morale e verità cristiana in don Lorenzo Milani (1984):

L’educazione è risvegliare nelle coscienze la verità che è dentro le coscienze, in modo che esse diventino capaci di ragionare da sé, di giudicare da sé, di farsi libere in un mondo in cui la libertà è un rischio, una conquista e mai un dato di fatto o un dono radicato.

Questa visione del processo educativo vale in qualsiasi ambiente, in qualsiasi spazio dell’educazione. Ecco perché, senza nessuna indulgenza alla retorica celebrativa, Milani non è una figura del passato, ma una figura che abita ancora il nostro futuro” (E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, p. 100).

Nella scuola di Barbiana la centralità della dimensione contemporanea è dovuta alla grande attenzione per il tema dell’altro e della relazione con gli altri, all’esigenza acutamente avvertita non solo di conoscere, di elaborare idee, di possedere il linguaggio e la cultura, ma anche di vivere il presente e di inventare la storia.

La scuola vuole combattere sia l’individualismo sia il collettivismo astratto e statalistico per giungere a una migliore civiltà planetaria, per cambiare il mondo secondo i principi della giustizia e della sobrietà, della solidarietà e della condivisione.

2. L’esperienza della Scuola di Barbiana e la sua eredità odierna
Possiamo leggere in Lettera a una professoressa:

La Scuola di Servizio Sociale potrebbe levarsi il gusto di mirare alto. Senza voti, senza registro, senza gioco, senza vacanze, senza debolezze verso il matrimonio o la carriera. Tutti i ragazzi indirizzati alla dedizione totale”. (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 113)

Siamo qui di nuovo in presenza di quel rigorismo morale di cui rileviamo gli aspetti discutibili, eccessivi. E tuttavia ci sembra che nel clima di sfiducia, disaffezione e scoramento che costituisce oggi la peggiore tentazione per chi vive nel mondo della scuola, riproporre all’attenzione l’esempio di don Milani e del suo fare scuola sia in primo luogo, per tutti coloro che agiscono nel mondo della scuola, un invito a rimeditare il senso del proprio operare, a ritrovare il piacere – che rischia sempre più di andare drammaticamente perduto – di un lavoro collettivo di crescita umana e culturale.

In Esperienze pastorali l’autore afferma che, per ottenere una buona scuola, non occorre tanto chiedersi “come bisogna fare per fare scuola”, ma, innanzi tutto,

come bisogna essere per poter far scuola. (…) Bisogna aver le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dall’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto” (L. Milani, Esperienze pastorali, p.  234; cfr. E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, pp.  84-85; L. Milani, I care, p. 90).

Sulle caratteristiche, in particolare sul fascino e sulla “durezza” della scuola di Barbiana, leggiamo la testimonianza di un suo ex-allievo, Nevio Santini:

La scuola di Barbiana era dura, però il priore la faceva molto semplicemente; non ti creava quel peso della scuola. Per me la scuola a Barbiana è stata un divertimento: avevo sempre voglia di imparare anche se durava dodici ore; non ci stancava, cambiavamo argomenti e si riusciva sempre a cogliere i punti più belli in ogni particolare tema. Si andava in profondità. Lui ti dava la voglia di conoscere questo tema fino in fondo. E poi il bello della scuola di Barbiana era quello che il tema se non lo si imparava tutti la scuola non andava avanti” (M. Lancisi, Don Milani. La vita, p. 171).

Tutto ciò va ribadito con forza, perché crediamo che in questi ultimi decenni sia stato operato – non solo a destra, ma anche a sinistra e, in particolare, da determinati settori della cultura di sinistra – un certo travisamento del messaggio proveniente dalla Lettera a una professoressa.

Ha ragione Balducci (nel saggio apparso nel 1977 su “Testimonianze Attualità inattuale di Lorenzo Milani) nel sostenere che la scuola di Barbiana non è e non può essere un modello ideale o istituzionale da proporre e da applicare acriticamente, ma essa ha il valore di un messaggio inimitabile, di “un appello a nuove creazioni” (cfr. E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, pp. 50, 75 e G. Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, pp. 90-93).

Quella di Milani e della sua scuola è una proposta non solo di tipo scolastico o settoriale, ma complessiva, globale, in senso lato antropologica, etica, politica, culturale, ispirata a un profondo rinnovamento spirituale e morale, fondata sulla piena affermazione della laicità, dell’autonomia e libertà della coscienza, dei diritti/doveri dei cittadini sovrani. Essa investe i principi di fondo e i modi d’essere ineludibili di una civiltà democratica. Per questo tutte le interpretazioni di essa ideologiche, settarie, integralistiche, confessionali sono completamente fuorvianti, di qualsiasi colore e orientamento siano.

* * *

La realtà ai margini. Appunti sparsi
di Nadia Agustoni

Leggere Don Lorenzo Milani è prendere atto che il suo pensiero era azione e come tale toccava la vita e le questioni urgenti del proprio tempo.

Questi appunti sono un approfondimento a La parola fa eguali e sottolineano un passaggio del libro che merita attenzione.

A Barbiana la scuola era radicata nella comunità e la comunità viveva l’insegnamento insieme agli allievi. Negli anni Settanta Pier Paolo Pasolini denunciò la distruzione della cultura popolare contadina che trasformava in sottoproletari tanti ragazzi e le loro famiglie. Don Milani lo anticipò e anche se su questo aspetto il suo pensiero è un po’ in ombra è evidente che era cosciente del problema.

Nella Conferenza ai direttori didattici a Firenze il 31 gennaio 1962, ad un certo punto emerge la questione dello spopolamento delle campagne; chiede Don Milani:

Avete sentito parlare di spopolamento della campagna?
A Barbiana non è partita nemmeno una famiglia. Hanno fatto con me l’Avviamento. Io pensavo che, ottenuto il diploma di Avviamento, partissero ad ogni ora, facessero un polverone, andassero a sfruttarlo in fabbrica. C’è lavoro per tutti oggi. Invece sono rimasti lì. Hanno fatto un altro anno, quelli più grandicelli, di disegno tecnico e di tedesco. Con questo altro diploma di disegno tecnico, sono disegnatori qualificati e pensavo: “Ora scappano di certo”. Invece sono rimasti un altro anno. Ora vogliono l’inglese. Nel frattempo, questi grandicelli di 14-15 anni, mi fanno scuola ai piccoli. Io non faccio più scuola ai piccoli. Dunque ho colto un’esigenza profonda dei loro genitori. Non l’ho mica creata io.
[...]“. (La parola fa eguali, pag. 80)

La cultura nel piccolo borgo dell’Appennino aiutò la coesione, ma va detto che quello che la scuola di Don Milani insegnava non era lo stesso dei programmi ufficiali.

Guardi, io non ho mai insegnato a mettere le mine, a mettere le bombe. [...] però parliamo dello sciopero come nelle vostre scuole si parla della patria. E si parla della patria come nelle vostre scuole si parla dello sciopero. Si legge moltissimo le pagine sindacali dei giornali e si conosce bene i contratti di lavoro. Si segue attentissimamente tutte le vertenze sindacali, si è letto moltissimo di Gandhi e su Gandhi. Tutto quello che è bello, tutto quello che è nuovo, tutto quello che è totalmente progredito, è il nostro pane quotidiano.” (ibidem, pag. 81)

Parlare della patria “come nelle vostre scuole si parla dello sciopero” è sottolineare l’internazionalismo, il bisogno di confronto con altre culture e un sentimento di vicinanza agli oppressi ovunque siano, non solo dentro i confini nazionali. Questo non li portava, come si potrebbe pensare, a sradicarsi, ma ad avere cura dei luoghi. La cultura si aprì alla comunità perché era cura di sé, dell’altro e della terra a cui tutti appartenevano. Senza tornare a un discorso di caste, discorso del tipo sono figlio di operai faccio l’operaio, sono contadino faccio solo il contadino, apprendere significava poter scegliere e trasmettere il sapere perché chi decideva di restare (c’era anche chi andava lontano com’è ovvio e non è detto fosse per sempre) doveva avere comunque gli stessi strumenti degli altri. Penso a questa lezione di Barbiana come a un atto contro il consumismo e l’emulazione del successo.

Tutto quello che è bello, tutto quello che è nuovo [...]” è di chi sa capirlo e di chi lo vuole, ma vivere non è consumarsi nell’imitazione di quello che hanno o fanno gli altri.

La rabbia, coperta da uno strato di ragionamenti filosofici, che uno dei direttori didattici, a un certo punto, non si trattiene dal mostrare, rende chiaro che toccare il discorso di classe è sempre visto come lesivo di alcuni privilegi. Ci si chiede cosa si può fare contro un pensiero che non sa uscire dall’astrazione o la usa per osteggiare quello che in fondo dà fastidio, ma qualche pagina dopo c’è lo strappo di una passione che Don Lorenzo Milani produce non casualmente parlando della lettera di un ragazzo emigrato in Germania.

La Fioretta voleva che vi leggessi qualche lettera del più grandicello dei miei ragazzi. Ha 17 anni ora, è in Germania [...] Dedica tutte le sue nottate a far scuola ai suoi vicini di letto, ad aiutarli a imparare un po’ d’italiano e un po’ di tedesco. Vibra di questa passione e si allontana da tutti i vizi, da tutte le bassezze della vita moderna. [...]” (ibidem, pag. 96)

Leggendo questo paragrafo mi sono chiesta se oggi sia proponibile uno stare dentro le cose in questo modo. Non posso rispondere, perché non lo so, ma riporto qui un fatto che mi è realmente accaduto alla fine degli anni Ottanta.

Una giovane amica, di cultura libertaria, lasciò il lavoro ben remunerato perché l’azienda in cui stava era poco etica; ricominciò con un lavoro nuovo, meno appetibile e avendo toccato con mano la dispersione politica della sua generazione, che poi era anche la mia, scelse come pratica politica di andare la sera ad insegnare, sia a immigrati che a italiani con problemi di analfabetismo, a leggere e a scrivere in modo accettabile. Ricordo ancora che prima di allontanarsi, in una sera milanese che mi sembrò da tragicomiche tanto ero in conflitto e spaesata, mi disse: “Almeno così i nostri volantini li potranno leggere un giorno”.

Non so perché lo trovai assurdo al momento, o perché sentissi l’urgenza di altro senza saperne dare conto, ma negli anni e tutt’ora, tornandoci col pensiero, non riesco a riprendermi. Una parte di me è sempre lì in quella sera, in quello stupore. Questo non mi fa un gran bene e lo so.

Tornando al presente, autunno 2012, parlo per mail con Massimo Sannelli di poesia e fabbrica. Tocco il problema dell’analfabetismo di ritorno, di vedere e sapere nel luogo di lavoro e non solo, la difficoltà di tanti nello scrivere o nel leggere dei semplici biglietti e lui mi dice di dare qualche poesia ogni tanto, un po’ alla volta, mai un libro intero, solo poche cose, che non spaventino, che possano essere ascoltate, pensate e assimilate.

Mi ritrovo in quella sera milanese, di nuovo l’orologio messo indietro, ma sono da sola davanti al computer e la domanda che mi faccio è la stessa, ed è sulla mia fiducia o meno in un cambiamento possibile. C’è anche un’altra persona che mi spinge da tempo ad aprire di nuovo il discorso sulla fabbrica, ma scrivere di micro-ustioni, di pulizie dei gabinetti, di macchine troppo rapide e di silenzi che salvano la vergogna davanti agli altri, è scrivere dei fatti. Le opinioni ci hanno abituato a cose più udibili. Parlare è infinitamente più facile che vivere.

In Lettera a una professoressa i ragazzi raccontano a un certo punto della lezione di educazione fisica. Loro non sanno giocare a pallacanestro. Il professore li compatisce, anzi dice con disprezzo: “Ragazzi infelici”. Chiedeva a dei ragazzi abituati solo al lavoro “l’abilità in un rito convenzionale”. (Pag. 29).

Ognuno di noi era capace di arrampicarsi su una quercia. Lassù lasciare andare le mani e a colpi d’accetta buttar giù un ramo d’un quintale. Poi trascinarlo sulla neve fin sulla soglia di casa ai piedi della mamma.

M’hanno raccontato d’un signore a Firenze che sale in casa sua con l’ascensore. Poi s’è comprato un altro aggeggio costoso e fa finta di remare. Voi in educazione fisica gli dareste dieci.” (ibidem, pagg. 29-30)

Più o meno è abilità convenzionale quello che molti chiedono alla scrittura. Lo stesso chiedono al pensiero.

Da qui il successo dei programmi televisivi e di internet; ma l’anarchia di internet, quel fare rete, ha in sé forse la possibilità di entrare in contatto con il reale. Non so quanto la rete potrà dare conto della realtà, né come, ma penso che nei più per ora manchi l’urgenza. In ogni caso, manca una verità dei fatti che, anche quando è raccontata in uno dei suoi spaccati, non è creduta o non fino in fondo, perché non si cercano più conferme o rettifiche alle cose difficili.

La difficile scuola di Barbiana si colloca abbastanza lontano nel tempo perché si torni a rileggerla, ma nel suo solco non c’è trascrizione di nuova esperienza, e il lontano nel tempo è quasi certezza del suo non potersi dare di nuovo; comunque è in quei nodi di fedeltà e silenzio che portiamo con noi che Barbiana resiste, come se qualcosa di sbagliato nelle nostre parole aspettasse di essere emendato, o forse capito.

* * *

Due o tre cose che so di don Lorenzo Milani. Una riflessione inattuale (e inattuabile?) sul filo della memoria e della storia personale
di Carmine Marmo

Dopo quasi 50 anni di don Lorenzo Milani si continua a parlare. Incontrarlo, anche solo sui libri e nella memoria dei suoi “ragazzi”, è un’esperienza che non lascia indifferenti. Ho avuto questa avventura ancora ragazzo, maturando la scelta dell’obiezione di coscienza al servizio di leva, io, figlio di un militare. Più che una recensione, l’ennesima, sul priore, questo è un piccolo viaggio fra le domande e le sollecitazioni che don Milani continua a mandarmi.

Pedagogista, educatore, provocatore, maestro, e ancora tante cose. Di don Milani se ne dicono e se ne sono dette tante. Ma non ricordo nessun cenno da parte sua a scuole o filoni di pensiero pedagogico. Naturalmente la sua storia di educatore è stata annoverata in qualche scuola di pensiero pedagogico, non importa qui quale. Ma non ricordo che lui ne abbia mai parlato. Figuriamoci se non aveva informazioni in proposito! Semplicemente, credo, non gli interessava.

Sarà stata la sua radicale diffidenza nei confronti degli intellettuali? Forse, probabilmente sì. Il fatto è che la sua storia è la storia di una passione maturata nel tempo e vissuta a fondo e fino all’ultimo.

Ci si è trovato a fare quello che ha fatto. Non l’ha cercato. Gli è arrivato fra capo e collo. Il suo “esilio” a Barbiana gli ha regalato il suo percorso. La sua estrazione borghese e intellettuale avrebbe potuto disegnargli una parabola diversa, da intellettuale da salotto. Invece gli ha dato un po’ di ferri del mestiere per fare l’insegnante e il genitore di tanti, nel senso di generare atteggiamenti e curiosità tenaci, che durano nel tempo.

Nella sua famiglia di provenienza importanti filologi e psicanalisti come Edoardo Weiss, Domenico Comparetti e Luigi Milani. Scuole importanti a Milano, compagno di studi di Oreste Del Buono e Saverio Tutino. Poi la decisione della conversione dall’ebraismo e di diventare prete. Avrebbe potuto avere una brillante carriera ecclesiastica, forse. Invece gli incontri, la curiosità di guardarsi intorno e l’ostilità curiale l’hanno portato per altre strade. Per fortuna. E lui, anche amareggiato e deluso, le ha seguite. Ci si è trovato.

Dicevo che non ha mai (o quasi mai, devo lasciare un po’ di requie alla mia memoria…) citato o chiamato in causa riferimenti colti, scuole o filoni pedagogici specifici. È partito dalla provocazione infinita che gli veniva dai ragazzini che ha incontrato, dalle loro domande.

Alle persone che invitava a Barbiana non chiedeva particolari lezioni. Gli chiedeva solo (solo?) di prestare attenzione alle curiosità dei ragazzi, sapendo che le loro domande erano quelle con le risposte più difficili.
Le domande dei ragazzi facevano da starter al “programma”, che lui costruiva con attenzione, pronto a cambiare, se si accorgeva che non dava risposte a loro. È partito dai ragazzi, li ha messi al centro del suo impegno. Da qui in molti hanno fatto discendere suggestioni di libertà educativa, spesso solo di moda e senza un vero filo conduttore, anzi, senza spina dorsale.

In realtà la sua scuola era molto severa e impegnativa. Senza “vacanze”, cioè, senza vuoti, a tempo pieno, prima ancora che se ne parlasse. Molto, molto esigente. Posso solo immaginare le obiezioni delle famiglie di oggi a proposte educative come questa. Oggi sono tutti Pierini. O meglio, tanti, tantissimi, molti di più. I Michele o i Francuccio o i Paolo o gli Agostino ci sono sempre, hanno sempre di più nomi e facce da straniero e domande con risposte forse ancora più difficili e provocatorie. È una proposta solo per loro? Presa così, di sana pianta, forse sì. Ma ci sono le domande difficili e provocatorie anche quelle che vengono da ragazzini già inseriti pienamente nel ciclo continuo del consumo e del lavoro (sì, anche del lavoro, quello delle loro famiglie, quello che li attende, se si fa trovare…). Le nuove povertà, immateriali. Povertà dello spirito e dell’intelletto?

Don Milani ha dato tanto, tantissimo. Ha chiesto tanto, tantissimo. Mi sono fatto l’immagine di un uomo che sapeva essere anche burbero e addirittura autoritario. Forse le teste dei suoi ragazzi hanno conosciuto la scossa di qualche scappellotto o qualche lavata di capo che li richiamava all’attenzione e allo starci con la testa. Ho l’impressione che spesso un Maestro debba porsi come riferimento esclusivo per richiamare l’ascolto, anche in modo brusco. E don Milani probabilmente l’ha fatto. E insieme a questo ha dato tutta la sua esistenza ai suoi ragazzi, travolto dalla passione per loro e per accompagnarli su una strada di riscatto e di realizzazione.

Ne ho conosciuto qualcuno. Ho avuto questa fortuna, qualcuno di loro mi ha accompagnato a Barbiana, nella saletta con ancora appeso quel foglietto con su scritto “I Care”, davanti alla sua tomba, in quel cimiterino isolato. Ci ho portato altre persone, adulti in formazione, per provare a fargli respirare quell’aria di impegno non banale. Chissà se qualcosa è rimasto? Non saprei dire.

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