Il mestiere dell’Insegnante
Data: Domenica, 02 settembre 2012 ore 06:30:00 CEST
Argomento: Redazione


Vorrei richiamare all’attenzione un pensiero, una riflessione che ricorre spesso alla mia mente,  perché molto vicina al mio sentire attuale, ma soprattutto perché di grande rilevanza, a mio avviso, nello scenario contemporaneo. La mia riflessione vuole partire da un ricordo, un ricordo appartenente ad un tempo puro, luminoso e profumato, di quella luce bianca e abbagliante, di quel profumo dolce come di vaniglia e fresco come di primavera, di quel tempo insomma che è esperienza e ricordo impresso ed indelebile di tutti: il tempo della scuola. Tempo dell’ascolto e del silenzio forzato, della noia alla costrizione, alla fatica e del sentimento di ribellione, dell’emozione del trasgredire e della paura al richiamo del professore, di queste figure ai nostri occhi imponenti, eppure muri da abbattere, scavalcare e superare, degli sguardi complici tra compagni, dell’amicizia vera, del gioco ingenuo che veste ogni gesto di naturalezza.
Il tempo dell’infanzia, dell’adolescenza che non muore mai, per quanto l’età ci appesantisca e ci gravi di responsabilità, perché mai morrà in noi l’incertezza del vivere, la paura dell’agire e quella sana percentuale d’incoscienza che ci salva.
Di questo tempo, tempo anche di nutrimento e gestazione, voglio riportare un mio ricordo vivo come un segno.
Un giorno in particolare, una lezione in cui il mio professore di storia e filosofia portò in classe nostra il suo professore di storia e filosofia.
La cosa mi colpì molto perché rendeva tangibile il senso di “staffetta”, ovvero della vita, del suo susseguirsi, del nostro susseguirci, tramandare noi stessi e lasciare il posto ad altri.
Nonché il senso della memoria.
Quell’uomo piccolo e vestito quasi monocromo, nella cui mano tremava un po’ il suo bastone- di quel tremolio normale dell’età lunga-e pur sempre composto nel suo fare riservato, quasi nascosto, pareva più che altro timido ed incerto, nei suoi passi pareva più voler indietreggiare che farsi avanti.
Poi invece parlò e ci disse parole indelebili:“ L’insegnante è il mestiere più nobile, uno tra i più nobili. Il suo compito è segnare, lasciare un segno. I ragazzi quando giungono sono spaesati e sconoscono sé stessi, l’insegnante deve essere capace di condurre fuori da un gruppo di informi personalità degli individui, personalità individuali. Dovrà quindi scoprire la vocazione di ognuno, suggerire la strada e modellare, levigare il carattere, le spigolature di ognuno. In questo l’insegnante ha più responsabilità, più potere della famiglia, legata da affetti e dunque potenzialmente incapace di criticare. Criticare vuol dire portare i ragazzi a conoscere sé stessi, perché ognuno di noi crede di conoscersi, quasi nessuno però è davvero cosciente di chi sia, ma criticare è anche una preparazione alla vita, perché in sé all’uomo risulta difficile la critica e spesso si vuole, si desidera che ogni cosa avvenga secondo il proprio piacere, che tutto si pieghi al proprio desiderio. Per questo il mestiere dell’insegnante è anche il più oneroso. Ma la formazione sta alla base del futuro.
Quell’uomo mi raccontò di cose che nessuno mai mi aveva detto, almeno non in quel mondo, con quelle parole di una convinzione viva.
Quell’uomo ricordò quello che molti di noi oggi dimentichiamo, o siamo indotti a dimenticare.
Perché pochissimi ricordano ancora che educare, dal verbo latino EDUCARE (EX-DUCERE), vuol dire “condurre fuori” e formare “dar forma” e che l’alunno dal latino AL-UMUS-A è “terra da coltivare”, il passero da imboccare, nutrire?
Oppure lo si ricorda come pura nozione, un sapere per eruditi.
Oggi del resto gran parte delle cose si ricordano come pura nozione, lo stesso insegnamento, apprendimento diventa sempre più un tentativo di ricordare a memoria eventi, date, formule, pensieri, frasi, nomi, poesie con il solo scopo di ricordare, come dice Franklin “secondo il metodo dell’allevamento dei polli: li ingozzi perché assorbano cibo con il naturale esito che evacuino nell’oblio”.
Perché sempre meno interessa l’insegnamento e lo studio come amore, come avidità di ricerca, insomma come respiro di cultura intesa,  secondo la definizione di Massimo Salvadori, come “la capacità di porsi dei limiti”, e dunque come formazione della persona?
Perché nessuno più parla del valore dell’insegnamento, del ruolo fondante che la scuola riveste all’interno della società con lo stessa convinzione viva delle parole di quell’uomo?
Se, come diceva quel saggio professore, “La formazione sta alla base del futuro”, che futuro noi giovani dobbiamo aspettarci da una società che non investe nella cultura, come fondamento dell’individuo ?
In tutto questo contesto disastroso che la nostra società è costretta a vivere già da un paio d'anni (perché la crisi vera che gravò sull'Italia per prima e che la rende da più tempo in sofferenza tra tutte le nazioni europee, fu culturale con impoverimento sbalorditivo e fumi negli occhi) la vera resistenza pratica e potente, come un muro umano di difesa e allo stesso tempo pilastro fondante, è stata silente e sotterranea, sempre più soffocata e sempre più resistente, a cui dobbiamo quel poco che ci resta di salvezza e quello che verrà, a cui dobbiamo riconoscere il più alto grado di etica: essa è la scuola. La scuola coi suoi docenti impoveriti, denigrati, depredati di ogni dignità nel riconoscimento economico e nel prestigio sociale, per cui ogni titolo guadagnato con sacrificio e rinunce assume valore quasi nullo e le intelligenze più vivaci donatesi all'insegnamento non vengono valorizzate in alcun modo, rimane pur sempre in piedi in qualche modo. E' nella scuola che vengono salvate vite, esistenze e forse anche il futuro. A scuola ancora la vera cultura che si tramanda perché possa servire alla vita. La vera resistenza bisogna riconoscerla ai docenti della nostra scuola che hanno alto il valore etico e la coscienza del proprio ruolo, silenti nel loro dovere e sotterranei come le fondamenta.
Questo mio articolo vuole essere ancora un articolo di speranza che per me risiede  in molte branche attive e brulicanti nella scuola e tra i giovani, brulicanti e pur silenti d’umiltà, ma vuole essere anche una dimostrazione di riconoscenza e immensa gratitudine per  tutti quei professori d’Italia che  credono ancora nell’insegnamento e nel suo valore, nella formazione, nella cultura e nello spirito critico, valori sui quali fondano il proprio mestiere.

Paola Tricomi
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