Non tutti sanno che
gli scacchi moderni portano nel loro DNA numerose tracce delle
cosiddette “varianti antiche”, come lo
Chaturanga e lo
Shatranj, tutt’oggi praticate.
Lo
Chaturanga si è diffuso in
India a partire dal VI secolo d.C. e si ritiene essere il primo
antesignano degli scacchi; alcuni studiosi lo reputano a sua volta
derivare da arcaici giochi cinesi, tuttavia quest’ultimi sembrerebbero
presentare solo alcuni tratti in comune con esso, confermando così la
precedente tesi. Il nome deriva da
chatur
e
anga, rispettivamente
‘quattro’ e ‘membro’, rifacendosi all’antica struttura dell’esercito
indiano, composto da quattro elementi, quali la fanteria, la
cavalleria, gli elefanti e i carri da guerra. Si gioca in quattro, due
contro due, ponendo agli angoli del tavoliere ciascuno dei quattro
eserciti di otto pezzi ciascuno. I colori delle armate (verde, rosso,
giallo, nero) sono tipicamente indiani, rintracciabili anch’essi nel
celebre gioco del
Pachisi. I
pezzi a disposizione sono un
Rajah
(il ‘re’), un Elefante, un Cavaliere, una Nave e quattro Fanti,
con movimenti che ricalcano da vicino quelli odierni. La
particolarità del gioco sta nel porre una certa posta iniziale nel
piatto dei vincitori e nell’uso di un dado con numeri da 2 a 5,
strumento atto a determinare la tipologia di mossa al proprio turno: se
il giocatore ottiene 2 muoverà la sua nave, se ottiene 3 il cavaliere,
se ottiene 4 l’elefante, se ottiene 5 un fante o il rajah. Se è
possibile, la mossa è sempre obbligatoria altrimenti si salta il turno.
A seconda delle posizioni o combinazioni che i pezzi assumono nel corso
della partita, del controllo di determinate case o catture di pezzi
avversari è possibile raddoppiare o quadruplicare la posta o scambiare
dei prigionieri. Lo chaturanga combinava quindi fortuna e abilità,
divenendo uno dei primissimi giochi d’azzardo dell’umanità, concetto
che ancora oggi viene espresso con l’etimo arabo di
az-zah (‘dado’).
Dall’India il gioco passò alla Persia col nome di
Chatrang. Gli Arabi, dopo alla
conquista di quest’ultima, lo diffusero col nome di
Shatranj, dal persiano
shah (‘re’), stilizzando i pezzi
nelle forme ed eliminando ogni elemento aleatorio. Lo
Shatranj è ufficialmente
considerato il diretto antenato degli scacchi, le cui regole di gioco
sono sostanzialmente simili. Nel passaggio in Europa intorno all’anno
Mille, ad opera dei Mori in Spagna e dei Crociati di ritorno dalla
Terra Santa, i pezzi assunsero le correnti fattezze tipicamente
medievali, ascrivibili alle corti del tempo. Lo shatranj si gioca in
due su una scacchiera 8x8. Al consueto
Shah, che muove come il re negli
scacchi, si aggiunge il
Visir
o Primo Ministro (in seguito la “Regina”), due
Fil, gli Elefanti poi diventati
“Alfieri”, due Cavalli, due
Ruhk
(cammelli da guerra arabo-persiani) poi diventati “Torri” e otto
Pedoni. Scopo del gioco è lo scacco matto o intrappolamento del
re avversario, dall’arabo
shah-mat
(‘re-morto’).
Parallelamente alla diffusione dello shatranj in Medioriente e degli
scacchi in Europa si assiste in Estremo Oriente allo sviluppo delle
varianti dello
XiangQi in
Cina e dello
Shogi in
Giappone, derivati a loro volta dal chaturanga indiano.
Parecchio praticato in Cina, lo
XiangQi
o “Gioco degli scacchi cinese” fu il risultato dell’esportazione del
chaturanga in Cina ad opera di mercanti, combattenti e buddisti. Alcuni
ricercatori lo fanno risalire al IV secolo a.C. Secondo lo studioso
cinese David H. Li sarebbe invece stato ideato nel 205 a.C. dal
generale Han Xin, discepolo del famoso generale Sun Tsu. Si gioca in
due su una scacchiera composta da dieci traverse orizzontali e nove
colonne verticali. A differenza degli scacchi i pezzi vengono
posizionati sulle intersezioni o
punti,
così come nel
Go/WeiQi. Il
campo di gioco è diviso orizzontalmente in due parti da un
fiume, al centro delle prime tre
file ritroviamo un quadrato composto da nove punti che rappresenta il
castello. I pezzi sono tutti di
forma circolare sui quali sono marcati dei
kanji, i tipici ideogrammi cinesi.
Ciascun giocatore ha a disposizione un Imperatore (oggi “Generale”) e
due Mandarini (oggi “Consiglieri”) che muovono esclusivamente
all’interno del castello, due Torri (dette anche “Carri”), due Cannoni
(detti anche “Bombarde”), due Cavalli, due Elefanti e cinque Soldati (o
“Pedoni”). Si ha la vittoria quando un giocatore riesce ad attaccare il
re avversario ed egli non ha mosse che lo tolgano da tale situazione, o
quando le uniche mosse del giocatore di turno esporrebbero il re ad un
attacco avversario. È possibile applicare alcune speciali regole con
handicap tra giocatori di forza
differente, prevedendo un diverso numero di pezzi, di mosse o di
movimento e cattura, a favore o meno di uno specifico giocatore.
Lo
Shogi, letteralmente
‘Gioco dei Generali’, trae origine dallo xiangqi. Fu introdotto in
Giappone da messi imperiali verso l’ottavo secolo d.C., per poi
evolversi progressivamente, sino alla sua forma attuale, a partire
dall’anno Mille. Lo shogi si gioca in due su una scacchiera (
shogiban) cromaticamente uniforme
di nove caselle per lato, con due linee di promozione che separano la
terza traversa dalla quarta e la sesta dalla settima. I due giocatori,
Bianco e Nero (
Gote e
Sente) dispongono di venti pezzi
sagomati a forma di freccia, tutti di identico colore, sul cui fronte è
riportato un ideogramma giapponese e la punta rivolta in direzione
dell’avversario, così da determinare chi ha il controllo del pezzo
durante il gioco. L’equipaggiamento di ciascun giocatore è composto da
un Re (unici pezzi differenziati per colore,
Osho o “Signor Generale” per il re
bianco, considerato il regnante, e
Gyoku
o “Generale di Giada” per il re nero, considerato lo sfidante), due
Generali d’Oro (
Kin), due
Generali d’Argento (
Gin), due
Cavalli (
Kei), due Lancieri (
Kyo), una Torre (
Hi), un Alfiere (
Kaku) e nove Pedoni (
Fu). Come negli scacchi l’obiettivo
rimane quello dello scacco matto, ciò nonostante i due giochi
presentano alcune differenze. Come nello xiangqi è possibile effettuare
delle partite con
handicap,
giocando con un numero inferiore di pezzi. Quando taluni pezzi giungono
oltre la linea di promozione acquistano specifiche abilità aggiuntive,
oppure si trasformano in determinati pezzi superiori. I pezzi
catturati, inoltre, non vengono eliminati dal gioco ma rimessi in campo
nelle fila avversarie, con facoltà di “paracadutarli” in una casella
vuota, a scelta del giocatore; quest’ultima regola si rifà idealmente
alle frequenti guerre feudali nipponiche, dove le sorti della guerra
erano decise dalle mutevoli alleanze, con il passaggio dei vari
contendenti da un fronte all’altro.
Gli scacchi sembrano seguire una linea evolutiva che non conosce
battute d’arresto e che in futuro potrebbe riservarci ulteriori e
gradite sorprese.
Christian Citraro
www.homoludens.it