Julia Hill aveva
ragione! La “ragazza sull'albero” si era arrampicata su una sequoia
californiana nel 1997 per impedirne l'abbattimento: la foresta
millenaria era diventata di proprietà della società che aveva comprato il diritto
di sfruttare il legno. Per due anni è rimasta lì, su una piattaforma a
60 metri, sfidando gli elicotteri e gli agenti di sicurezza della
Pacific Lunber che tentarono di spaventarla e di affamarla. Strinse i
denti Julia, la ragazza farfalla. E salvò la sua foresta. La difesa
delle foreste primarie, oggi, non è meno difficile. Lo dimostrano le
faticose trattative internazionali sul cambiamento climatico. E' vero,
migliorano e si affinano gli strumenti di conoscenza. Ma gli strateghi
del profitto dalle mani sporche, i cowboy del carbonio, trovano inedite
strategie. Un team guidato dalla Nasa – scrive il sito
Salvaleforeste.it
– ha iniziato a produrre mappe sull'altezza delle foreste del pianeta,
così da “stimare la biomassa che custodiscono e quindi la quantità di
carbonio che contengono – dice Marc Simard del Jet Propulsion
Laboratory della Nasa, insieme a cui lavorano il Wood Hole Research
Center e l'Università del Maryland – La nostra mappa può essere
utilizzata per migliorare il monitoraggio globale del carbonio”. La
mappa in 3d, raccolta di dati da diversi satelliti, è visitabile su
http://lidarradar.jpl.nasa.gov.
A volte, tra i protagonisti del monitoraggio delle foreste, anche i
popoli che le abitano collaborano grazie ad alcune app in avanzata
sperimentazione. Se ne parla, non senza alcune doverose perplessità, su
http://news.mongabay.com
: in Asia, in Brasile, Guyana, e Camerun ci sono già indigeni capaci di
inviare dati con smartphone, ed è in corso un progetto perché siano
loro stessi ad addestrarne altri nelle loro comunità. Solo una moda
tecnologica? Forse un modo per non essere solo recettori e
trasmettitori di dati, ma anche controllori e gestori del proprio
territorio. Gli scienziati della Wood Hole Research Center, insieme
all'università di Boston e del Maryland, stanno lavorando a un'altra
mappa (
http://www.whrc.org/mapping/pantropical/carbonmap2000.html).
Che ai dati satellitari aggiunge una miriade di verifiche sul campo per
segnalare la quantità di carbonio trattenuta da foreste, boscaglie e
savane tropicali. Un dato quantitativo che è risultato più alto del 21%
di quanto prima stimato. Perché questa seconda mappa? Perché fotografa
ad alta risoluzione la “densità delle biomasse nelle foreste tropicali
del mondo - dice il ricercatore Richard A. Houghton – e perché fa una
nuova stima delle emissioni di carbonio dovute al cambiamento di uso
del terreno nella fascia tropicale”. Un dato quantitativo che misura
con buona approssimazione i danni concreti della deforestazione. E che
dovrebbe avere effetti anche sulla tormentata questione del programma
Redd (Riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado forestale).
Programma studiato dalle Nazioni Unite per ridurre la deforestazione
“compensando” i paesi tropicali che garantiscano la protezione alle
loro foreste. Ottima cosa, in teoria: in pratica spesso un
lasciapassare per i paese ricchi che vogliono continuare a inquinare.
Funziona così: i paesi inquinatori vogliono continuare a gestire le
proprie fonti in inquinamento, che siano centrali a carbone o
acciaierie pesanti. Dunque hanno bisogno di acquistare le
compensazioni, e trovano sulla loro strada i “cowboy del carbonio”,
imprenditori senza scrupoli che acquistano a un decimo del loro valore
i diritti sulle foreste. Una truffa per i popoli indigeni e una inedita
finanziarizzazione delle emissioni di carbonio. Molto non funziona nel
meccanismo delle compensazioni, lo denuncia la ong Redd Monitor,
www.redd-monitor.org.
Il vecchio protocollo di Kyoto consentiva di comprare crediti in cambio
della piantumazione di nuove foreste. Ed ecco i cowboy del carbonio
sbarcare in Ecuador: dateci il terreno, noi vi daremo semi e
pianticelle per piantumare un bosco per 99 anni, e il legno sarà
vostro. I piccoli contadini firmano i contratti e si ritrovano con
piante inadatte al clima, obbligati a ripiantarle e a sostenerle per
cento anni mentre gli affaristi scompaiono con i loro profitti. Per gli
agricoltori locali, una rovina.
Ancora. L'irlandese Celestial Green Ventures aveva progettato di
acquistare i diritti su 15.5 milioni di ettari amazzonici nello stato
di Rondonia da una comunità di indiani Munduruku, ricavandone 32
miliardi in 30 anni. Agli indiani, a cui resta il compito di manutenere
la foresta, appena 120 milioni. Il Brasile, qualche giorno fa, ha
bloccato il contratto. Ma cosa succederà nel resto dell'Amazzonia, in
Indonesia, in Vietnam, in Papua Nuova Guinea?
Tesoro di biodiversità, la sopravvivenza delle foreste primarie
dovrebbe diventare priorità per le grandi organizzazioni
internazionali, la Fao, l'Onu, la Banca mondiale. Dovrebbe, e le nuove
tecnologie aiutano. Ma a dare una spallata al mutamento del clima e
alla sopraffazione dei popoli indigeni non saranno che la coscienza
diffusa e le mobilitazioni individuali e di massa, locali e
internazionali. Natura contro profitto, linfa verde contro dollari:
perché, sostiene la farfalla guerriera sull'albero, la tenace Julia
“Butterly” Hill, “ognuno può fare la differenza”. E non solo nella
foresta.
L’Unità