Tutte le foreste del mondo. Censimento Nasa per salvarle
Data: Domenica, 19 agosto 2012 ore 12:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Julia Hill aveva ragione! La “ragazza sull'albero” si era arrampicata su una sequoia californiana nel 1997 per impedirne l'abbattimento: la foresta millenaria era diventata di proprietà della società che aveva comprato il diritto di sfruttare il legno. Per due anni è rimasta lì, su una piattaforma a 60 metri, sfidando gli elicotteri e gli agenti di sicurezza della Pacific Lunber che tentarono di spaventarla e di affamarla. Strinse i denti Julia, la ragazza farfalla. E salvò la sua foresta. La difesa delle foreste primarie, oggi, non è meno difficile. Lo dimostrano le faticose trattative internazionali sul cambiamento climatico. E' vero, migliorano e si affinano gli strumenti di conoscenza. Ma gli strateghi del profitto dalle mani sporche, i cowboy del carbonio, trovano inedite strategie. Un team guidato dalla Nasa – scrive il sito Salvaleforeste.it – ha iniziato a produrre mappe sull'altezza delle foreste del pianeta, così da “stimare la biomassa che custodiscono e quindi la quantità di carbonio che contengono – dice Marc Simard del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, insieme a cui lavorano il Wood Hole Research Center e l'Università del Maryland – La nostra mappa può essere utilizzata per migliorare il monitoraggio globale del carbonio”. La mappa in 3d, raccolta di dati da diversi satelliti, è visitabile su http://lidarradar.jpl.nasa.gov. A volte, tra i protagonisti del monitoraggio delle foreste, anche i popoli che le abitano collaborano grazie ad alcune app in avanzata sperimentazione. Se ne parla, non senza alcune doverose perplessità, su http://news.mongabay.com : in Asia, in Brasile, Guyana, e Camerun ci sono già indigeni capaci di inviare dati con smartphone, ed è in corso un progetto perché siano loro stessi ad addestrarne altri nelle loro comunità. Solo una moda tecnologica? Forse un modo per non essere solo recettori e trasmettitori di dati, ma anche controllori e gestori del proprio territorio. Gli scienziati della Wood Hole Research Center, insieme all'università di Boston e del Maryland, stanno lavorando a un'altra mappa (http://www.whrc.org/mapping/pantropical/carbonmap2000.html). Che ai dati satellitari aggiunge una miriade di verifiche sul campo per segnalare la quantità di carbonio trattenuta da foreste, boscaglie e savane tropicali. Un dato quantitativo che è risultato più alto del 21% di quanto prima stimato. Perché questa seconda mappa? Perché fotografa ad alta risoluzione la “densità delle biomasse nelle foreste tropicali del mondo - dice il ricercatore Richard A. Houghton – e perché fa una nuova stima delle emissioni di carbonio dovute al cambiamento di uso del terreno nella fascia tropicale”. Un dato quantitativo che misura con buona approssimazione i danni concreti della deforestazione. E che dovrebbe avere effetti anche sulla tormentata questione del programma Redd (Riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado forestale). Programma studiato dalle Nazioni Unite per ridurre la deforestazione “compensando” i paesi tropicali che garantiscano la protezione alle loro foreste. Ottima cosa, in teoria: in pratica spesso un lasciapassare per i paese ricchi che vogliono continuare a inquinare. Funziona così: i paesi inquinatori vogliono continuare a gestire le proprie fonti in inquinamento, che siano centrali a carbone o acciaierie pesanti. Dunque hanno bisogno di acquistare le compensazioni, e trovano sulla loro strada i “cowboy del carbonio”, imprenditori senza scrupoli che acquistano a un decimo del loro valore i diritti sulle foreste. Una truffa per i popoli indigeni e una inedita finanziarizzazione delle emissioni di carbonio. Molto non funziona nel meccanismo delle compensazioni, lo denuncia la ong Redd Monitor, www.redd-monitor.org. Il vecchio protocollo di Kyoto consentiva di comprare crediti in cambio della piantumazione di nuove foreste. Ed ecco i cowboy del carbonio sbarcare in Ecuador: dateci il terreno, noi vi daremo semi e pianticelle per piantumare un bosco per 99 anni, e il legno sarà vostro. I piccoli contadini firmano i contratti e si ritrovano con piante inadatte al clima, obbligati a ripiantarle e a sostenerle per cento anni mentre gli affaristi scompaiono con i loro profitti. Per gli agricoltori locali, una rovina.
Ancora. L'irlandese Celestial Green Ventures aveva progettato di acquistare i diritti su 15.5 milioni di ettari amazzonici nello stato di Rondonia da una comunità di indiani Munduruku, ricavandone 32 miliardi in 30 anni. Agli indiani, a cui resta il compito di manutenere la foresta, appena 120 milioni. Il Brasile, qualche giorno fa, ha bloccato il contratto. Ma cosa succederà nel resto dell'Amazzonia, in Indonesia, in Vietnam, in Papua Nuova Guinea?
Tesoro di biodiversità, la sopravvivenza delle foreste primarie dovrebbe diventare priorità per le grandi organizzazioni internazionali, la Fao, l'Onu, la Banca mondiale. Dovrebbe, e le nuove tecnologie aiutano. Ma a dare una spallata al mutamento del clima e alla sopraffazione dei popoli indigeni non saranno che la coscienza diffusa e le mobilitazioni individuali e di massa, locali e internazionali. Natura contro profitto, linfa verde contro dollari: perché, sostiene la farfalla guerriera sull'albero, la tenace Julia “Butterly” Hill, “ognuno può fare la differenza”. E non solo nella foresta.
L’Unità







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