La favola di Fehu, la prima runa celtica
Data: Domenica, 29 luglio 2012 ore 10:00:00 CEST Argomento: Redazione
“La fiaba è il
luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare
nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino, e gli adulti, a
conoscere il mondo”. Ricordo d’aver sentito parlare, tante
volte, dal mio caro amico, di rune e di leggende nordiche, ed io,
sbadatamente, non averci fatto molto caso, preso, com’ero, dalle nostre
diatribe politiche sulla guerra dei “due mondi” e “sull’ultimo” cielo
azzurro degli anni ’60. Poi una sera, dialogando con una mia amica,
inaspettatamente, ho risentito parlare di rune e dei miti del nord e,
in un lampo, sono ritornato indietro nel tempo ed ho subito ripensato a
quelle parole pronunciate, tanto tempo fa, dal mio caro amico. Adesso
che la vita ha fermato il tempo e i ricordi… adesso voglio sapere di
più, voglio capire meglio, voglio possedere il segreto di quei segni e
di quelle leggende. Cosa sono le rune, da dove vengono, cosa vogliono
dire, qual è il loro arcano significato, il loro segreto, quale mistero
si cela dietro quegli strani simboli?
Il sistema runico più antico è chiamato Futhark: esso divide le 24 rune
in 3 gruppi (Aettir) formati, ognuno, da una serie di 8 e prende il
nome dalle iniziali delle prime 6 rune del primo gruppo, chiamato il
gruppo di Fehu. Tale gruppo, che racchiude in sé diversi significati,
dalla prima runa, Fehu, che significa bestiame, inteso come prosperità
di beni, all’ottava, Winjo, che indica gioia e onori, presupposti per
un’esistenza stabile e prospera. Feh o Fehu (bestiame), vuole
rappresentare l’abbondanza, la ricchezza, il successo. Nelle culture
primitive il bestiame, che veniva utilizzato come moneta, comportava
duro lavoro e doveva essere nutrito e accudito. Fehu, quindi, indica
una ricchezza “sudata” e non un guadagno inatteso. Significa anche
soddisfazioni, obiettivi raggiunti, affari e fortuna. Capovolta,
invece, indica difficoltà finanziarie, passività e noia…
E così, la mia amica, inizia a raccontare la favola di Fehu, la prima
runa…
Il boscaiolo Runar, mentre era a caccia, si addentrò troppo nella
boscaglia per inseguire dei cervi; il sole stava calando dietro la
collina e ben presto si fece buio. Nel meraviglioso bosco sembrava
primavera, l’aria era piena di uccelli che cantavano dolcemente, le
farfalle colorate svolazzavano nel cielo e i fiori luminosi brillavano
nel crepuscolo. Runar aveva deviato dal suo percorso e correva
aggrappandosi ai rami di arbusti e alberi, per cercare di affrettarsi a
tornare a casa. Egli non voleva passare la notte nel bosco. Ma ben
presto la luna, bianca e rotonda, enorme come una ciotola d’argento
illuminò d’una luce fantastica tutto il bosco. Runar pensò che il bosco
fosse magico, davvero, sembrava incantato, misterioso, pieno di
segreti.
All'improvviso Runar sentì, nel silenzio, il suono di campana che
emanava una dolce melodia, smise di correre, si fermò, rimase ad
ascoltare, fece qualche passo in direzione del suono che proveniva da
un cespuglio, spostò i rami degli arbusti e vide una piccola radura
verde, coperta di muschio. Nel prato vi era una grossa pietra e lì
vicino vide qualcuno con un berretto inclinato, accanto ad una pentola
d’oro che brillava in modo luminoso: erano due nani, con le
sopracciglia folte e la barba grigia, che tenevano aperta la pentola
con le monete d’oro. “Che meraviglia!”, pensò Runar, mentre, incredulo,
continuava ad osservare i nani; egli da bambino aveva sentito molte
storie degli elfi del bosco, dei gnomi e dei malvagi troll; la sua
vecchia nonna gli aveva raccontato, spesso, certe storie mentre, la
sera, erano seduti davanti al camino. Non potendo resistere, Runar,
chiese: “Per chi è quell’oro?”. I nani si spaventarono e immediatamente
sbiadirono la lucentezza dell’oro, facendolo apparire come un mucchio
di monete sfuse. Un nano che era sul terreno, sbatte il coperchio della
pentola e fu inghiottito dalla terra con tutto quello che aveva
attorno. Il secondo nano prese delle lucciole, luminose come lampadine,
ed ispezionò il terreno; una moneta era rotolata a terra. Runar,
rapidamente, raccolse la moneta, mentre lo gnomo, arrabbiato, gli urlò:
- Non è per te l’oro!
- E allora per chi è quella moneta?
- Per l’erede!
- Perché dovete lasciarla all’erede?
- E’ per la persona che la troverà, mentre gli altri non la vedranno.
Runar non capiva e chiese nuovamente
- Chi è l’erede?
- Il marito di tua figlia.
- Lei è ancora piccola.
- I piccoli crescono.
- Dimmi almeno il nome dello sposo!
Chiese di nuovo, Runar. Il nano scosse la testa e disse: “Ben presto
sarai ricco e nobile, e avrei tutto quello che vorrai. Sarai ricco, ma
essere felice o no, dipenderà da te. È necessario che ti ricordi che i
demoni sono vicini e che il lupo è sempre in agguato nel bosco, e devi
avere paura delle arpie che strappano il cuore dal petto per
mangiarlo”. Runar voleva chiedere allo gnomo il significato delle sue
parole, ma lui scomparve. Al mattino, Runar, svegliatosi nel suo letto,
si ricordò, immediatamente, dell’incontro avuto nella notte. “Che sogno
interessante!”, pensò, ma sotto il cuscino trovò la stessa moneta della
pentola dei nani. No, non era stato solo un sogno, gli gnomi, come le
monete, erano reali. Runar, allora, cominciò a guardare la moneta, che
era di oro puro con l’immagine della Runa Fehu; pensò che la moneta
poteva essere un buono amuleto, si procurò un nastro di pelle per
legarla e l’appese al collo. Passava il tempo, giorno dopo giorno,
settimana dopo settimana, mese dopo mese, ma Runar, non riusciva a
riposare, era impaziente di scoprire quale tesoro poteva ottenere, fino
a che, un giorno, gettò dalla finestra la preziosa moneta e attese. E
incredibilmente, fuori dalla finestra, sentì un gran rumore nella
strada, la gente che camminava con le monete d’oro sotto i piedi, ma
nessuno li vedeva. Poi, da chissà dove, all’improvviso, uscì un ragazzo
cencioso, afferrò le monete e corse via. Runar lo raggiunse e gli
chiese: “Come hai saputo delle monete?”. Il ragazzo rispose: “Dallo
gnomo, lui me lo disse, nei miei sogni; sono venuto e mi ha ordinato di
prendere le monete.” “Quindi, in realtà, tu sei l’erede”. Runar ci
pensò e lo portò a casa sua; il ragazzo disse che proveniva da una
famiglia modesta, suo padre aveva un dono raro, attraverso dei bastoni
a forma di forchette, poteva indovinare l’acqua che scorreva nel
sottosuolo, dove i minerali erano nascosti. Presto, però, suo padre si
era ammalato ed aveva cominciato a perdere la vista, ma prima della sua
morte, gli raccontava sempre di un tesoro. Quando il padre morì, loro
rimasero molto poveri, la madre lavava la biancheria degli uomini e il
ragazzo lavorava come apprendista fabbro ferraio. Runar ascoltò ed ebbe
un tuffo al cuore e pensò: “È proprio lo sposo di mia figlia!”. Runar,
però, non voleva un fabbro, ma decise, comunque, di prenderlo in casa
per fargli imparare l’arte del mercante.
Il ragazzo, molto intelligente, superò Runar nella pratica del
commercio e nelle scienze, fino a divenire il suo primo “assistente”.
Passarono gli anni e la figlia di Runar divenne una bellissima donna.
Runar pensò, “Facciamo un matrimonio!?”. Così deciso, il giorno dopo,
prese il giovane genero e lo portò nel bosco, nel prato dei nani.
Arrivati di sera, si sedettero alle radici di una quercia e rimasero in
attesa. Il buio era pauroso, senza alcun fruscio, ma, ben presto,
arrivò l’alba e li trovò congelati. Tutto era in silenzio e nessuno si
fece vivo. Runar pensò che i nani li avevano truffati e, quindi,
ritornarono a casa. Da quel giorno, Runar cambiò carattere, divenne
arrabbiato e litigioso, continuava a sognare un enorme demone a forma
di pesce che lo voleva inghiottire; non si rendeva conto che, con i
suoi sogni, continuava a peggiorare, vedeva e si lamentava come un lupo
nero, allora fu cacciato via di casa da suo genero. La figlia disse al
padre: “Io vado con lui, buono o cattivo, povero o ricco che sia, lui è
il mio amato marito; ho promesso di condividere con lui gioia e dolore,
e manterrò la mia parola”. Runar rimase con tutta la sua ricchezza da
solo, mentre sua figlia con il marito, che tornò di nuovo a fare il
fabbro, si stabilì in una vecchia casa, alla periferia della città. Una
volta mentre era in piedi, sulla soglia della sua fucina,
improvvisamente, si avvicinò un carro, con un vecchio molto piccolo,
con una lunga barba, seduto sulla panca di legno, che gli disse:
“Maestro, dimostrami le tue capacità, aprimi il coperchio della
pentola, perché la chiave è andata persa, se l’aprirai non te ne
pentirai, io, intanto, andrò in città”. Si sedette sul carro e si
allontanò. Il fabbro appena prese in mano la pentola con il suo
coperchio, si aprì e vide il contenuto, era piena di monete d’oro,
alcune di loro nel guardarle brillavano molto. Il fabbro chiuse il
coperchio e cominciò ad aspettare il vecchio. Passò un giorno, e poi un
altro e un altro ancora, passò una settimana, un mese; il fabbro allora
decise di cercare il vecchio nei villaggi vicini, ma tutto sembrava
vano; passò tutto il giorno in giro, chiedendo alla gente, ma non ebbe
nessuna notizia, poi, verso sera, decise di tornare a casa. Seguendo il
sentiero lungo i lati del bosco, giunse ad un bivio, vide nel prato due
luci tremolanti, ed andò a guardare più da vicino: vi erano due nani,
simili al vecchio che aveva portato la pentola con l’oro, gli sorrisero
e gli dissero: “Noi sappiamo perché sei venuto e chi cerchi. Una volta,
da questi parti, regnava un re avido ed ingiusto, che fino alla sua
vecchiaia raccoglieva immensi tesori; lui non aveva figli da poter
lasciare la sua ricchezza, così ordinò che i suoi forzieri d’oro
fossero sepolti in vari luoghi. Per fare in modo che nessuno sapesse
dove fossero nascosti i tesori, fece tagliare le teste dei suoi servi,
così al popolo fu nascosto il tesoro, ma non fu nascosto a noi nani. Il
popolo dei nani fece un accordo: “Se un uomo è buono ed è capace di
rinunciare al tesoro, glielo daremo, se, invece, lo troverà una persona
cattiva gli faremo venire un mal di testa, gli riempiremo gli occhi di
nebbia e lo lasceremo senza niente”. Tuo padre era un uomo buono,
conosceva molti dei nostri segreti; una volta, a noi, successe un
guaio: la nostra sorgente era seccata. Tuo padre prese un bastone a
forma di forchetta e trovò l’acqua a beneficio di noi nani della terra;
ed è per questo che abbiamo aperto questo posto, dove ci sediamo, e
regaliamo le pentole d’oro. Ma lui non poteva usare il tesoro, così noi
ci riproponemmo di darlo a suo figlio, quando fosse abbastanza grande.
Ma tutto questo non lo avresti potuto ereditare se non fosse stato per
tuo suocero, Runar, egli avrebbe trasformato l’oro in male. Ora vai,
prendi l’oro e usalo a tuo vantaggio, e per la gioia del popolo”.
“Grazie!” disse il fabbro.
“Che questa situazione ti resti d’esperienza, in modo che tu possa
aiutare qualcuno al momento opportuno”. Runar, nel tempo, apprese che
il fabbro, suo genero, si era arricchito, all’inizio provò invidia,
rodendosi il cuore, come un’arpia, con una feroce gelosia, mentre
l’avidità lo assaliva, come il demone a forma di pesce che cercava di
inghiottirlo, mentre la sua rabbia era simile al lupo nero che non lo
lasciava dormire. Runar soffrì per lungo tempo, fino a quando non capì
che la vera ricchezza non era l’oro, né gli abiti costosi, e che non si
poteva essere felice con il denaro, si rese conto che una persona è
felice solamente con l’amore, il rispetto, l’onore e con un cuore puro.
Runar trovò la forza in se stesso per superare i propri difetti, riuscì
a far pace con il genero ed insieme fecero molte cose buone per la
gente. Vissero una lunga vita, lasciando un buon ricordo, in modo che
la gente raccontasse di loro a molte altre persone.
forse era proprio
questo ciò che voleva dire il mio caro amico…
Angelo Battiato
angelo.battiato@istruzione.it
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