L’avv. dello Stato di Bologna Laura Paolucci commenta la sentenza n. 147, evidenziandone gli effetti e le conseguenze sui piani di dimensionamento
Data: Domenica, 10 giugno 2012 ore 10:00:00 CEST
Argomento: Giurisprudenza


Con sentenza n. 147 depositata il 7 giugno 2012, la Corte Costituzionale interviene sulle norme (art. 19, quarto e quinto comma, del D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modifiche nella L. 12 novembre 2011, n 183) che avevano modificato l’assetto del dimensionamento della rete scolastica, imponendo la verticalizzazione fra le istituzioni scolastiche del primo ciclo e modificando i parametri dimensionali per l’”acquisizione dell’autonomia” (art. 19, quarto comma) ed impedendo l’assegnazione di un incarico di funzioni dirigenziale autonomo in relazione alle istituzioni scolastiche con un numero di studenti inferiore ad un dato parametro dimensionale (art. 19, quinto comma).
Come si ricorderà la questione di costituzionalità era stata sollevata da un consistente numero di Regioni che denunciavano la violazione di diversi parametri, tra i quali l’art. 117, secondo e terzo comma, Cost.: secondo la prospettazione regionale, infatti, la disciplina oggetto di censura apparterrebbe alla materia “istruzione” oggetto di competenza concorrente, secondo l’art. 117, terzo comma, Cost., nella quale allo Stato rimane soltanto la determinazione dei principi fondamentali, dovendosi però escludere che, in ragione della natura dettagliata delle disposizioni censurate, queste possano essere considerate norme dettanti principi generali.
Né, in ragione del suo oggetto, la disciplina può essere fatta rientrare nella competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera n), Cost., in tema di “norme generali sull’istruzione”.
La Corte, sostanzialmente, accoglie tali censure.
Ricordiamo il testo delle disposizioni vagliate, prima di esaminare la decisione della Corte:
“4. Per garantire un processo di continuità didattica nell'ambito dello stesso ciclo di istruzione, a decorrere dall'anno scolastico 2011-2012 la scuola dell'infanzia, la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado sono aggregate in istituti comprensivi, con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole secondarie di I grado; gli istituti compresivi per acquisire l'autonomia devono essere costituiti con almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche.
5. Alle istituzioni scolastiche autonome costituite con un numero di alunni inferiore a 600 unità, ridotto fino a 400 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche, non possono essere assegnati dirigenti scolastici con incarico a tempo indeterminato. Le stesse sono conferite in reggenza a dirigenti scolastici con incarico su altre istituzioni scolastiche autonome”.
La Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della prima disposizione, mentre “salva” la seconda.
Sul quarto comma dell’art. 19, la Corte afferma:
-che si tratta di una norma che regola la rete scolastica e il dimensionamento degli istituti;
-che tale ambito non si inserisce nelle “norme generali sull’istruzione”, non costituendo quindi materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato;
-che tale materia appartiene invece alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni in materia di “istruzione”;
-che nell’ambito della competenza concorrente lo Stato ha il (solo) potere di dettare principi fondamentali;
-che la norma in questione è di dettaglio, non lasciando alcun margine di adattamento al potere regionale, non risultando così qualificabile come principio fondamentale.
La Corte ricorda, infatti, sulla base della propria giurisprudenza, la differenza fra “norme generali sull’istruzione” e “principi fondamentali” della materia, per escludere che la norma censurata sia espressione delle une o degli altri. Con le sentenze n. 200 del 2009 e n. 92 del 2011 infatti era già stata chiarita, (evolvendo l’interpretazione già iniziata con le sentenze n. 13 del 2004 e n. 34 e n. 279 del 2005), la differenza esistente tra le norme generali sull’istruzione – riservate alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera n), Cost. – e i principi fondamentali della materia istruzione, che l’art. 117, terzo comma, Cost. devolve alla competenza legislativa concorrente.
Si è detto, a questo proposito, che rientrano tra le norme generali sull’istruzione “quelle disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell’istruzione (interesse primario di rilievo costituzionale), nonché la libertà di istituire scuole e la parità tra le scuole statali e non statali”.

Sono, invece, espressione di principi fondamentali della materia dell’istruzione “quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio dell’istruzione, da un lato, non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema d’istruzione che caratterizza le norme generali sull’istruzione, dall’altra, necessitano, per la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale” (sentenza n. 92 del 2011 che richiama la precedente n. 200 del 2009).
L’art. 19, quarto comma, contiene due previsioni, strettamente connesse: l’obbligatoria ed immediata costituzione di istituti comprensivi, mediante l’aggregazione della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e di quella secondaria di primo grado, con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche costituite separatamente, e la definizione della soglia numerica di 1.000 alunni che gli istituti comprensivi devono raggiungere per acquisire l’autonomia; soglia ridotta a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani e nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche.

Va osservato che il legislatore, prima della citata riforma costituzionale del 2001, era intervenuto a regolare con apposite norme il riparto di competenze relative all’organizzazione della rete scolastica; l’art. 138, lettera b), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59), già disponeva che fossero delegate alle Regioni le funzioni amministrative riguardanti la «programmazione, sul piano regionale, nei limiti della disponibilità di risorse umane e finanziarie, della rete scolastica, sulla base dei piani provinciali»; subito dopo, il d.P.R. 18 giugno 1998, n. 233 (Regolamento recante norme per il dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche e per la determinazione degli organici funzionali dei singoli istituti, a norma dell’articolo 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59), ha disposto (art. 3) che le Regioni approvino il piano regionale di dimensionamento delle istituzioni scolastiche sulla base dei piani disposti dalle singole Province. Ne consegue – afferma la Corte, ricordando le sentenze n. 13 del 2004 e n. 34 del 2005 – che è del tutto implausibile che il legislatore costituzionale del 2001 abbia inteso sottrarre alle Regioni la competenza relativa al programma di dimensionamento delle istituzioni scolastiche che già era di loro spettanza in un quadro costituzionale segnato da una impostazione maggiormente centralizzata.
La Corte peraltro ricorda che, nell’attuale quadro costituzionale, il legislatore statale era intervenuto sulla materia con l’art. 64, comma 4-quater, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, con una disposizione di sostanziale riconoscimento della competenza delle Regioni – che le medesime dovessero provvedere, per l’anno scolastico 2009/2010, ad assicurare il dimensionamento delle istituzioni scolastiche autonome nel rispetto dei parametri fissati dall’art. 2 del citato d.P.R. n. 233 del 1998. Il successivo d.P.R. 20 marzo 2009, n. 81, mirava a modificare il quadro normativo, disponendo, all’art. 1, che alla definizione «dei criteri e dei parametri per il dimensionamento della rete scolastica e per la riorganizzazione dei punti di erogazione del servizio scolastico, si provvede con decreto, avente natura regolamentare, del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata» tra lo Stato e le Regioni. Il medesimo art. 1, peraltro, stabilisce che, fino all’emanazione del menzionato decreto ministeriale, continui ad applicarsi la disciplina vigente, in particolare il d.P.R. n. 233 del 1998, ivi compreso il relativo art. 3 da considerarsi abrogato soltanto all’atto dell’entrata in vigore del predetto decreto ministeriale (art. 24, comma 1, lettera d, del d.P.R. n. 81 del 2009).
Non risulta, rileva la Corte, che tale decreto sia mai intervenuto, tanto che alcune delle Regioni ricorrenti hanno fatto presente che l’art. 19, comma 4, in esame è stato emanato quando esse avevano già provveduto all’approvazione dei piani regionali di dimensionamento in vista dell’inizio dell’anno scolastico 2011/2012, piani evidentemente formulati secondo lo schema di cui al d.P.R. n. 233 del 1998.

A diversa soluzione la Corte giunge sul quinto comma dell’art. 19.
Qui, pur riconoscendo che la previsione incide in modo significativo sulla condizione della rete scolastica, la Corte rileva che la stessa disciplina un oggetto rientrante nell’ambito della competenza esclusiva dello Stato in base all’art. 117, secondo comma, lettera g) (ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali), dovendosi tenere presente che i dirigenti scolastici sono dipendenti pubblici statali e non regionali, come risulta sia dal loro reclutamento che dal loro complessivo status giuridico.
La disposizione in esame persegue l’evidente finalità di riduzione del numero dei dirigenti scolastici – al fine di contenimento della spesa pubblica – attraverso nuovi criteri per la loro assegnazione nella copertura dei posti di dirigenza e questa materia rientra nell’ambito della competenza esclusiva dello Stato.

 

Il contesto normativo ora modificatosi, anche se parzialmente, per effetto della pronuncia della Corte era davvero ambiguo. L’eliminazione della disposizione del quinto comma dall’ordinamento giuridico elimina, con essa, anche le sue ambiguità.
Una prima ambiguità è evidenziata dalla stessa Corte ed attiene al profilo della “entificazione”.
La disposizione del quarto comma dell’art. 19, infatti, mentre imponeva l’aggregazione delle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado, in istituti comprensivi, non escludeva espressamente la possibilità di soppressioni pure e semplici, cioè di soppressioni che non prevedessero contestuali aggregazioni.
La questione tocca(va) il fenomeno della creazione e della successione fra enti (pubblici), non essendo cioè chiaro se la norma consentisse tutte le ipotesi possibili, ovvero solo alcune.
Una seconda ambiguità riguardava i rapporti tra il quarto ed il quinto comma, in sede applicativa di quest’ultimo. Non era cioè chiaro se il quinto comma si riferisse a scuole diverse da quelle del quarto comma e cioè alle istituzioni scolastiche del secondo ciclo (non considerate appunto dal quarto comma, relativo alla sola scuola dell’infanzia, primaria e media di primo grado) ovvero a qualsiasi istituzione scolastica.
E, ancora, non era chiaro quale fosse il regime giuridico di queste istituzioni scolastiche (ovvero quelle con un numero di inferiore a 600 o a 400 nelle situazioni “speciali”), definite comunque “autonome” dalla disposizione, ma non idonee a costituire oggetto di autonomo incarico dirigenziale.
Una terza ambiguità, immanente, afferisce alla definizione di comune di montagna.
Si deve infatti considerare, da un lato, l’abrogazione, risalente già alla L. 8 giugno 1990, n 142, dell’art. 1 della L. 25 luglio 1952, n. 991 e della L. 3 dicembre 1971, n. 1102 che definivano i territori montani sulla base di predeterminati parametri nazionali e con riferimento ad elenchi predisposti sulla base di questi parametri (l’essere i Comuni situati per almeno l'80 per cento della loro superficie al di sopra di 600 metri di altitudine sul livello del mare nonché quelli nei quali il dislivello tra la quota altimetrica inferiore e la superiore del territorio comunale non è minore di 600 metri, sempre che il reddito imponibile medio per ettaro non superi un dato coefficiente) e dall’altro lato, l’appartenenza della definizione in questione alla competenza regionale.
Da tali considerazioni derivava che si sarebbero potute avere definizioni diverse di “comuni di montagna” ai fini del quarto e del quinto comma dell’art. 19, non sussistendo una definizione legislativa nazionale unificante ed appartenendo comunque questa alla competenza regionale.
Con l’ulteriore conseguenza che solo in relazione all’applicazione del quinto comma (e cioè della determinazioni delle sedi da considerare utili ai fini di un autonomo incarico dirigenziale) si sarebbe potuto fare riferimento alla norma legislativa statale, seppure abrogata (ed agli elenchi a suo tempo predisposti), quale parametro di riferimento sul piano amministrativo per il conferimento degli incarichi di funzioni dirigenziali (in tal senso, si veda la nota MIUR, A00DGPER prot. N 8220 del 7 ottobre 2011).
Il venir meno del quarto comma dell’art. 19 risolve sul piano teorico ed interpretativo le ambiguità predette.

Cosa potrebbe succedere ora?
Sotto il profilo gius-lavoristico, applicativo del quinto comma dell’art. 19 del D.L. n 98/2011, nulla. La Corte ha dichiarato la legittimità di tale disposizione.
Sotto il profilo del dimensionamento della rete scolastica (quarto comma dell’art. 19 del D.L. n. 98/2011) vanno ricordati i principi giuridici in tema di effetti delle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale delle leggi.
Dal giorno successivo alla data di pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere efficacia (art. 136 Cost.).
La pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge comporta non già l'abrogazione, o la declaratoria di inesistenza o di nullità, o l'annullamento della norma dichiarata contraria alla costituzione, bensì la disapplicazione della stessa, dando luogo ad un fenomeno che si colloca, sul piano effettuale, in una posizione intermedia tra l'abrogazione, avente di regola efficacia ex nunc (e cioè per il futuro) e l'annullamento che, normalmente, produce effetti ex tunc (e cioè retroattivi).
Pertanto, la norma dichiarata costituzionalmente illegittima deve essere disapplicata con effetti ex nunc o con efficacia ex tunc, a seconda che tale diversa efficacia nel tempo della dichiarazione di incostituzionalità discenda dalla natura o dal contenuto della norma illegittima, oppure dalla portata del precetto costituzionale violato o dal diverso grado di contrasto tra quest'ultimo e la norma di legge, ovvero, infine dalla natura del rapporto sorto nel vigore della norma successivamente dichiarata incostituzionale.

Fuori delle ipotesi, aventi carattere di eccezionalità, in cui essa travolge tutti gli effetti degli atti compiuti in base alla norma illegittima, la dichiarazione di incostituzionalità (avuto riguardo al precetto costituzionale violato, alla disciplina dettata dalla norma riconosciuta costituzionalmente illegittima e alla natura del rapporto disciplinato da quest'ultima) comporta la caducazione dei soli effetti non definitivi e, nei rapporti ancora in corso di svolgimento, anche degli effetti successivi alla pubblicazione della sentenza della corte costituzionale, restando quindi fermi quegli effetti anteriori che, pur essendo riconducibili allo stesso rapporto non ancora esaurito, abbiano definitivamente conseguito, in tutto o in parte, la loro funzione costitutiva, estintiva, modificativa o traslativa di situazioni giuridicamente rilevanti (fra le tante, Cass. Civile, sez. III, 11-04-1975, n. 1384; Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311; Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).

Sulla base di tale premessa possiamo affermare che dalla pronuncia in esame non consegue l’automatica illegittimità dei Piani regionali di dimensionamento emanati in precedenza sulla base della norma ora dichiarata incostituzionale.
Né il poco tempo intercorrente per l’inizio dell’anno scolastico prossimo consentirebbe alla Regione di riattivare il complesso procedimento di adozione di un nuovo Piano.
Con riferimento alle norme statali che attualmente fanno da quadro di riferimento alla funzione, queste devono essere rinvenute nell’art. 2 del D.P.R. n 233/1998, salvo che non venga data attuazione all’art. 1 del D.P.R. .P.R. 20 marzo 2009, n. 81 (“Norme per la riorganizzazione della rete scolastica e il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola, ai sensi dell'articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133”).
Sotto la rubrica “Riorganizzazione della rete scolastica”, l’art. 1 dedicato ai “Criteri e parametri relativi al dimensionamento delle istituzioni autonome” dispone: “Alla definizione dei criteri e dei parametri per il dimensionamento della rete scolastica e per la riorganizzazione dei punti di erogazione del servizio scolastico, si provvede con decreto, avente natura regolamentare, del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, adottato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata, di cui all'articolo 64, comma 4-quinquies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133”.
Va rimarcato, a tale proposito, che l’attuazione attraverso fonte regolamentare statale di una materia come quella in esame appartenente a legislazione concorrente (la sentenza in commento conferma l’appartenenza alla legislazione concorrente della disciplina del dimensionamento della rete scolastica) non sarebbe legittima (lo Stato ha infatti potere regolamentare solo nelle materie di legislazione esclusiva).
Nulla vieta, però ( e l’art. 1 del D.P.R. ora citato si pone in tale linea), che all’emanazione della fonte regolamentare si arrivi avendo previamente concordato con le Regioni il contenuto del provvedimento.
Ed è ciò che si auspichi accada.
Laura Paolucci







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