Attualità perenne dei tragici greci. Le Baccanti di Euripide
Data: Domenica, 27 maggio 2012 ore 19:00:00 CEST Argomento: Redazione
La classicità
greca è stata, (e rimane), una stagione eccezionale della civiltà
umana: in essa stanno, sicuramente, le nostre radici
e la struttura profonda del nostro presente. Si è aperto l’11 maggio
scorso il XLVIII ciclo di rappresentazioni classiche nel magnifico
scenario della càvea del teatro greco di Siracusa. Il 22 maggio
ho assistito alle Baccanti di Euripide. Il coinvolgimento emotivo e il
piacere intellettuale provati sono quelli che solo la sapienza
e l’attualità perenne della lezione dei classici sanno dare! Le Baccanti, ultima
grande fatica creativa della tarda maturità del poeta, è
opera di indubbio pregio estetico, oltre che interessante e
preziosa fonte di testimonianza della complessa crisi
storico-religiosa che, alla fine del V sec., minaccia la
sopravvivenza del culto tradizionale degli dèi
strettamente connessi con la polìs. La Grecia classica sta
per cedere il passo alla cultura dell’età alessandrina, registrando la
fine della "paideia" platonica
con il passaggio da una religiosità intesa come simbolo, ritualità
liturgica, punto d’incontro dei valori condivisi e dei costumi della
polìs a una religiosità a carattere misterico , a una fede individuale,
spesso inquietante e contraddittoria. Di questo passaggio e di questa
crisi sembra essere ben consapevole Euripide.
La trama, in sintesi, è nel Prologo:
Dioniso irrompe subito come protagonista sulla scena
rivendicando la propria divinità, in quanto figlio di Zeus;
dichiara perciò di essere giunto nella città di Tebe per
introdurvi in suo onore i riti bacchici. Penteo, re di Tebe, si
rifiuta di riconoscere la natura divina dello “straniero”
Dioniso, e minaccia di mandarlo in prigione. Il Dio, pertanto,
offeso dalle empie parole di Penteo, che è ,fra l’altro, suo zio
per parte di madre, decide di vendicarsi contro le donne della
città. La vendetta, invero, è già in atto, perché le donne
tebane, spinte da una forza misteriosa, lasciate “furenti le loro
case”, sono andate a celebrare le orge sul Citerone, dove,
soggiacendo ad istinti incontrollabili e a impulsi irrazionali,
in un’atmosfera di ferinità primitiva sfrenata e orgiastica, e di
isteria collettiva, invasate da furore dionisiaco, senza avere
coscienza di ciò che fanno, inconsapevoli della vendetta del dio, si
abbandonano alla ferocia più sanguinaria: si avventano su una
mandria di mucche squartandole vive con forza sovrumana;
invadono alcuni villaggi, devastando tutto ciò in cui si
imbattono, rapiscono bambini e metteno in fuga la popolazione. Lo
stesso Penteo, recatosi al monte, travestito da donna dietro
suggerimento del dio, per poter spiare di nascosto i riti delle
Baccanti, viene fatto a pezzi e ucciso da Agave, sua madre!
Questi i fatti, narrati a Cadmo da un messaggero giunto a Tebe.
Nel finale, il Dio ex machina spiega di aver architettato
il tutto per punire chi non credeva nella sua natura divina, e condanna
Cadmo e Agave a essere esiliati in terre lontane. Con l'immagine di
Cadmo e Agave che, commossi, si avviano sulla strada dell’esilio, e si
dicono addio, si conclude la vicenda.
Cosa il poeta ha voluto esprimere con il linguaggio dell’arte sua?
E, soprattutto: qual è la posizione di Euripide di fronte alla
sacralità del mito che la sua tragedia rappresenta?
Quale il suo rapporto con il Dionisismo?
E, in definitiva, cosa pensa l’intellettuale Euripide della religione e
dei suoi riti misterici?
Nelle Baccanti, è un cinico razionalista che vuole “stigmatizzare il
fanatismo degli uomini e la crudeltà degli dèi “a
dimostrazione del come tantum potuit religio suadere malorum; o è,
invece, un ateo devoto- come si direbbe oggidì- che, pur non aderendo
al Dionisismo, ne dà, comunque, una valutazione positiva, non fosse
altro perché crede che, in ogni caso, la religione svolge un
ruolo e una funzione che hanno un valore molto importante, positivo e
insostituibile nell’animo umano?
A codesti interrogativi non si può azzardare una risposta definitiva e
univoca. Si possono argomentare solo delle ipotesi di risposte, senza
peraltro pretendere ad una sintesi soddisfacente per tutti. Certamente,
all’interno della tragedia si muovono e interagiscono tra i vari
personaggi modi diversi di aderire alla fede religiosa o,
addirittura, anche di negarla in parte, o del tutto. Euripide, senza
schierarsi, da vero discepolo della logica sofistica, sembra propendere
verso un atteggiamento relativistico del giudizio di fronte al
Dionisismo e ai misteri fideistici. Egli non condanna a priori, sul
piano religioso, il culto dionisiaco; né ritiene, sul piano
psicologico, riprovevole dare libero sfogo all’istinto, all’
irrazionale, all’ebbrezza, al gaudio, all’entusiasmo per raggiungere la
felicità. Le Baccanti asiatiche, guidate dalla benevolenza del Dio, a
cui obbediscono per vocazione, seguono il rito della liturgia
avendo contezza degli effetti e delle cause del loro entusiasmo.
Quando la fede è sincera, autentica, e si pratica con
convinzione, e non per debolezza spirituale, per curiosità, o per
puro fatto esteriore, essa non può -secondo Euripide- che giovare
all’uomo e renderlo migliore. Le Tebane, che ai riti di Bacco
aderiscono sì, ma senza crederci veramente, nella esaltazione
incosciente del loro stato di ebbrezza selvaggia e primitiva ,recano
danno al vivere civile e sociale della comunità. La sanguinosa
conclusione del dramma ne è una dimostrazione! Euripide, d’altra parte,
nutrito dell’umanesimo della logica sofistica, non condanna il
razionalismo di Penteo, che non crede ai miti misterici, quanto
piuttosto il suo ideologico pregiudiziale e cocciuto
rifiuto della religione misterica, e di qualsiasi religione. Penteo,
irriducibile razionalista, non capisce che l’apertura al mistero
può essere fonte di una più vera conoscenza che può permettere alla
ragione di” immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di
comprensione insperate”. Escludendo qualsiasi considerazione di ordine
religioso, il re di Tebe è destinato a crollare rovinosamente di fronte
alla potenza divina.
Forse che il mito di Dioniso è piegato a mettere in luce un fenomeno
psicologico, la forza dell’inconscio, come richiamo alla vita secondo
natura, come “ribellione alla convenzionalità del consorzio umano e,
nella sua manifestazione più elevata, vuole esprimere l’aspirazione
dell’uomo alla beatitudine e al divino“ ?
Euripide sembra non voler risolvere codesti interrogativi, dopo averli
suscitati, con la magia della sua arte, nell’anima dello spettatore.
Nuccio Palumbo
antonino11palumbo@gmail.com
|
|