I professori dell'autoriforma
Data: Sabato, 07 aprile 2012 ore 11:50:18 CEST Argomento: Rassegna stampa
Ci sono le
cose ridicole, e ci sono le cose serie. Nella top list delle cose
ridicole che abbiamo potuto leggere di recente a proposito della scuola
italiana, sta la notizia secondo cui la Divina Commedia di Dante
andrebbe espurgata perché contiene «stereotipi, luoghi comuni, frasi
razziste, islamofobiche e antisemite». Ma allora – è stato
sarcasticamente notato su queste colonne – perché non espurgare anche
Boccaccio, o Shakespeare? Come a dire: i rischi del politically correct
quando vuole farsi Nuova Inquisizione. Poi ci sono le cose serie. E fra
queste c'è il problema – grande come una casa – non di quello che
andrebbe tolto dall'insegnamento della nostra scuola, ma di quello che
andrebbe aggiunto. In altre parole, c'è il problema dei "buchi" di una
didattica che fatica ad aggiornarsi sia nelle forme, sia nei contenuti.
E c'è il problema – grande come una città – degli insegnanti che vanno
sempre più perdendo il contatto con gli studenti. Docenti giovani o
meno giovani, simpatici o antipatici, volenterosi o sfaticati, colti o
ignoranti, che ai ragazzi di oggi (cioè ai nativi digitali) danno
comunque l'impressione di parlare una lingua totalmente diversa dalla
loro. Una lingua comprensibile, ma astrusa. Logica, ma arcaica.
Alla radice di questi problemi sta indubbiamente un deficit nella
formazione degli insegnanti italiani: deficit alimentato, negli ultimi
anni, da interventi legislativi che hanno penalizzato la scuola
pubblica molto più di quanto l'abbiano riformata. Ma alla radice di
questi problemi sta anche un'inerzia culturale degli insegnanti stessi.
Le nostre scuole sono piene di professori che, quando pure non si
trincerino nell'implicita routine del minimo sindacale, si arroccano
dietro l'esplicito rispetto del «programma ministeriale», delle
«discipline curricolari», e di quant'altro serve loro per blindare
l'esistente senza compiere un singolo passo verso le frontiere del
cambiamento. Eppure, nelle scuole italiane ci sono anche professori –
una minoranza, ma una minoranza significativa – che hanno imboccato o
stanno imboccando un cammino differente: a prescindere dalla riforma
Gelmini, dalla riforma Berlinguer, da chissà quali altre riforme
passate o future. Potremmo chiamarli, per semplicità, i professori
dell'autoriforma: altrimenti la riforma dovrebbe avere tanti
cognomi quanti sono questi insegnanti che non coltivano né la religione
dell'imboscamento né quella del piagnisteo. Che non si limitano a
lavoricchiare sospirando il 27 del mese, né minacciano di «togliere il
disturbo» perché la scuola italiana non è più quella di una volta.
Sì: per esperienza diretta o per sentito dire, quali docenti dei figli
nostri o dei figli di amici, a livello di scuola secondaria inferiore o
di scuola superiore, in un liceo classico o in un istituto
professionale, tutti noi sappiamo come nelle scuole italiane esistano
professori di una specie particolare. Sono gli insegnanti che non fanno
finta di niente. Che riconoscono eccome l'impatto epocale delle nuove
tecnologie sulle modalità di trasmissione della conoscenza. Che si
interrogano eccome sulla concorrenza di «agenzie educative» estranee
agli ambienti della scuola tradizionale. Che si misurano
quotidianamente (per fare un unico esempio) con l'evoluzione materiale
e immateriale del concetto di "classico". Che si pongono eccome,
insomma, il problema di un digital divide culturale e antropologico
oltreché generazionale. E che cercano di rimediare a questa separazione
– di colmare il vuoto fra professori e studenti – attraverso una
didattica innovativa nelle forme come nei contenuti.
Ilsole24ore.com
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