Quel 'patto' scellerato tra governi e prof che fa fuori 1000 anni di cultura
Data: Venerdì, 16 marzo 2012 ore 16:35:57 CET
Argomento: Rassegna stampa


Per comprendere la portata del problema posto in chiusura della puntata precedente, ritengo necessario mostrare, seppur sommariamente, la grottesca sproporzione esistente tra l’immagine della latinità che la scuola superiore perpetua nella communis opinio e quale a mio avviso è, invece, la sua realtà di fatto, storica e letteraria, in una parola culturale.

La letteratura latina non coincide con la letteratura di Roma, e unico caso nella storia delle letterature euro-occidentali costituisce un corpus di testi che sono in relazione su un arco temporale immenso (dal V sec. a.C. fino almeno alla metà del 1800, come attestano per esempio i panegirici latini dei poeti della corte asburgica, intrisi di memorie poetiche classiche come Virgilio, Orazio, Ovidio, ecc., o in paragone strutturale con i panegirici di epoca imperiale e tardo antica), che abbraccia quindi non solo enormi mutamenti storici, ma anche un gran numero di popolazioni per cui il latino non fu mai o non fu più la lingua madre. Si pensi per esempio agli scrittori di lingua greca che produssero in latino, come il siriaco Ammiano Marcellino, senza ovviamente dimenticare che il cosiddetto iniziatore della produzione letteraria in Roma antica, fu il greco romanizzato Livio Andronico. Unico caso nella storia dell’uomo, la lingua latina consente oggi al suo studioso di essere “contemporaneo” tanto di Ennio, quanto di Pascoli, e concittadino dello spagnolo Lucano, come dell’africano Minucio Felice, del franco Alano di Lille, del fiorentino Dante, dell’olandese Erasmo, dell’inglese Newton, del tedesco Karl Marx, che scrisse la propria “tesina di maturità” in latino, ecc.

A fronte di questa situazione la scuola continua a diffondere l’idea che la lingua a la cultura latina si spingano al massimo fino al II sec. d.C. con Tacito e Svetonio, dopo i quali si protrarrebbe una “crisi” indefinita, i testi non sarebbero più scritti in latino, e niente sarebbe letterariamente degno di essere letto. Tale vulgata che assume acriticamente – e invero però un po’ anche strapazzandola e distorcendola – la visione dell’impero romano che fu di E. Gibbon, si completa con la considerazione che da qualche parte in questa interminabile crisi sarebbe incominciato il Medioevo anche in letteratura, intendendo con ciò l’ingresso della cultura cristiana nella produzione scritta in latino, e quindi per se non interessante, linguisticamente corrotta, se non ideologicamente pericolosa.

E. Tanca - www.sussidiario.it





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