I giovani e le porte strette degli Atenei
Data: Mercoledì, 14 marzo 2012 ore 13:38:09 CET
Argomento: Rassegna stampa


dottorato Il 2012 è davvero l'anno della grande fuga dall'Università, come ha titolato un autorevole quotidiano nazionale?
I dati diffusi dal ministero dell'Istruzione sembrerebbero non lasciare dubbi. Nell'anno accademico 2011-2012 gli studenti immatricolati negli atenei italiani rappresentano il 59,6% del totale dei diplomati dell'anno precedente. Appena dieci anni fa la percentuale superava, invece, il 70%. Fin qui i dati grezzi. Ma è opportuno non fermarsi alla superficie della notizia e scandagliare le ragioni di questo calo di iscrizioni. La prima, e la più evidente, è l'introduzione del numero chiuso in gran parte delle facoltà degli atenei italiani. Se le facoltà pongono un tetto alle iscrizioni e subordinano l' immatricolazione al superamento di un test risulta difficile parlare di «fuga» dei neo-diplomati dall'Università. Sarebbe più corretto parlare di una strettoia imposta dall'alto.

Anche in questo caso bisogna andare alla ricerca dei motivi. Il primo è di natura funzionale. Il ministero ha stabilito, infatti, paletti precisi nel rapporto numerico fra studenti e docenti. Non possono esserci tremila iscritti in un corso che abbia solo nove docenti in organico; sembra una indicazione ovvia, che però in passato è stata spesso disattesa. Così sono arrivate le tabelle ministeriali che stabiliscono, a seconda dei corsi, il numero massimo di studenti per ogni nove docenti. Il numero varia dai 75 di Matematica e Fisica ai 230 di Economia fino ad arrivare ai circa 300 dei corsi umanistici. Le facoltà si sono dovute adeguare. E, di conseguenza, sono calati in molte facoltà i posti a disposizione per le immatricolazioni. Ma questa motivazione, da sola, non basta a spiegare il dato di cui ci stiamo occupando. C'è da prendere in esame un secondo fattore, non meno decisivo del primo. Tutti gli studi sulla percentuale di disoccupati fra i laureati italiani tracciano, negli ultimi anni, una parabola crescente. Il recente rapporto di Almalaurea rileva che la percentuale di disoccupati fra i laureati alla triennale è salita nel 2011 rispetto all'anno precedente dal 16 al 19%, mentre fra i laureati alla specialistica la percentuale è passata dal 18 al 20%.

Introduciamo ancora un altro elemento per completare il quadro. La laurea a due livelli (triennale+specialistica) ha avuto esiti in gran parte negativi, perché di fatto la triennale è risultata inutile agli studenti e poco spendibile sul mercato del lavoro: è servita solo ai governi Prodi e Berlusconi per poter dimostrare in ambito Ue che la percentuale di popolazione con laurea è cresciuta a livelli medi. In realtà, l'esperimento è fallito: solo pochissimi dei laureati triennali hanno trovato occupazione in forza del loro titolo di studio. L'effetto perverso dell'esperimento è stato un abbassamento complessivo della formazione accademica. La situazione è ancora più grave al Sud, dove le Università - per carenze di fondi e di rapporti col mondo del lavoro - rischiano di fornire una preparazione di serie B.
In questo contesto non c'è da meravigliarsi se i giovani diplomati di fronte alla difficoltà di accesso all'Università e alla scarsa spendibilità della laurea preferiscono cominciare subito a mettersi in fila per l'ingresso nel mercato del lavoro.
Per i motivi sopra citati, i dati sulla grande fuga dall'Università piuttosto che innescare sterili polemiche sul nulla, dovrebbero favorire un dibattito serio sugli atenei e sulle risorse che si vogliono investire nella formazione delle giovani generazioni.

Giuseppe Di Fazio
La Sicilia





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