Mario Rapisardi ( 1844-1912), poeta catanese, nel centenario della scomparsa
Data: Lunedì, 23 gennaio 2012 ore 05:00:00 CET
Argomento: Redazione


Il poeta Mario Rapisarda, (modificato in Rapisardi, in omaggio a uno dei suoi autori preferiti, Leopardi) nacque a Catania il 25 febbraio 1844. Suo padre, un agiato procuratore legale, pur non impegnato politicamente, era di idee liberali e amico dei rivoluzionari fucilati durante la rivolta a Catania del 1837. Il giovane Mario Rapisardi, oltre ad amare la letteratura e la storia, si dedicava alla pittura e suonava discretamente il violino. Leggeva, soprattutto, gli autori italiani, Alfieri, Monti, Foscolo, Leopardi e vari scrittori risorgimentali, esordì, nel 1859 con l’Ode a Sant'Agata vergine e martire catanese, e scrisse, ancora adolescente, l’Inno di guerra, agl’italiani e l’incompiuto poemetto, Dione, nella cui prefazione esaltava le battaglie di Solferino, Palestro e Magenta, partecipando così all’atmosfera politica di quei mesi, culminata con l’impresa di Mille, che poneva fine, in Sicilia, alla monarchia borbonica. Rapisardi iniziò i suoi studi dai gesuiti e, per assecondare i voleri del padre, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, senza laurearsi, lo interessava molto, invece, lo studio dei classici greci e latini, che gli suggerirono le prime traduzioni e le ricerche filologiche e filosofiche di carattere positivistico. Frutti di questo periodo formativo furono i poemetti Fausta e Crispo e i Canti. Nel 1865, Rapisardi, partì per Firenze, allora capitale del Regno, per il sesto centenario della nascita di Dante, cui dedicò l’ode declamata in quell’occasione e qui, in un clima acceso da fermenti mazziniani e repubblicani, strinse amicizia con i poeti Dall’Ongaro, Prati, Aleardi, Fusinato, Maffei, Pietro Fanfani, con l’orientalista De Gubernatis e con altri importanti artisti e intellettuali. Nel 1868 pubblicò il suo primo poema, La Palingenesi, dove in 10 canti polimetri condannava la corruzione del clero e difendeva l’azione moralizzatrice di Lutero, prospettando, col connubio arte-scienza, il ritorno del cristianesimo alla purezza originaria. Il successo dell’opera (Verga fu uno dei primi a congratularsi ed anche Victor Hugo fu tra i più convinti estimatori) echeggiò anche all’estero, mentre il Comune di Catania gli assegnò una medaglia d’oro e, nel 1870, il ministro della Pubblica Istruzione, Cesare Correnti, lo chiamò a insegnare Letteratura italiana presso l’ateneo catanese. Nel 1872 pubblicò a Pisa la raccolta di liriche, Le ricordanze, che rivelavano una genuina vena intimista e richiamavano la poesia leopardiana, che egli amò tanto. Nello stesso anno sposò la fiorentina, Giselda Fojanesi, che, successivamente, cacciò di casa il 12 dicembre 1883, avendo scoperto che si era legata al Verga. Nell’85, Mario Rapisardi, iniziò a convivere con una diciottenne assunta come segretaria, Amelia Poniatowski, figlia di genitori ignoti, che gli sarà compagna fedele per tutta la vita. Nel 1875, a Firenze, pubblicò Catullo e Lesbia. Nel 1876 Pietro II, imperatore del Brasile, assistette ad una sua lezione, mentre spiegava l’ultimo libro del De Monarchia di Dante. Uno studio critico su Catullo gli valse, nel 1875, la nomina a professore straordinario di Letteratura italiana e l’incarico di Letteratura latina all’Università di Catania. Nel 1878 venne nominato professore ordinario di Letteratura italiana all’Università degli Studi di Catania, essendo Ministro della Pubblica Istruzione, Francesco De Sanctis, che lo stimava. Nel 1877 uscì il suo secondo poema, Lucifero, ispirato dalla Guerre de Dieux del Parny, ma anche da Milton e dal carducciano, Inno a Satana. Il poema, in 15 canti polimetri, pur essendo diseguale a livello artistico (definito da una parte della critica, “efficaci descrizioni e qualche episodio memorabile oppone una certa macchinosità d’insieme e non rare cadute di tono per non dire di gusto”), resta l’espressione più significativa della scuola poetica italiana positivista. Per il Lucifero, Rapisardi, ricevette un biglietto entusiastico di Garibaldi, che si firmò "suo correligionario", mentre, subì dure critiche dalle gerarchie ecclesiastiche, l’arcivescovo di Catania ordinò, pare, un autodafé del libro. Il Carducci, al quale aveva “devotamente” inviato una copia del Lucifero, resosi conto d’essere oggetto di caricatura in alcuni versi del XI canto ("plebeo tribuno e idrofobo cantor, vate di lupi"), aprì col Rapisardi una lunga polemica che avrebbe divido l’Italia letteraria degli anni '80. Addirittura, Federico de Roberto, iniziò la sua carriera letteraria con il saggio, Giosuè Carducci e Mario Rapisardi. Polemica, pubblicato a Catania, nel 1881, dall’editore Giannotta. Dall’epistolario di Giosuè Carducci si scoprirono frasi poco tenere, risalenti agli anni '60, nei confronti del Rapisardi, che certo non era di carattere facile e che, in fondo, stimava solo pochi poeti, suoi contemporanei, come Arturo Graf. Molte delle sue frecciate tuttavia rimasero o inedite o affidate alla discrezione dei suoi interlocutori epistolari. Di pubbliche vi furono solo le allusive caricature schizzate in certi passi dei suoi poemi. Rapisardi pubblicò, nel 1883, i versi sociali (e sarcastici) di Giustizia, che trovarono vasti consensi. Nel 1924, in pieno periodo fascista, quest’opera, addirittura, sarà proibita dal regime. Nel 1884 uscì il suo capolavoro, il poema Giobbe: la figura del protagonista, umiliato e castigato da Dio senza motivo, diventa un simbolo dell’umanità sofferente. I versi, dove il personaggio grida a Dio la sua disperazione, toccano altezze forse ineguagliate nella poesia italiano del secondo Ottocento. Nel 1887 dà alle stampe le splendide Poesie religiose, forse il suo vertice lirico, cui seguirono i Poemetti ('92) e gli Epigrammi ('97), nonché delle impegnative traduzioni di opere di Catullo, Shelley e Orazio, anche se la cosa più importante resta la traduzione e lo studio critico del poema La natura di Lucrezio ('79). Nel '94 pubblicò il suo quarto e ultimo poema, L'Atlantide, dove, ispirandosi ai Paralipomeni del Leopardi, disegnava, nelle vicissitudini del poeta Esperio, la società italiana lasciva e inetta, additando nella corruzione il principio dei mali. Nel poema attaccava e disprezzava la società borghese, mentre cantava le figure di Newton, Darwin, Pisacane, Marx, Cafiero e altri grandi della storia universale. Inoltre, nella prefazione a Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause (1894), denunciò, con lucidità e coraggio, la criminale politica del governo Crispi (vedi la repressione dei "fasci siciliani"), e nei pamphlet Leone ('95) e Africa orrenda ('96), spiegò le feroci repressioni dei moti contadini e operai, e avversò la politica colonialista intrapresa dal governo crispino.       Nel 1905 Mario Rapisardi aveva raggiunto l’apice della fama, persino, il proposito di congedarlo dall’Università di Catania causò l’indignata protesta degli studenti di molti atenei italiani. La concezione che Rapisardi aveva della scuola è molto diversa da quella che hanno molti, i quali scambiano l’insegnamento con un qualunque mestiere. Egli pensava “che la scuola fosse un istituto di massima importanza nella vita pubblica, che essa dovesse essere fucina di valori morali e palestra di educazione delle giovani generazioni, riteneva che la scuola non potesse essere estranea alla vita, se di essa non si vuol fare un esercizio di espiazione ovvero un museo di fossili”. Negli ultimi anni della sua vita il poeta catanese si chiuse in un silenzio ostinato, indifferente agli onori dei concittadini che superarono, di gran lunga, quelli tributati a Verga, De Roberto, Capuana. Rifiutò, ad esempio, la candidatura offertagli dal collegio elettorale di Trapani con ben 6200 suffragi, cifra allora straordinaria, accusando la sua debole salute, l’insufficienza dei suoi studi e l’indole “aliena da negozi politici”. Rapisardi, inoltre, per aver celebrato nelle sue opere l’unità d’Italia e le guerre d’indipendenza nazionale, venne insignito, lui, schietto repubblicano, del titolo di Cavaliere della Corona d’Italia. Non lo toccarono neppure le critiche di molti studiosi (specialmente il Croce), anche se tra le sue carte furono trovati feroci epigrammi contro gran parte dei letterati dell’epoca: Fogazzaro, Croce, Pascoli, Carducci, D'Annunzio. Mario Rapisardi morì il 4 gennaio 1912 a Catania: al suo funerale partecipò una folla enorme, oltre 150.000 persone, con molte rappresentanze ufficiali, giunte, persino, da Tunisi. La città etnea tenne il lutto per tre giorni. Nonostante questo, a causa del veto imposto dalle autorità ecclesiastiche, la sua salma rimase, per quasi dieci anni, depositata in un magazzino del cimitero comunale. Successivamente, il nome di Mario Rapisardi, rimasto in ombra per tutto il periodo del fascismo, riaffiorò, solamente, nel dopoguerra, grazie agli studi di Concetto Marchesi, Asor Rosa, La Penna e Saglimbeni che gli tributarono i giusti riconoscimenti di insigne poeta, fine educatore e, soprattutto, di spirito libero. “Amate la verità più della gloria, più della pace, più della vita. Fate di essa la vostra spada e il vostro scudo”.

Angelo Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it





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