Scuola media, anello debole del nostro sistema di istruzione?
Data: Mercoledì, 18 gennaio 2012 ore 02:00:00 CET Argomento: Rassegna stampa
È bene
che sulla scuola media si riapra la discussione; con essa, è possibile
che si torni a parlare delle strategie che, un decennio fa, collegavano
la riorganizzazione del ciclo di istruzione secondaria di primo grado
all’auspicabile allineamento internazionale a 18 anni dell’età di
conseguimento dei diplomi. Ma, per tanti motivi, oggi sarebbe
preferibile una distinzione tra i due ambiti di intervento. La
riduzione a dodici anni dell’istruzione iniziale è una scelta da non
rinviare. Rappresenta, infatti, un obiettivo ragionevole da più punti
di vista: in primis, comporterebbe l’eliminazione dell’assurdo ritardo
con cui, rispetto ai coetanei europei, i diplomati italiani si
presentano sul mercato del lavoro o intraprendono gli eventuali studi
terziari, anch’essi assai lunghi; presenta, inoltre, il duplice
vantaggio di un alleggerimento dei costi delle famiglie, e
dell’apertura di articolazioni e flessibilità nell’uso delle risorse,
indispensabili a un funzionamento più efficace della scuola secondaria
superiore, orientamento
compreso.
La crisi di identità della scuola
media, d’altro canto, non si risolve con riforme ordinamentali che,
nell’esperienza italiana, sono sempre calvari lunghi, complessi,
esposti a liquidazioni e ripensamenti, e che, comunque, sappiamo non
essere l’alfa e l’omega del cambiamento. Ci sono invece criticità così
acute da richiedere interventi specifici e ravvicinati nel tempo. È
negli anni nevralgici della preadolescenza che si decidono i
fondamenti, la significatività e il valore per ciascuno
dell’apprendimento formale, gli stili e i metodi di studio, il
riconoscimento delle motivazioni e dei talenti, perfino – “absit
iniuria verbis” per chi identifichi la condizione giovanile con lo
status di studente a tempo indeterminato - l’interesse a percorsi
formativi indirizzati presto a un lavoro. Non c’è proprio bisogno,
insomma, di contrarre il tempo educativo dedicato agli anni più
complicati della crescita. Bisogna, al contrario, utilizzarlo bene per
evitare che, proprio quando la fragilità individuale è massima, possano
compiersi scelte svantaggiose che andranno a incidere pesantemente sul
destino dell’individuo.
Discuterne è necessario. La diagnosi offerta dall’ultimo “Rapporto
sulla scuola della Fondazione Agnelli” (“Rapporto sulla scuola in
Italia”, 2011, Bari, Laterza), dedicato appunto alla scuola media,
offre spunti importanti di riflessione e una presa di parola, da troppo
tempo assente, del suo corpo professionale.
Colpisce, tra i tanti dati richiamati, il netto peggioramento, rispetto
alla primaria, degli apprendimenti in matematica e scienze, rilevato a
quattro anni di distanza, sulla stessa coorte di studenti,
dall’indagine TIMSS. I punteggi, significativamente superiori alla
media internazionale nella quarta classe della primaria, precipitano
(-23 in matematica, -21 in scienze) nella terza classe della media. Non
solo, in nessuno dei 12 Paesi messi a confronto, la riduzione appare
così pronunciata come in Italia. Anello debole o no, le difficoltà ci
sono, e sono evidenti. Anche gli insoddisfacenti risultati dei
quindicenni rilevati da P.I.S.A parlano, come è noto, più di scuola
media che di scuola superiore.
Come si spiega tutto ciò? Le criticità, in termini di demotivazione,
scarsità di concentrazione ecc., degli anni della preadolescenza –
presumibilmente analoghe in tutti i Paesi a sviluppo comparabile – non
spiegano i divari internazionali, e neppure possono derivare in modo
significativo, secondo la Fondazione, dalle diversità tra il modello
italiano del 5+3 e quelli di altri Paesi. Anche l’interpretazione,
diffusa nell’opinione pubblica e spesso utilizzata in funzione
autogiustificativa dagli insegnanti, secondo cui la scuola media
avrebbe finito con il sacrificare “la qualità all’equità” – cioè i
risultati di apprendimento all’esigenza sociale di un accesso
universalistico all’istruzione – sarebbe tutt’altro che convincente.
La realtà, in effetti, è peggiore dello stereotipo. La scuola media
italiana non è di buona qualità e non riesce neppure a fare equità,
visto che, a differenza di mezzo secolo fa, il problema principale oggi
non è il conseguimento del titolo e l’accesso ai percorsi ulteriori, ma
una decente qualità media degli apprendimenti. Sfogliando il repertorio
dei dati, l’affermazione non sembra granché discutibile. Invece che
garante delle pari opportunità nell’apprendimento, la scuola media si
presenta piuttosto come l’incubatore di disuguaglianze destinate a
esplodere nella secondaria superiore. Trattasi di svantaggi
immancabilmente correlati a quelli socioculturali di partenza, che sono
presenti, ovviamente, anche nella scuola primaria, e che però lì
vengono più sapientemente compensati.
Nella scuola media no, quello che finisce col contare davvero è il
livello di istruzione dei genitori, la nazionalità, il contesto
territoriale, perfino il genere (sono a maggior rischio i maschi delle
femmine). Stentano i figli di situazioni sociali svantaggiate, ma fanno
pochi progressi anche quelli che hanno alle spalle situazioni più
solide. Non solo. L’orientamento appare più simile a una ratificazione
a posteriori dei successi o dei fallimenti educativi che alla
promozione di talenti e attitudini individuali.
Si può parlare di ritardi culturali e di conservatorismi professionali,
favoriti dal fatto che la scuola media non ha vissuto negli anni che
pochi ritocchi? Può essere, ma sono comunque contrastanti con la sua
“mission” dichiarata i modi, a dir poco disinvolti, con cui viene
attuato nella formazione delle classi il sacrosanto principio della
“equieterogeneità”. Le classi omogenee (un vizio prevalente nelle aree
meridionali del Paese, ma presente anche nel centro-nord) sono
tantissime perfino all’interno di uno stesso istituto, anche al di
fuori delle aree metropolitane, connotate da quartieri a composizione
sociale differenziata; lo studio della Fondazione Agnelli rileva, in
proposito, una spiccata correlazione tra tale omogeneità, sia in alto
sia in basso, e la modestia dei progressi: nelle classi di livello
inferiore – viene spiegato – perché manca l’effetto “traino” dei
migliori, ma anche in quelle di livello superiore perché il
“cooperative learning”, decisivo nell’età in cui contano sopratutto i
rapporti tra i pari, è messo a rischio dalle dinamiche di competitività
che possono insorgere. Un quadro in cui non è l’equità a mettere in
secondo piano l’efficacia, ma è, al contrario, l’efficacia a essere
pregiudicata da una scarsa equità.
Si possono individuare ragioni specifiche di questo settore scolastico
che contribuiscono a questo stato di cose? Secondo il Rapporto, sono
numerose, e riguardano anche le caratteristiche del corpo docente.
L’età media più alta, intanto, di tutto il sistema, che certo non
favorisce l’adozione di metodologie innovative e neppure l’utilizzo
didattico delle TIC, decisivo per un miglior rapporto con
l’apprendimento scolastico di ragazzi innamorati delle nuove
tecnologie, e abituati a stili cognitivi diversi da quelli peculiari
all’insegnamento tradizionale. Un tasso altissimo di mobilità, e quindi
di discontinuità didattica, determinato da un precariato più
consistente che altrove, ma anche dalla irresistibile aspirazione a
fuggire nei più nobili luoghi dell’istruzione superiore. E poi l’osso
più duro: una didattica prevalentemente disciplinarista indotta dalla
struttura del curricolo, e dalla scarsa propensione a lavorare in team
sulle competenze chiave, e a scegliere (“essenzializzando”?) i
contenuti.
Difficile non attribuire a una troppo brusca discontinuità, in tutti
questi aspetti, dalla primaria alla media, e nelle turbolenze della
preadolescenza, un impatto negativo sugli studenti. Le proposte
delineate dal Rapporto toccano tutti questi punti, e anche altri. Si
misurano con un orario didattico schiacciato tutto sull’insegnamento
disciplinare in aula a classe intera, restituiscono valore e argomenti
all’apertura di spazi, non solo laboratoriali, ma per piccoli gruppi,
finalizzati al recupero, allo sviluppo dei diversi linguaggi, al
riconoscimento delle diverse attitudini. Sottolineano l’aporia di un
numero eccessivo ed eccessivamente frammentato di discipline tutte
obbligatorie e tuttavia mai considerate di pari valore formativo, né
tanto meno valorizzate come piste per il riconoscimento e lo sviluppo
dei talenti di ciascuno. Ripropongono gli istituti comprensivi non come
misura di risparmio di spesa.
Problemi non di oggi, ma elusi da troppo tempo. Definire gli interventi
che servono, senza il pesante ingombro di ennesimi riordini
ordinamentali, sarebbe di buon senso.
di Fiorella Farinelli
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