L’importanza degli aspetti comunicativi nel concreto rapporto docente/alunno
Data: Sabato, 14 gennaio 2012 ore 12:53:59 CET Argomento: Rassegna stampa
È ormai
assodato che la comunicazione interpersonale, verbale e non verbale,
rappresenti uno degli aspetti più rilevanti del processo educativo.
Quali suggerimenti, spunti e suggestioni possono trarre docenti e
operatori della scuola dalle ricerche condotte nell’ambito delle
scienze sociali? Presentazione del nuovo libro di Alba Porcheddu,
“Didattica e comunicazione, antropologia della comunicazione e processi
didattico-educativi” (Anicia, Roma, 2011).
Jürgen Habermas ci ricorda, in un saggio del 1973, che la
comunicazione, al pari del lavoro, rappresenta un tratto antropologico
universale della natura umana che, quindi, non può non essere un tema
costante delle scienze sociali. È da questo assunto, citato nella
introduzione del volume, che Alba Porcheddu prende l’avvio per la sua
ricerca.
Se è vero che la comunicazione investe ogni aspetto dell’attività
umana, ne risulta che anche il rapporto educativo non può che esserne
fortemente interessato. I problemi che investono i processi
formalizzati dell’insegnare/apprendere, tipici di tutte le società ad
alto sviluppo, dove la scuola è diventata necessariamente una scuola
aperta a tutti e per tutto il corso della vita, non derivano forse
anche da difficoltà comunicative? Si tratta di un interrogativo che si
è posto prepotentemente all’ordine del giorno proprio negli ultimi
decenni del secolo scorso, quando, nel nostro Paese, ma non solo, la
domanda di istruzione ha assunto una consistenza sconosciuta ai decenni
precedenti, e l’offerta non è sempre stata in grado di fornire risposte
adeguate.
Al boom economico è seguita una crescita civile e culturale di ampio
respiro, per cui ampi settori della popolazione, da sempre esclusi
dall’accesso alla cultura, hanno avvertito l’importanza della scuola
per i loro figli, come mai in precedenza. L’accesso all’istruzione di
una nuova generazione di allievi – ricordiamo l’innalzamento
dell’obbligo con la legge 1859 del 1962 – ha comportato serie
difficoltà in termini di efficacia dell’offerta educativa. Non a caso,
negli anni Sessanta nel nostro Paese le bocciature fioccarono e solo la
Lettera a una professoressa di Don Milani costrinse insegnanti e
amministrazione scolastica a ripensare la natura e le finalità
dell’offerta educativa nel suo complesso.
Quest’insieme di ragioni ha riguardato non solo l’organizzazione
scolastica “tout court”, ma anche e soprattutto le modalità
dell’offerta in aula, il concreto rapporto docente/alunno. È stato
allora che i legami tra educazione, didattica e comunicazione hanno
iniziato a essere temi di indagine per tutti i nostri pedagogisti.
Provenendo da una scuola fortemente nozionistica, connotata
dall’idealismo gentiliano, secondo cui il docente e la sua lezione
costituivano un modello unico e insostituibile, si pensava che proprio
dalla lezione cattedratica si sarebbe originato un produttivo rapporto
tra docente e alunno. Ma non poteva essere così! È nota la sufficienza
con cui Gentile guardava alla pedagogia! E negli istituti magistrali, a
cui dette vita nel 1923, questa venne considerata una sorta di
sottoinsieme della filosofia. Così, mentre altrove Dewey e la sua
“filosofia dell’attivismo” davano nuova linfa ai metodi
dell’insegnare/apprendere, in Italia questi venivano deliberatamente
ignorati, e la esperienza stessa di Maria Montessori veniva di fatto
considerata non conforme a una scuola che ormai si proponeva soltanto
di fare dei giovani italiani soltanto degli ubbidienti balilla! Non fu
un caso che, nel 1929, il Ministero della Pubblica Istruzione fu
rinominato Ministero dell’Educazione Nazionale: il proposito di fare
dell’assimilazione dell’ideologia fascista il fine della scuola era più
che evidente, al posto di promuovere la formazione della persona e del
cittadino.
Nell’immediato dopoguerra non fu affatto facile ricondurre, nella
scuola italiana, quell’insieme di ricerche che per la prima metà del
secolo avevano interessato le scuole di tutti i Paesi avanzati, in
Europa e negli Stati Uniti. “Democrazia ed educazione” di John Dewey,
pubblicato a New York nel 1916, venne tradotto per La Nuova Italia solo
nel 1949! Trent’anni di silenzio! A causa di questi ritardi in materia
di ricerca pedagogica – anche se le ragioni furono molteplici – quando
giungemmo a innalzare in Italia l’obbligo di istruzione, la scuola
media non fu in grado di dare risposte adeguate a un numero sempre
crescente di alunni che esigevano metodi diversi rispetto a quello
della tradizionale lezione cattedratica. Pertanto, i problemi del
concreto rapporto docente/alunno, della concreta interazione verbale e,
soprattutto, non verbale in classe, furono in larga misura ignorati o
lasciati al “savoir faire” dei singoli insegnanti. Le ricerche e i
contributi di Piaget e di Vygotsky, dei formalisti russi, della
filosofia analitica inglese e della stessa istruzione programmata (da
cui derivano le macchine per insegnare di Burrhus Frederic Skinner),
che è altra cosa rispetto alla programmazione educativa e didattica,
non costituivano apporti interessanti per innovare le consuete pratiche
didattiche.
Per tutta questa serie di ragioni, negli anni Settanta in Italia si
ebbe un costante fiorire di ricerche nella pedagogia o, meglio, nelle
scienze dell’educazione che ne costituivano il necessario
arricchimento. Così sociologia, antropologia, docimologia, per citare
solo alcune discipline della cosiddetta “enciclopedia pedagogica”,
secondo una felice definizione di Aldo Visalberghi, costituirono
oggetto di grande attenzione, sia da parte della ricerca accademica sia
da parte della pratica didattica: quest’ultima, ovviamente, non senza
incontrare notevoli difficoltà.
In questo clima di ricerca e innovazione si colloca anche il volume di
Alba Porcheddu, il cui fine specifico è quello di fare ordine tra le
tante proposte innovative avanzate e offrire, anche alla scuola
militante, uno strumento di riflessione e di concreti suggerimenti. In
effetti, “che la comunicazione verbale e non verbale interessi il
processo educativo è una considerazione che ha il carattere
dell’evidenza. Il rapporto educativo tra due o più persone,
particolarmente rilevante quando i suoi termini sono gli adulti da un
lato e i giovani dal’altro, può aver luogo, infatti, in modo più o meno
programmato, con o senza chiare finalità, con l’aiuto di tecniche
raffinate o, al contrario, utilizzando mezzi del tutto empirici: in
ogni caso si affida a una condizione di fondo, ossia a un processo di
comunicazione che trova la sua espressione più esauriente nei suoi
aspetti linguistici” (p. 9).
La ricerca della Porcheddu muove da lontano: dallo sviluppo delle
scienze della comunicazione e dell’informazione, e dai loro rapporti
con la cibernetica e lo stesso linguaggio umano. Sotto questa luce, i
fenomeni dell’entropia, della ridondanza, del feedback investono anche
i campi della comunicazione verbale e non verbale. E non è un caso che,
proprio in quello scorcio di secolo a cui abbiamo fatto poc’anzi
accenno, la Scuola di Palo Alto andava definendo quella psicologia che
in termini lati può definirsi “umanistica” (si pensi anche a Carl
Rogers e a Abraham Maslow), di cui i cinque assiomi della comunicazione
interpersonale hanno costituito – e costituiscono tutt’oggi – una sorta
di pietra miliare per ogni successiva ricerca.
Altri interessanti e suggestivi spunti di riflessione e di analisi
riguardano la teoria della comunicazione che il formalista russo Roman
Jakobson mutuò e sviluppò dalla teoria dell’informazione, individuando
e definendo quelle sei funzioni linguistiche (emotiva, conativa,
fàtica, poetica, metalinguistica e referenziale) che caratterizzano e
sostanziano qualsiasi campo delle interazioni interpersonali. A queste
suggestioni l’autrice aggiunge anche un corposo capitolo tutto dedicato
agli “speech acts” (atti linguistici), che i filosofi analitici inglesi
John Austin, John Searle e Herbert Paul Grice elaborarono, proprio
negli anni Settanta, con ampio successo. Si tratta di un insieme di
indicazioni e suggerimenti che riguardano la comunicazione
interpersonale, verbale e non, e che condizionano fortemente i campi
della comunicazione umana.
L’interrogativo che ne consegue è il seguente: se è vero che la
comunicazione interpersonale è ciò che condiziona, in primo luogo, gli
atteggiamenti e i comportamenti dei singoli individui, perché i
fenomeni che ne conseguono non devono essere oggetto di primario
interesse da parte degli insegnanti e della scuola? Non è un caso,
infatti, che le interazioni verbali in classe costituiscano il tema di
uno degli ultimi capitoli del libro. Vi è una lunga tradizione nel
campo della ricerca psicologica, che fa capo a Jakob Levi Moreno (“la
sociometria”, l’analisi delle relazioni all’interno di un gruppo
rilevate con appositi test sociometrici), a Kurt Lewin (“la teoria del
campo”) e anche, se si vuole, a Eric Berne (“la psicologia
transazionale”), che offre innumerevoli spunti di analisi sui concreti
rapporti che si formano tra due persone, all’interno delle diadi (le
coppie), e dei piccoli gruppi, come la famiglia, i parenti, gli amici,
e, perché no?, le classi di alunni.
Va detto che è limitativo registrare soltanto le ricadute negative di
rapporti mal costruiti e male agiti dall’insegnante (“l’effetto
pigmalione”, “l’effetto alone” ecc., di cui parlano le note ricerche di
Robert Rosenthal); è produttivo, invece, analizzare con attenzione le
modalità delle interazioni verbali in aula, perché, dopo averle
opportunamente registrate, è possibile constatare le ragioni di certe
affermazioni o di certe risposte. L’autrice riporta l’esperienza di Ned
Flanders e le categorie che utilizza per rilevare i concreti
comportamenti dell’insegnante (quando accetta l'alunno, lo loda e
l’incoraggia, pone domande, espone argomenti, dà istruzioni, giustifica
o critica) e dell’alunno (quando risponde, assume iniziative, o crea
momenti di confusione o di silenzio); sui dati rilevati è quindi
possibile ravvisare dove l’insegnante ha assunto un comportamento
produttivo e dove invece non l’ha fatto. In effetti, ogni
professionista è tenuto a sottoporre costantemente a un accurato e
mirato autocontrollo il suo operato: se un paziente non guarisce, un
imputato è condannato, o un ponte crolla, il feed back è immediato!
D’altra parte, quando un alunno viene bocciato, la colpa ricade sempre
su di lui: non si è impegnato come avrebbe dovuto.
Non esiste, invece, anche una responsabilità dell’insegnante o del
sistema scuola così come è organizzato? Sono interrogativi che in
quegli anni tutti ci siamo posti e a cui la stessa ricerca della
Porcheddu vuole dare una coerente e giustificata risposta .
Il volume – come si afferma nella quarta di copertina – esplora
trent’anni di ricerche nel campo della comunicazione e dei linguaggi
che, tra gli anni Sessanta e Ottanta, hanno interessato l’intero ambito
delle scienze sociali, e hanno avuto il merito di provocare
interessanti ricadute non solo nell’ambito dei ricercatori, ma anche in
quello scolastico. Si tratta di ricerche e suggestioni che possono
essere, ancora oggi, di estremo interesse, proprio per le difficoltà
che stanno attraversando la nostra scuola e i nostri insegnanti. In un
momento in cui il web e tutte le sue applicazioni – negli anni Ottanta
ancora ai primi passi –, dai cellulari sempre più avanzati ai “social
network sempre più frequentati, hanno un impatto così potente sui
linguaggi dei giovani e sul loro modo di veicolare informazione e
apprendere, il libro della Porcheddu appare estremamente attuale. Anche
perché l’impressione è che su tematiche di questo tipo sia scesa una
sorta di cortina del silenzio e gli insegnanti sembrano essere più soli
che mai di fronte a situazioni comunicative sempre più sofisticate e
difficili, soprattutto in merito al rapporto tra nuove e vecchie
generazioni. Le stesse preoccupazioni per i test INVALSI non sono forse
il segnale di quanto una certa cultura della valutazione non abbia
ancora fatto breccia nel nostro fare scuola? Test che, del resto, anche
nella loro “confezione”, non sempre reggono a quella rigorosa disanima
che il docimologo è tenuto a fare. Insomma i segnali del disagio
investono certamente il fare scuola di ogni giorno, ma anche lo stesso
governo della scuola – o meglio “governante” – di cui la nostra
amministrazione ha, in primis, la responsabilità.
Vi sono quindi ragioni più che valide affinché il volume abbia un
numero più ampio di lettori (non solo fra gli insegnanti) e un successo
maggiore rispetto a quello già ottenuto a suo tempo!
http://www.educationduepuntozero.it/
redazione@aetnanet.org
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