Vittadini: cari docenti, siate maestri non funzionari
Data: Lunedì, 09 gennaio 2012 ore 07:30:01 CET Argomento: Opinioni
1. Investimento
in educazione e capitale umano: il punto di svolta nella crisi –
La parola “crisi” viene dal greco krínein (all’origine anche del
termine “critica”) e ha un significato in sé non negativo poiché
significa “distinguere”, “discernere”, “giudicare”. Una crisi può
essere infatti la premessa per una ripresa che oggi, dopo anni di
difficoltà, errori e inadempienze, sarebbe davvero auspicabile. La
prima considerazione che è importante fare in vista della ripresa è
che, nel nostro Paese, si sta continuando a fare l’errore di ritenere
la spesa per l’istruzione una spesa sociale e non un investimento. Al
contrario, tutte le evidenze economiche (purtroppo dimenticate
dall’orgia finanziaria ora in declino) mostrano che lo sviluppo è
legato, nel lungo periodo, innanzitutto al miglioramento quantitativo e
qualitativo del capitale umano. Uno studio di Robert Barro dimostra che
in media l’aumento di un anno di scolarità oltre i 24 anni accresce il
Pil di circa lo 0,44% all’anno. Per la scuola fino alla secondaria
superiore l’Italia non spende poco (siamo al di sopra della media
OCSE), ma spende male, soprattutto usando la scuola come un
ammortizzatore sociale. Le ricerche internazionali mostrano che non
esiste una correlazione positiva tra l’aumento della spesa e la qualità
dell’istruzione, mentre quest’ultima (certificata a livello
internazionale per esempio dai dati OCSE-PISA) appare legata
all’autonomia, alla creatività, alla possibilità di esercitare in modo
libero la professione
docente.
Il nostro Paese, in particolare,
povero di altre risorse, ha nel capitale umano la sua principale
ricchezza. Ricordo sempre che il miracolo industriale italiano degli
anni sessanta è stato reso possibile soprattutto dai “periti” che,
grazie agli istituti tecnici e professionali migliori del mondo e
grazie al loro desiderio di creare ricchezza e benessere, sono
diventati imprenditori e hanno trasformato un Paese povero e distrutto
dalla guerra a settima potenza industriale del mondo. Anche il liceo
italiano, basato non sul pragmatismo anglosassone, ma su un tipo di
conoscenza “per avvenimento” (metafisica e realista), è stato in grado
di formare una classe dirigente di livello. Siamo stati capaci di
creare nel dopoguerra un buon sistema dell’istruzione, sia nel settore
tecnico-professionale, sia nel settore umanistico, ma ora lo stiamo
buttando via e trascuriamo il suo nesso decisivo con la crescita.
Questo è il grave handicap italiano, che mostra come la crisi abbia un
fondamento innanzitutto culturale.
Per ricominciare seriamente a crescere, occorre riprendere la capacità
di educare le persone, fattore che è stato il vero punto determinante
della crescita di un Paese senza materie prime, senza forza politica,
per fortuna senza forza militare, con grandi disuguaglianze. Proprio il
“fattore umano” educato ha determinato la possibilità di uno sviluppo
diffuso attraverso la grande, piccola, media impresa (pubblica o
privata).
La crisi potrebbe essere un’occasione per riportare al centro il
sistema dell’istruzione come elemento cruciale della crescita del
nostro Paese, benché i politici, di destra e di sinistra, continuino a
considerarlo alla stregua di un “problema sociale”. D’altra parte,
proprio la centralità che assegnano al sistema dell’istruzione è la
chiave del successo dei Paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e di
altri Paesi emergenti (sarebbe interessante verificare in particolare
il loro investimento in istruzione universitaria superiore -master e
dottorati - dove noi, oltre a investire male, investiamo anche poco).
2. Il profilo dell’insegnante in tempo di crisi: due possibili errori –
In un contesto di crisi, l’insegnante sembra essere la figura in crisi
per antonomasia. L’ultimo rapporto Education at a Glance 2011 dell’OCSE
ha tracciato un quadro della scuola italiana in rapporto al contesto
internazionale ancora una volta tutt’altro che lusinghiero. In estrema
sintesi, ha detto che gli insegnanti italiani lavorano poco, sono
troppi e percepiscono stipendi bassi. Accanto a note negative, ci sono
però dati più lusinghieri. L’indagine conoscitiva Istat del 2007, per
esempio, attestava che il 78,3% dei docenti, potendo ricominciare,
avrebbe scelto di nuovo lo stesso lavoro per: il rapporto con gli
studenti (87,8%), la passione per l’insegnamento (23,2%), la
possibilità di mettere nel lavoro la creatività (10%), il rapporto con
i colleghi (8,2%). Tra i motivi di insoddisfazione più segnalati
compare al primo posto (23,1%) l’eccesso di burocratizzazione e solo al
secondo (18,7%) l’inadeguatezza della retribuzione. A fianco alla
situazione degli insegnanti c’è la crisi degli studenti: dai rapporti
OCSE-PISA più recenti si ricava che il 38% degli studenti italiani di
15 anni ritiene la scuola un luogo in cui non si ha voglia di andare.
Intravvedo due principali deviazioni nel considerare la funzione
educativo-formativa (la cui portata è ben espressa dalla definizione di
Jungmann resa celebre da don Luigi Giussani: “introduzione alla realtà
totale”). La prima consiste nel considerare l’educazione come un mero
problema di apprendimento, o addirittura di addestramento; in una
parola, considera l’educazione secondo un approccio utilitaristico; la
seconda è quella di enfatizzare il ruolo della scuola dandole una
funzione onnicomprensiva. Vediamole entrambe.
Nel progetto di riforma Berlinguer che precedette la riforma Moratti
c’era un passaggio, attribuito a Umberto Eco (1), che riduceva
l’educazione ad una mera funzionalità, cioè all’acquisizione di
competenze più o meno tecniche al fine di inserirsi nel mondo del
lavoro. In questo modo la persona non è considerata secondo tutte le
sue dimensioni e nella sua unicità. In realtà, oggi l’attività
produttiva non richiede solamente persone preparate, capaci e con
conoscenze specifiche, ma persone capaci di cambiare, che sappiano
adattarsi. Fate caso ai metodi di reclutamento e di formazione che
vengono utilizzati: spesso le persone vengono fatte sedere intorno a un
tavolo e viene chiesto loro di argomentare con altre persone; oppure
vengono utilizzate tecniche che assomigliano ai giochi che si facevano
da ragazzi per orientarsi in una situazione confusa e senza punti di
riferimento.
Ma anche se non fosse così, come si farebbe a persuadere un ragazzo che
è importante studiare la derivata se si occupa di funzioni, oppure le
crociate se studia storia, oppure che valga la pena fare educazione
fisica? Come faccio a far sì che l’apprendimento diventi strumento di
crescita, se il ragazzo non è interessato, non è attratto? Sono rimasto
molto colpito dall’osservazione di un mio amico giovane professore che
trovava i suoi alunni distratti. Mentre li richiamava esortandoli a
stare attenti, si è fermato e si è detto: “Ma qual è il contrario di
distratti? Non è “attenti”, ma attratti”. Allora si è reso conto che il
suo problema di fronte agli studenti consisteva nell’essere più
interessante, attrattivo. Per educare, per introdurre alla realtà
totale, occorre la capacità di attrarre, di provocare entusiasmo
(parola di origine greca che significa che qualcosa entra in te).
Oltre a non sviluppare la personalità dei ragazzi in tutte le loro
dimensioni, un’impostazione utilitarista non aiuta neanche in ambito
lavorativo. Una volta il cambiamento tecnologico nel mondo produttivo
avveniva ogni quarant’anni. Oggi l’obsolescenza è di 5 anni, perché i
cambiamenti tecnologici avvengono rapidamente. Allora, imparare una
tecnica, di qualunque tipo, senza la capacità di cambiarla
criticamente, fa “invecchiare” lavorativamente, molto in fretta. Per
questo non posso addestrare: devo introdurre, dare degli elementi
critici, suscitare la capacità di giudicare. Oltre che la vita, anche
l’azienda e tutto il mondo del lavoro oggi chiedono soprattutto questo.
Voi non andreste mai da un avvocato perché sa recitare alla perfezione
tutte le leggi: deve capire il problema che avete. Voi andate da un
medico che non vi sottopone solo a tanti esami, ma vi visita e cerca di
capire. Come fa mio padre che ha 89 anni e come medico non ha nessuno
alla pari, tant’è che va ancora tutte le mattine in ospedale dietro ai
giovani, gratuitamente, perché dice: “Bisogna rimanere aggiornati per
fare questo mestiere”. Un insegnante deve prima di tutto insegnare a
cambiare, non limitarsi ad addestrare.
C’è una seconda riduzione del processo educativo-formativo: è quella di
considerare la scuola come soggetto onnicomprensivo, sia nel sistema
statale che nella scuola libera; una scuola che pensa di dover essere
l’unico (oltre alla famiglia) vero soggetto educativo e per questo
ritiene di dover organizzare la vita del ragazzo, moltiplicando
attività, riempiendogli possibilmente i pomeriggi. La scuola non può
essere onnicomprensiva: i ragazzi hanno bisogno di qualcuno che susciti
il loro desiderio, non che organizzi loro la vita. Io capisco le
esigenze lavorative dei genitori, ma rimanere a scuola deve essere una
decisione libera e deve prevedere attività che non siano il
prolungamento delle attività didattiche. Invece noto che sempre di più
la scuola si pone come un soggetto educativo invadente che confonde
l’educazione con l’organizzazione del tempo libero, attraverso attività
di ogni sorta. Organizzare la vita a un ragazzo significa soffocarlo.
Purtroppo questa è l’ideologia che domina nella scuola pubblica
statale, in cui l’insegnante diventa un semplice ingranaggio di una
certa idea di scuola; ma questo è ciò che sta avvenendo anche in certe
scuole libere che organizzano momenti obbligatori come doposcuola o
vacanze, nella convinzione che una scuola libera cattolica debba
organizzare anche l’aspetto ideale o formativo della gente, ma sposando
in questo modo un’idea di educazione ossessiva, che non sfida, perché
non crede nella libertà dei ragazzi, e tradisce così il suo compito.
Le scuole cattoliche americane sono luoghi in cui si pianifica tutto,
ma dove poi si impedisce la crescita di qualunque attività associativa
o religiosa che non sia da loro organizzata, e questo provoca disagio.
Qualcosa che si scelga liberamente è diverso. Sono un grande ammiratore
del personaggio Tom Sawyer, protagonista del romanzo di Mark Twain Le
avventure di Tom Sawyer. In questo libro c’è un episodio che racconto
sempre. Tom Sawyer, all’ennesima marachella, è punito da zia Polly con
l’obbligo di dipingere la staccionata al sabato pomeriggio, quando gli
altri ragazzi vanno a giocare. Tom comincia a dipingere la staccionata
mostrandosi pieno di gusto, anche quando gli altri ragazzi lo prendono
in giro. Dopo un po’ gli amici, vedendolo così contento, gli chiedono
di poter dipingere anche loro, offrendogli in cambio tanti piccoli
regali, ma lui rifiuta. Alla fine Tom, con le tasche ripiene di
singolari omaggi, lascia tutti gli altri a dipingere e se ne va a
riposarsi sotto un albero mangiando una mela! Dipingeva così di gusto
che tutti volevano farlo al posto suo. Mark Twain commenta che ci sono
cose fatte per dovere, ma in modo pieno di passione, che affascinano e
appassionano, e al contrario ci sono occupazioni proprie del tempo
libero che, svolte per dovere, annoiano terribilmente (2). È molto
diverso stimolare un’attività dall’organizzarla. Quindi, educare è
introdurre alla realtà stando attenti a non ridurre l’educazione a meno
della sua portata, né a esagerarla.
3. Educazione: apertura alla realtà che suscita il desiderio – Abbiamo
visto come il primo obiettivo di un’educazione intesa come introduzione
alla realtà totale, è quello di aiutare i ragazzi ad avere un
atteggiamento di apertura nei confronti della realtà perché possa
essere destato il loro desiderio. Perché il ragazzo ha dentro qualcosa
che io non posso possedere. Il suo desiderio è fatto di qualcosa di più
grande di lui, di una forza – don Giussani la definisce esigenza di
verità, giustizia, bellezza – che è una risorsa che neanche lui sa di
avere e quanto meno la vive, tanto meno è attratto da ciò che ha
davanti. Allora, la prima sfida è che devo allearmi con questo
desiderio: fare in modo non di “organizzare” l’istruzione, ma che il
suo desiderio non sia ridotto. Leggendo Dante, mi colpisce – non sono
un esperto – che il poeta identifica il male con la riduzione del
desiderio. Perché un ragazzo non studia? Perché il suo desiderio è
ridotto. Educare il desiderio significa innanzitutto far nascere
un’attrazione per qualcosa che gli viene posta davanti. E per questo il
primo modo con cui si insegna e si propone un argomento è far percepire
sinteticamente, non analiticamente, il valore delle cose.
Faccio un esempio tratto dal mio lavoro: occupandomi di statistica
multivariata, insegno modelli il cui obiettivo è ricercare i nessi tra
variabili. Nei primi anni partivo, come fanno molti miei colleghi,
mettendo tutti gli ingredienti sul piatto: allora, questa è la regola
tal dei tali, poi c’è la legge, la teoria della stima... Vedevo che
questa impostazione alle classi di studenti faceva lo stesso effetto
che se gli avessi parlato dell’allevamento dei lama nell’alto Perù:
prendevano appunti, sperando di passare l’esame. Poi ho capito qual era
il problema: non facevo percepire loro sinteticamente lo scopo della
questione, il suo punto di interesse. Allora ho cominciato a parlare di
cose che all’inizio sembravano non avere niente a che fare con la
statistica, ma che erano più direttamente pertinenti alla loro
esperienza quotidiana. Un esempio che faccio soprattutto nelle classi a
maggioranza femminile prende spunto dalla descrizione di un reparto di
cosmetici di un supermercato. Quindi chiedo: “Voi che cosa comprereste
in un reparto cosmetici...?”. E comincio a dialogare con loro
invitandole a ragionare su quali siano i criteri determinanti che
inducono a comprare un certo prodotto di bellezza, la cipria, il rimmel
o cose di questo tipo. All’inizio sembra che voglia perdere tempo, poi
a un certo punto dico: “Certo, sarebbe interessante capire se le donne
esteticamente meno dotate comprano più rimmel delle altre! Potremmo
fare un’indagine a partire da questo fattore che viene preso in
considerazione all’ingresso del reparto... Questo è un modello
statistico, perché cerchiamo di vedere se c’è un nesso inverso tra
l’aspetto esteriore e la quantità di oggetti che una persona si mette
addosso”.
Capite che la cosa comincia a suscitare un certo interesse, viene fuori
il desiderio, magari in modo implicito... Per suscitare il desiderio
devi partire da una sintesi, devi partire dall’aspetto della realtà che
lo mette in azione. Invece di partire dall’analisi, che è il modo con
cui tante volte si insegna anche in università, bisogna partire dallo
scopo, allearsi col fatto che la curiosità ha voglia di trasformarsi in
sapere compiuto. Mi raccontava un’amica che insegna in un’università
americana in cui si respira un clima anticlericale, che le è capitato
di fare un corso sul tema delle crociate. I ragazzi erano bloccati
dalle idee preconcette da cui prendevano spunto ed erano poco
disponibili ad affrontare l’argomento. Lei, con calma, senza ribattere
in termini ideologici, si è limitata ad esporre una serie di fatti che
hanno permesso agli studenti di essere più disponibili ad approfondire.
Quando il desiderio viene suscitato, si esprime in domanda, e infatti
sono i ragazzi a chiederti di andare a fondo e continuare il dialogo. È
il famoso esempio che fa don Giussani ne Il Senso Religioso, quando
racconta che scrisse sulla lavagna “RAU”, e subito uno contestò: “Lei
fa sempre politica, perché questa sigla significa: Repubblica Araba
Unita”. Invece lui: “No, questa è una parola che ha un certo
significato in russo...”.
Il desiderio emerge, si mette in azione quando si esprime in domanda. E
come si fa a capire se si tratta di desiderio oppure di un sogno? Io
fornisco sempre un criterio: per essere vero il desiderio non deve far
fuori nulla di ciò che razionalmente esiste. Questa posizione
corrisponde a un concetto che ad esempio in statistica suona così: se
un modello nelle sue ipotesi, ancora prima di essere verificato nella
realtà, nega qualche principio razionale, vuol dire che è palesemente
falso, come nel caso in cui un modello porta a soluzioni non uniche
anche a fronte di medesime ipotesi. Il primo criterio per verificare se
il desiderio abbia una consistenza razionale è se non nega nulla di ciò
che si sa esistere. Se ciò avviene ci si può introdurre nella verifica
della realtà. Io voglio verificare se questo desiderio, che genera una
conoscenza non a priori palesemente falsa, regge nel confronto con la
realtà. Voglio verificare se l’impatto con la realtà conferma
l’ipotesi.
Perché questo accada occorre aver coscienza che la realtà supera sempre
quello che possiamo pensare. La realtà aiuta a vincere i pregiudizi,
come dimostra un esempio riguardante la scoperta del Big Bang che mi ha
suggerito un famoso astrofisico. Gli studiosi si sono accorti di un
suono di sottofondo nell’universo che dava fastidio, allora hanno
tentato di eliminarlo con dei filtri. Ad un certo punto a qualcuno è
venuto in mente che forse il rumore di fondo, invece che un disturbo da
eliminare, fosse qualcosa che valesse la pena indagare. Invece di
filtrare il rumore di fondo hanno filtrato i rumori soprastanti e hanno
cominciato a seguire questa realtà, e così hanno scoperto che quello
era il riflesso del Big Bang. Che cosa vuol dire tutto ciò dal punto di
vista didattico? Che se c’è qualcosa che non funziona non è perché
l’arbitro è venduto o la realtà è sbagliata, ma può darsi che l’ipotesi
con cui sono partito sia da cambiare. È lo stesso che dire: quando fate
dei modelli statistici e vedete degli errori che non sono distribuiti
in modo casuale, invece di sostenere che avete sbagliato, provate a
pensare se non ci sia un altro modello più pertinente con cui fare i
conti. Questa posizione parte dall’idea che la realtà che abbiamo
davanti contiene sempre qualcosa che è possibile scoprire.
4. Il percorso della conoscenza – Quindi, il desiderio suscitato
introduce nella realtà con una capacità di cambiamento. Questo mostra
che la conoscenza è un percorso. Oggi ho tra mano una realtà che domani
conoscerò in modo diverso. All’inizio ero terrorizzato dalla
complessità di certi aspetti della statistica, avendo avuto una
formazione economica e avendo approcciato la statistica solo
successivamente. Mi trovavo quindi inadeguato rispetto ad altri. Poi mi
è venuta in mente l’immagine del percorso, che cerco di comunicare agli
studenti, e che ha una traduzione nei termini di un detto lombardo:
“piutost che nient l’è mei piutost”, cioè “piuttosto che niente meglio
piuttosto”. Piuttosto che non sapere niente comincia a sapere qualcosa.
Infatti, sapendo qualcosa cosa fai? Magari vai da qualcuno e chiedi:
“Senti, mi insegni questa tecnica che non conosco? Mi aiuti a fare un
passaggio in più?”. Allora al ragazzo dico: “Non fermarti, sai poco, ma
invece di demoralizzarti perché non sai, pensa che la conoscenza è un
percorso!”.
All’inizio della mia carriera chiesi ad un ordinario di Diritto
canonico, ora in pensione, di spiegarmi come facevo a capire se andavo
avanti o no. Rispose: “Guarda, la conoscenza è come una montagna. Tu
devi verificare se in te questa montagna man mano cresce e non se
arrivi alla vetta!”. Questo consiglio contrasta con i due principi più
diffusi: “so già tutto” e “non so niente, quindi rinuncio”. La
conoscenza è un percorso: la realtà, che è misteriosa, si apre davanti
a te e pian piano il desiderio che hai dentro l’afferra sempre di più.
La conoscenza è una progressività e io ho imparato (e questo è stato
fondamentale nella mia carriera universitaria) a fare questo percorso,
a capire che se sono a metà, va bene, perché non sono all’inizio,
quindi posso andare avanti; però non sono neanche arrivato, allora mi
muovo, agisco, mi rimetto in azione. In questo è importante curare i
particolari, anche quelli apparentemente insignificanti e noiosi.
Questo punto posso esplicitarlo con un semplice esempio: la mamma che
adora il bambino, ma non gli pulisce il sederino è una mamma che non
ama il bambino. Infatti, se una mamma dice “che bello il mio bambino”,
ma non si alza di notte a cambiarlo, non gli vuol bene. Questo, dal
punto di vista dell’insegnamento, implica un’educazione al sacrificio
rappresentato dalle grammatiche inevitabili in ogni materia. Per fare
statistica, ad esempio, devo anche imparare cose elementari e noiose,
imparare cos’è una “media”, cos’è una “varianza”. Per far capire il
latino devo insegnare “rosa rosae”; per introdurre alla filosofia devo
insegnare a ragionare in un certo modo, ecc.
Ve lo dico ancora con un esempio che mi riguarda. All’inizio della mia
carriera, uno dei primi lavori di cui mi occupai si intitolava “Il
pendolarismo in provincia di Bergamo”; scoprii un algoritmo di cui ero
tutto fiero. Portai il lavoro al mio professore che mi disse: “Bravo,
molto bella questa cosa dell’algoritmo, però ascolta, a Calolziocorte
ci sono molti alberghi?” “Perché?” “Perche tu hai scritto che alla
mattina entrano in 100 e alla sera ne escono 20; quindi 80 rimangono lì
in albergo”. Figurarsi, avevo fatto l’algoritmo, ma non ero andato a
fare i conticini per controllare: io volevo essere uno scienziato!
Nella mia materia se dimentico un apice cambia tutto: il lavoro può
essere perfetto, ma diventa da buttare. Bisogna aiutare il ragazzo a
capire che nel percorso della conoscenza l’aspetto analitico ad un
certo punto (non all’inizio) è indispensabile. Bisogna fargli sapere
subito che quello che si sta andando a fare è una torta, ma poi deve
sapere che serve lo zucchero, il sale, ecc. Occorre sapere l’obiettivo,
conoscere i singoli passi per raggiungerlo e saperli realizzare. Questa
impostazione ha anche modificato il modo in cui faccio gli esami: oltre
che rispondere a domande teoriche, chiedo di risolvere un esercizio
dall’inizio alla fine perché voglio che gli studenti siano in grado di
verificare l’intero processo. E i ragazzi sono soddisfatti, ad esempio,
di saper usare un modello lineare dall’inizio alla fine e, magari in
modo rudimentale, di riuscire a interpretare dei dati di realtà. E alla
fine si appassionano di una cosa che potrebbe anche non servire per il
lavoro che andranno a fare, ma avranno conosciuto un pezzo di realtà.
Il percorso conoscitivo descritto ha una caratteristica: non è
solitario. Posto che io non sia né il più mediocre né il miglior
insegnante italiano di statistica, ho sicuramente una caratteristica:
ho attivato molte collaborazioni. Vi faccio un esempio tra i tanti.
Venne nel mio istituto, quando ero ricercatore, un professore di chiara
fama, chiamato dai miei capi, che dopo un po’ però fu isolato. Era un
argentino, aveva studiato in America, e cercava qualcuno con cui
lavorare in Italia, così mi propose di lavorare insieme a lui. Io
accettai, perché ero stato educato a vivere i rapporti come
un’opportunità, e quindi avevo e ho una naturale simpatia a mettermi
insieme e non ho il problema della gelosia. Questo docente mi fece fare
un percorso importante nella carriera. Questa cosa si è verificata
tante volte, perché di fronte alla possibilità di collaborare sono
stato educato a dire: “perché no?”. Se uno mi propone una cosa, anche
se non ha tutti i “denti bianchi” o magari è un po’ nervoso, io dico
“sì” e questo per me è il fattore più interessante della mia carriera.
Un secondo esempio: io lavoro molto con i giovani e vedo che uno che si
è laureato 20 anni dopo di me sa usare un computer o un pacchetto
statistico 50 volte meglio di me. Eppure il giovane non può fare quello
che fa se non ha l’esperienza che ho io. Allora mettersi insieme
diventa un’interazione anche necessaria. Per un insegnante è importante
condividere con altri il suo lavoro per arricchirsi. E invece questo è
un ambito in cui l’individualismo domina. Come nelle grandi università
americane in cui i professori non hanno bisogno di controllare se gli
alunni copiano, perché la competizione è a un punto tale che nessuno
lascia copiare. Io sono convinto che far girare la conoscenza, mettersi
insieme, non tenere per sé le cose prodotte, fidarsi, sia estremamente
più interessante. Me lo insegnò un amico finanziere, parlando del
distretto delle forbici di Premana (è una valle in provincia di Lecco
dove fanno la gran parte del fatturato mondiale di forbici). Mi disse:
“Sai, lì arrivano da tempo i giapponesi e poi i cinesi e fotografano
tutto per copiare. Solo che tutta la valle lavora insieme sulle forbici
e ogni giorno vengono fatte cose nuove...”. Questo esempio è indicativo
di cosa vuol dire usare il cervello ma anche mettersi insieme.
5. Problemi aperti e indicazioni per una scuola nuova – Uno dei
maggiori limiti che vive la scuola è la divisione tra cultura
umanistica e cultura tecnica. Una volta andai alla Piazza dei Mestieri
di Torino e vidi che i ragazzi erano impegnati in una gara di poesia;
allora osservai: “Ma perché fate perdere del tempo con la poesia ai
ragazzi che vogliono fare i parrucchieri o i pasticceri?”. Mi fu
risposto: “Noi formiamo delle persone, non delle capacità ed è
importante che chi si forma maturi un gusto, non solo una tecnica.
Inoltre, userà anche meglio una tecnica se avrà una migliore formazione
umana”. Inoltre, non tutti i ragazzi sono uguali, bisogna saper
diversificare. Nel romanzo Metello di Vasco Pratolini, c’è un brano in
cui il protagonista racconta di come al mercato gli capitò di trovare
un suo ex alunno, che lui aveva espulso, mentre vendeva la verdura. Il
giovane gli fece una tale lezione sulle verdure, che lui ne rimase
sorpreso e ammirato. Oggi noi, condizionati da una cultura massificata,
pensiamo che chi non frequenta il liceo sia meno capace o dotato,
mentre anche il percorso di una scuola professionale può aiutare la
crescita della personalità del ragazzo e la formazione delle conoscenze
e delle competenze che gli serviranno nella vita adulta. E valutare
questo percorso di serie B significa commettere l’errore di far
dipendere il valore di uomo da ciò che fa, oltre a non rispettare le
diverse caratteristiche dei ragazzi. Come insegnante devo saper
discernere, prendermi la responsabilità di capire per che cosa ciascuno
è fatto. In questo senso, occorre valutare il merito, l’eccellenza, la
differenza e aiutare tutti a fare il loro percorso. Di solito questi
due scopi – il merito e l’aiuto a tutti – vengono contrapposti. Per
esempio, in Italia c’è bisogno di più laureati, perché, rispetto agli
altri Paesi OCSE ne abbiamo pochi; ma questo non deve comprimere
l’eccellenza.
Tutti questi sono limiti che devono essere superati: la separazione tra
cultura umanistica e cultura tecnica; l’incapacità di discernere tra le
caratteristiche delle persone e l’antinomia tra valutazione del merito
e opportunità per tutti.
È sotto gli occhi di tutti come l’esperienza scolastica dipenda
soprattutto dall’iniziativa dei suoi insegnanti, da quanto siano in
grado di sviluppare pienamente un percorso educativo e didattico. Ed è
sempre possibile che ciò avvenga, ma le condizioni istituzionali
possono pesantemente condizionare tale processo. Da questo punto di
vista, la mancanza di autonomia della scuola italiana mortifica la
professionalità insegnante. Il centralismo burocratico impone delle
programmazioni tali per cui è difficile contemplare la diversità, ad
esempio, di ambiente o di esperienza, mortificando la libertà di
iniziativa degli insegnanti che tendono ad essere considerati degli
impiegati.
Parlare di autonomia non significa affatto sostenere il privato contro
il pubblico, ma sostenere uno strumento perché sia possibile sviluppare
diversificazione e libertà, sia nelle scuole statali che in quelle
libere, e valorizzare la professionalità degli insegnanti. Per questo è
fondamentale il tema del reclutamento. È impossibile costruire una
scuola autonoma e libera senza che il reclutamento sia a livello della
singola scuola. L’abilitazione accerta il raggiungimento di un certo
livello di preparazione, ma poi deve essere la scuola a poter scegliere
gli insegnanti che ritiene più adatti; occorre introdurre la
possibilità di selezionare in base al merito, perché questa è una
professione intellettuale ed è necessario avere la possibilità di
diversificare. Ed è importante che vengano introdotte autonomia e
capacità di competere tra le scuole, se no è come se una squadra di
calcio dicesse: “Prendo un centravanti che non segna gol!”. È evidente
che dove c’è competizione un discorso del genere non ha senso. Lancio
una proposta che può fare discutere: bisognerebbe poter far scegliere
ad un insegnante se avere un incarico a tempo indeterminato con uno
stipendio equiparabile agli attuali standard, oppure un contratto a
tempo determinato con lo stipendio più alto. Rischi di più, ma prendi
di più. Chi ha detto che l’unico tipo di contratto debba essere quello
a tempo indeterminato? Ritengo che sia meglio concepire l'insegnamento
come una professione liberale e, a fronte di rischi più grandi, cercare
pian piano soluzioni che permettono di guadagnare di più. È un insulto
che l’insegnante al massimo della carriera guadagni meno di un usciere
pubblico, avendo fatto il percorso di studi che sappiamo. Almeno che
sia lasciata la libertà di scelta, e questo però implica che il
percorso di carriera preveda una valutazione concepita secondo un
criterio e un percorso coerenti. Da questo percorso dipende la qualità
di un progetto educativo-didattico che non può essere garantita senza
alcuna valutazione, lungo tutta la vita professionale, o senza stimoli,
professionali o anche economici, come accade ora.
La nostra proposta di scuola e di insegnante, in questo periodo di
crisi, è una proposta di lungo periodo: dunque perché lottare lo
stesso? Per una ragione ideale: perché la funzione della scuola è
decisiva per lo sviluppo di una società e perché la libertà di
educazione è determinante per la qualità della scuola. Ho partecipato
al primo convegno sulla scuola nel 1987 a Roma. Aveva come titolo: “Non
di sole aule vive la scuola” e vide la partecipazione del Cardinale
Poletti. Sono passati 24 anni e potremmo costruire una squadra di
calcio con i ministri che sono passati (destra, sinistra, centro, alti,
bassi, uomini, donne); è cambiato poco, ma noi andiamo avanti perché
crediamo che la scuola sia il punto cruciale in una società e perché,
anche in una scuola con molte cose ancora da cambiare, è possibile
comunque educare e questo desiderio non è comprimibile. È ciò che vedo
con i ragazzi che in università cercano sempre più di costruirsi la
loro strada: “Professore, posso fare lo stage? Posso andare all’estero
a fare la tesi? Mi mette in contatto con qualcuno?”. I migliori hanno
capito che molto dipende dalla loro personale iniziativa e che non
devono aspettare che cambi il sistema. Penso che per noi valga la
stessa cosa.
Il testo è la comunicazione tenuta dall'autore, presidente della
Fondazione per la sussidiarietà, in occasione della Convention Scuola
di Diesse, Bologna, 15-16 ottobre 2011.
(1) «Si devono fondere meglio conoscenze e competenze: cioè il saper
fare qualcosa e il conoscerne la ragione. Se insegni a un ragazzo la
geometria di Euclide in astratto, lui può chiedersi perché imparare? Ma
se la spieghi in riferimento alle piramidi, allora, conoscenze e
competenze si saldano in modo giocoso». «Ma per fondere bene competenze
e conoscenza – ha spiegato Umberto Eco – ci devono essere grandi scambi
interdisciplinari, e cioè su un medesimo argomento gli insegnanti di
diverse materie devono fare lezione contemporaneamente. Sarà perciò una
scuola in cui forse due-tre insegnanti affronteranno, nella stessa ora,
il medesimo tema da prospettive diverse». «La scuola italiana – ha
osservato il professore – ha sulle spalle il peso di un’eredità
storicizzante che a volte rischia di far perdere il senso della
storia». «Sino ad una certa età – è la proposta – dovrebbe essere data
importanza soprattutto all’apprendimento delle emergenze della storia,
per poi passare alle sequenze storiche in modo rigoroso. Per esempio, a
proposito di guerre puniche, più che le date conta capire come mai i
romani hanno costruito navi diverse, con che tecniche, per passare ai
Vichinghi, a Cristoforo Colombo, fino alle differenze con “Luna
Rossa”». «Capire come funziona un acquedotto – ha detto ancora – può
essere più importante che ricordare la data della battaglia di Zama».
Da Il Corriere della Sera, 2 marzo 2000.
(2) «Tom si disse che il mondo non era poi così deludente, tutto
sommato. Aveva scoperto, senza saperlo, una delle grandi leggi del
comportamento umano… e cioè che per indurre un uomo o un ragazzo a
bramare qualcosa, bisogna soltanto far apparire quella cosa difficile
da ottenersi. Se fosse stato un grande e saggio filosofo, come l’autore
di questo libro, si sarebbe reso conto a quel punto come il Lavoro
consista nella qualsiasi cosa una persona sia costretta a fare, mentre
il Divertimento consiste in qualunque cosa quella stessa persona non
sia affatto costretta a fare». M. Twain, Le avventure di Tom Sawyer,
Newton Compton, Roma 2010, p. 35 (da www.ilsussidiario.net di
Giorgio Vittadini)
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