Se i professori sono da «deportare» in fabbrica
Data: Sabato, 07 gennaio 2012 ore 12:11:52 CET Argomento: Rassegna stampa
È singolare che nel
mondo imprenditoriale ci si sia innamorati delle teorie pedagogiche di
Edgar Morin, secondo cui la mente umana è «ologrammatica», le
discipline vanno dissolte in un calderone «sistemistico» e l'istruzione
deve curarsi del metodo (formare «teste ben fatte») e non delle
conoscenze. È un paradosso perchè Morin e il coetaneo novantenne
St´phane Hessel, con il libello Il cammino della speranza, si sono
messi alla testa degli «indignati» di tutto il mondo; propongono
l'insurrezione delle coscienze e quattro medicine: libertarismo, socialismo, comunismo ed
ecologismo; e di sfasciare l'assetto tradizionale
dell'istruzione con la pedagogia ologrammatica.
In un recente articolo sul Sole 24 Ore, Pier Luigi Celli riprende la
tematica moriniana e si scaglia contro le rigidità disciplinari e
l'astrattezza dell'accademia. Per uscire dall'empasse (sic) propone una
visione volta alle applicazioni industriali e, per i professori
universitari, ogni cinque anni un semestre di stage in azienda per
«capire come cambia il mondo del lavoro» e «rendere l'insegnamento
all'altezza delle sfide che attendono i loro
allievi».
A prima vista ragionevole. L'università però non è fatta solo di
economisti, ingegneri o medici (che hanno le loro aziende di
addestramento, gli ospedali). Che faremo dei professori di filologia
classica, di storia medioevale o di fisica teorica? Li spediremo in una
fabbrica di piastrelle o in un mobilificio? Come in un lapsus freudiano
emerge l'orizzonte mentale della proposta: tutto quello che non si
«applica» direttamente non esiste. L'istruzione anticoncettuale e
antidisciplinare piace a chi vede ciò che non è immediatamente
finalizzato a scopi pratici come ciarpame, e ridurrebbe l'università a
una scuola di formazione di addetti per le aziende, a spese dello stato.
Nessuno si sognerebbe di fare una proposta simile in un sistema
privatistico in cui ogni università agisce secondo un progetto il cui
successo è valutato dalla qualità dei soggetti formati. Una simile idea
(del genere campi di rieducazione da Repubblica popolare cinese) può
germinare solo in un contesto in cui avanza l'ibrido di un sistema
statale dell'istruzione governato da un'industria che persegue
interessi privati usando risorse e leggi statali.
Un ibrido mostruoso perch´ il sistema dell'istruzione risponde a
interessi molto più vasti di quelli aziendali e deve restare autonomo,
privato o statale che sia. Fa ridere il pensiero di certi accademici
americani a fare stage in azienda. Negli USA accade per lo più il
contrario: le aziende mandano nei centri di ricerca esperti a captare
idee utili all'innovazione tecnologica. Invece, la proposta nostrana è
unidirezionale: le teste da rifare sono quelle universitarie; quelle
industriali sono a posto e anzi in grado di ammaestrare. Non si sa se
ridere o piangere che si pensi così in un paese che ha demolito la sua
grande industria; come quella chimica, che era di livello mondiale, per
merito di un accademico come Giulio Natta. Ma va bene. Facciamo gli
stage, però prevedendo anche per gli imprenditori stage universitari.
Ho sperimentato coaching di storia della scienza per ingegneri
aziendali culturalmente sensibili e sarei felice di ricevere
imprenditori disposti a sentirsi spiegare che i più grandi sviluppi
della tecnologia sono stati ispirati da elaborazioni teoriche; senza
cui non vi sarebbe stata innovazione. N´ vi sarà, perch´ un paese senza
scienza di base - teorica, disciplinare, concettuale - e senza cultura
- anche umanistica - è destinato a finire in coda, per produrre solo
modesto bricolage tecnico e brevetti di risulta. (da
http://www.ilgiornale.it di Giorgio Israel)
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