Cultura, parola sconosciuta ai tecnici di Palazzo Chigi. Lontana l'idea di usare questa risorsa come volano per l'economia.
Data: Martedì, 13 dicembre 2011 ore 07:19:29 CET Argomento: Rassegna stampa
Nella manovra "salva
l'Italia ricca" a scapito dei soliti indifesi e senza potere: operai,
insegnanti, studenti e precari di tutte le professioni, la grande
assente per far ripartire il paese è la Cultura.
Nei pacati discorsi di Monti la parola Cultura non è mai apparsa, quasi
che l'Italia non fosse quello stato con la più alta concentrazione di
beni culturali. Pochi giorni fa Report ha strutturato una trasmissione
sui beni culturali evidenziando uno dei mali italici: l'incapacità nel
gestire musei e monumenti. Basta pensare alle migliaia di ville venete
che non sono riuscite a consorziarsi per formare un brand e quindi una
rete museale che determini il rilancio economico per un territorio in
profonda crisi produttiva. D'altronde l'abbecedario del bravo premier,
in Italia come in Europa, mette al primo posto il risanamento economico
senza voler coniugare i sacrifici richiesti ai cittadini con un
progetto di sviluppo economico che metta al centro la
Cultura.
In fondo Adriano Olivetti non ha insegnato nulla e non si può
certo pretendere dai ministri-professori che si mettano a studiare ciò
che l'imprenditore di Ivrea fece per la sua città, gli operai e
l'Italia. O che leggano l'Ordine Politico delle Comunità scritto da
Adriano nel 1945 sul tema del federalismo. Sarebbe una presunzione
pensarlo e pretenderlo da accademici che non hanno espresso nessun
progetto politico di comunità, città, stato.
Non capire che l'Italia può rinascere attraverso una gestione seria
della Cultura, come volano dell'economia nazionale, dalle
soprintendenze ai Musei, dalle Aree Archeologiche alle Biblioteche,
dalle Università alle scuole primarie è frutto di una miopia che va ben
al di là dello spread e del debito. Se questo offuscamento avvenisse
per colpa dei politici forse non ci faremmo caso, il fatto che siano
degli intellettuali è anomalo e preoccupante. Non occorre andare
lontano, basta vedere quanto è stato destinato dal governo francese per
il 2011-2012 al ministero della cultura diretto da Frédéric Mitterrand.
Le risorse sono pari a 7,4 miliardi di euro, di cui 124 milioni solo
per la ricerca culturale e ben 4,6 mld per libri, industrie culturali e
media. Ciò mette in luce la differenza abissale nel concepire la
Cultura tra i due paesi. La questione è complessa e riguarda il
rapporto tra cittadini e Stato, nella formazione del cittadino di
domani, nell'importanza che deve essere riconosciuta all'istruzione
perché solo attraverso essa i cittadini si possono evolvere
culturalmente e costruire un'Italia migliore. Ciò non verrà attuato
dagli italiani ma dai nuovi italiani quelli nati dagli immigrati che
alla fine, se ne avranno voglia e se glielo permetteremo, riusciranno a
essere molto migliori di noi. Solo loro avranno la forza di ricostruire
questo paese, troppo conservatore e troppo vecchio per cambiare.
Un paese incapace di costruire il proprio futuro guidato da schiere di
politici, vecchi e giovani, Pdl e Pd, Udc e Fli, che non hanno mai
messo al centro della loro azione la Cultura. Ciò può valere anche per
taluni intellettuali allineati al sistema dominante, che non hanno
avuto la forza etica di orientare le scelte politiche; come accaduto
per i protagonisti rivoluzionari della Meglio Gioventù, il film di
Marco Tullio Giordana, diventati, dopo il '68, parte di quel potere che
combattevano.
E' una sconfitta per tutti, per chi fa parte del mondo della Cultura e
per la politica nei confronti della tecnica che oggi ci governa. Una
tecnica che non costruisce nessun immaginario ma ci radica al presente
senza ipotizzare un futuro migliore che DEVE ESSERCI a partire dalla
Cultura. In questo modo dovremo porci una domanda che sancisce una
volta per tutte cosa vuole essere l'Italia? Dovremo smettere di
concepire lo Stato con logiche novecentesche basate su industrie
manifatturiere, acciaierie, agricoltura, non rendendoci conto che il
mondo è cambiato ma noi siamo rimasti a guardarlo senza adeguarci.
Abbiamo pensato che avremmo continuato a fare automobili, a coltivare i
campi, a spostare le merci su gomma, senza pensare di investire nella
manutenzione del territorio, nella gestione dei beni culturali, nella
tecnologia, nel rendere più attrattive e migliori le nostre scuole di
tutti gli ordini, per competere così e vincere a livello globale. Tutto
questo non è accaduto, forse è ora di cambiare partendo dalla Cultura e
considerandola come il vero motore dello sviluppo. Allo stesso modo in
cui Fanfani grazie al Piano Ina Casa, ricostruì e diede energia
positiva alla nostra rinascita del dopoguerra. (di Emanuele
Piccardo da http://rstampa.pubblica.istruzione.it)
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