Ai ragazzi questa scuola non piace.
Data: Domenica, 11 dicembre 2011 ore 07:03:32 CET
Argomento: Rassegna stampa


Ai ragazzi questa scuola non piace. Nemmeno ai docenti, se è per questo. Non convince, né tantomeno vince. E dunque?
Lo sapevamo che i ragazzi italiani (nel segmento della scuola media) sono i ragazzi ai quali la scuola piace meno al mondo? Lo supponevamo. Lo sapevamo che alle medie i nostri ragazzi vanno malissimo a scuola? Lo supponevamo e i test INVALSI (per quanto limitati, parziali, non contestuali, lo fotografano). Lo sapevamo che le punte di dispersione scolastica iniziano alle medie? Supponevamo anche questo.
Quest’anno tutte queste supposizioni, campanelli d’allarme e indicazioni sono messe nero su bianco nel rapporto annuale della fondazione Agnelli.
Il rapporto del 2011 è tutto dedicato al ciclo intermedio dell’istruzione,quello della secondaria di primo grado : 160 pagine di numeri e analisi che descrivono un fallimento. Analisi che derivano dall’esame incrociato di questionari distribuiti perlopiù ai nostri colleghi delle medie e dunque: ce lo siamo detti in faccia. Non c’è che dire. Dai questionari si evince anche che gli scontenti non sono solo i ragazzi:  1 professore su 3, alle “medie”, se può, scappa. Uno su dieci critica il suo mestiere e un maestro (o una maestra) su 4 delle elementari le considerano un disastro, anche se si tratta di un ciclo superiore e quindi una specie di traguardo a cui aspirare. Nulla, bocciate anche da loro.
 I ragazzi poi, impietosi: gli studenti delle medie sono quelli che in massa alla domanda “ti piace la scuola?” Rispondono un secco “No”, a differenza dei fratellini e sorelline più grandi o più piccoli.
Mi piace o non mi piace. Pollice verso o alto. E sarebbe il meno. Volendo.
Il vero problema è la ricaduta drammatica sui “successi scolastici”, anzi, sugli insuccessi. Se fino agli anni ’70 il fine della scuola media era assicurarne l’accesso oggi è assicurarne il successo. Ma così non è affatto. Le punte massime di dispersione scolastica come anche dei ritardi delle competenze e conoscenze hanno origine nella scuola media. Trovano humus e radici in quel “non mi piace” troppo sottovalutato. E anche le punte massime dei ritardi nei livelli cognitivi hanno ambiente favorevole tra quei banchi.
Il perché lo rintracciamo nei mille rapporti e nelle mille indagini, di cui questo in esame è solo l’ultimo nel tempo. Potremmo farne oggetto di dibattiti per giorni, ma sono analisi che hanno avuto ricaduta operativa, leggi provvedimenti nazionali di valore didattico e non economico, se non il famigerato taglio delle ore di italiano e di tecnologia, pari a zero tra i corridoi della scuola secondaria di secondo grado.
La prima e più macroscopica realtà della scuola media è: chi vi insegna  ha in media 50 anni (con l’innalzamento dell’età pensionabile la media si adeguerà verso l’alto). E’ entrato in classe in media 20 anni fa e senza nessuna preparazione didattica-pedagogica nella maggioranza dei casi. E’ stanco, demotivato (economicamente e moralmente) e frustrato. Non per il suo lavoro, che ama e svolge sempre con dovizia, ma per le condizioni in cui è costretto a svolgerlo. E’ è una precisazione da fare e che comporta una sostanziale differenza: si ama questo lavoro ma ci si sente impotenti nello svolgerlo per molteplici motivi.
Negli ultimi 20 anni (i venti anni che hanno davvero cambiato il mondo e le relative coordinate spaziotemporali) proprio in questo segmento, quello della scuola media,  non si è predisposto nessun impianto di aggiornamento didattico in servizio (cosa che incidentalmente è accaduta alle elementari, unica categoria di insegnanti che hanno ricevuto un aggiornamento unitario obbligatorio nazionale in occasione dell’introduzione dei moduli, e non è un caso: è il ciclo che funziona meglio, addirittura tra i migliori al mondo). I ricambi della classe docente si sono ridotti al lumicino, causa i tagli e il blocco delle assunzioni. Ne viene fuori un ambito bloccato dai fatti, non dalle volontà di chi vi lavora. Ammirevoli negli sforzi sovrumani i docenti quando cercano di fare da sé, ma la disciplina pedagogico-didattica non si improvvisa e non si risolve nemmeno nella “certificata esperienza di tanti e tanti anni” della maggioranza dei colleghi, e neanche nei corsi parziali ed estemporanei decisi dai singoli collegi dei docenti, per il semplice motivo che non funzionano. I risultati si avrebbero dal combinato disposto di esperienza e provvedimenti di formazione permanente qualificata.
L’aggiornamento va predisposto in modo unitario, obbligatorio e quindi gratuito, qualificante e generale a cura degli organismi centrali dello Stato, magari modulandolo a seconda dei contesti per macro aree. I docenti lo chiedono e nessuno tra i mezzi di informazione lo rileva: che vorrebbero aggiornarsi. Primo perché non interessa a nessuno saperlo: è più comodo e semplice fotografare i mali che non i bisogni. Se i successi scolastici non ci sono è molto più semplice individuare colpevoli dietro le cattedre piuttosto che analizzare e trasmettere le complesse e reali cause.   A scontrarci con genitori insoddisfatti e opinione pubblica che ci individua come colpevoli poi ci siamo noi, che vorremmo cambiare, studiare, migliorare, in una parola, vivere meglio, mannaggia.  Noi e i ragazzi.
E’ dunque possibile mantenere lo stesso metodo didattico per decenni, direi secoli? Quello della lezione frontale rigida, entrare in una classe oggi e ripiombare alla fine dell’800 con il gessetto, la penna rossa, il compito in classe e lo schema del“la lettera”da spiegare?(la lettera rientra nei programmi ministeriali, sfido chiunque a ricordarsi quando è stata l’ultima volta che ne ha scritto una, l’ha messa in una busta e l’ha spedita). Perché la prima a urlare nei corridoi potrei essere io, docente.
La lezione frontale , specie a quell’età, non funziona più, ammettiamolo con tutta l’umiltà e l’onestà mentale possibili. Non perché sono svogliati, maleducati, disinteressati. Ma solo e soltanto perché le abitudini mentali-spaziali e temporali sono oggi cambiate. E’ folle non ammetterlo. Specialmente in un segmento di età in mutamento vertiginoso.
Con tutti gli sforzi che si possono fare, se non “ci si adegua” (e sto semplificando moltissimo per non entrare in un settore ostico ai non addetti ai lavori) a quei mutamenti, e lo si fa in modo corretto, scientifico, professionale, si ottiene quello che abbiamo: risultati peggiori e massima dispersione. Specie nelle zone depresse del paese, là dove contesti familiari e sociali non suppliscono alla mancanza di motivazione personale: unica e universale molla nei processi di apprendimento. Si devono mettere in campo cioè strategie adeguate. Non possiamo inventarcele : vanno studiate, predisposte e messe in campo da direttive ministeriali. Le famose direttive nazionali della Scuola sono queste: non i grembiulini e le boiate che la Gelmini vi ha raccontato in questi anni.
Questo chiediamo: fateci studiare. Non perché non siamo bravi, ma per metterci nelle condizioni di essere efficaci (leggi successo formativo). Non solo efficienti (leggi assicurare il badantato a scuola). A questo dovrebbe finalmente servire il Ministero, non solo a dirci cosa non va e quanti siamo. Ma a dare strumenti unitari e aggiornati di formazione in servizio per rispondere alle rivoluzioni sociali  e culturali in atto. Rivoluzioni che non sono solo intorno a noi ma si sono verificate in modo ancora totalmente inesplorato e ignoto nelle sinapsi dei nostri ragazzi e dei nostri figli: i nativi digitali. Specie in viale Trastevere. Tutti lo dicono ma pochi si regolano di conseguenza: ci mandano le lavagne multimediali. I costi delle ricadute deleterie di questo stato di cose sugli insuccessi formativi chi li pagherà? Il risparmio sulle pensioni? Costi che non sono bazzecole, ma ritardi che influenzano le macroeconomie di scala e dunque da un lato prendi e dall’altro paghi persino di più senza mettere in rete i dati. Che tipo di “sfida dei saperi” potremmo vincere adesso armati della clava di Odissea nello Spazio?
Aggiornare i metodi. Non basta la lavagna multimediale: quello è uno strumento non un metodo, che sia chiaro una volta per tutte. Aggiornare i linguaggi e i tempi, persino gli spazi: ecco la cosa complessa.  Servono reti pluriambito per agire sulla scuola. Servono organizzazioni didattiche diverse, scardinamenti di metodi, togliere via la polvere di posizioni fisse da secoli: cattedra-banco. E non basta nemmeno l’Autonomia Scolastica delle singole scuole, rimessa in campo dal neoministro Profumo. Sono necessarie delle linee generali di indirizzo organizzativo e adeguamento formativo obbligatorie che solo i Ministeri possono coordinare e regolare qualitativamente e quantitativamente. Per far ciò servono risorse: ma vi posso assicurare in misura molto minore del nostro armamento bellico. Un tavolo tecnico pluriambito adeguatamente e qualitativamente alto con relativa messa in campo di azioni conseguenti di aggiornamento su scala nazionale costa meno di uno solo degli F-non so quanto appena acquistati [sono i cacciabombardieri F-35, n.d.r.]. E vi posso assicurare che sono armi ben più potenti per vincere le guerre che ci aspettano. Spero che lo capisca il Parlamento intero, non solo il sottosegretario del singolo ministero dedicato. Sono cose necessarie se ci mettiamo nei panni di un ragazzo. Possiamo finalmente prenderlo in considerazione, lo studente?
Se a un ragazzo la scuola non piace non è solo perché “è un lavativo”, se la trova estranea, ostile, “straniera” (perché parla proprio un’altra lingua), ed è così che la trova adesso, non è colpa di qualcuno in particolare, ma di un architettura di sistema sbagliatissima, tranne qualche oasi di eccezioni. Accade che non solo il ragazzo non impara un bel nulla (che è il fine primario della scuola), ma addirittura matura il rifiuto. La scuola fallisce. Con grande scoramento di noi docenti per primi che dobbiamo combatterci minuto dopo minuto con quel ragazzo e i suoi limiti e le sue potenzialità inesplorabili. E ciò accade in misura maggiore, ripeto, proprio nei luoghi in cui è necessario recuperare ritardi contestuali, piuttosto che amplificarli. E’ un rifiuto, quello dei nostri alunni, che l’Italia intera non può permettersi, non dico la sua famiglia o la mia scuola: l’Italia intera. Perché  fattore di sviluppo complessivo di una nazione sono i livelli degli apprendimenti e delle competenze.
E allora noi docenti ci chiediamo: perché gli ingegneri adeguano il loro mestiere ai tempi? I medici poi non ne parliamo e noi invece no? Perché queste resistenze (sempre più deboli comunque) da un lato per autoreferenzialità , quello del docente e dall’altra per complicità colpevole di non affrontare spese, lo Stato?
Ho semplificato molto i passaggi di un ragionamento complesso, ma solo per farlo arrivare a tutti: noi docenti non veniamo messi nelle condizioni di capire cosa va aggiornato e perché e come. Fosse solo per vivere in modo  adeguato il nostro mestiere, che senza strumenti e metodi adeguati diventa impossibile da svolgere. Per vivere meglio e senza le inevitabili frustrazioni che provocano quelle risposte di cui sopra: uno su tre di noi docenti dalle medie scappa. Non smentitemi  se fate parte dei due su tre che rimangono
Dal rapporto, e anche questo supponevamo, si evince che sono le discipline da “lezione frontale” ad avere la peggio: materie letterarie e scientifiche. Coincidono con gli insegnanti sicuramente “più bravi” ma maggiormente autoreferenziali (è così) e di età più avanzata:non è giovanilismo, è quotidianità e familiarità con strumenti, linguaggi e metodi aggiornati. Quelli refrattari a cambiar metodo, ad ammettere non le proprie inefficacie, o mancanze, ma l’inefficacia del metodo e dell’organizzazione. Ti rispondono “ha sempre funzionato e io sì che i ragazzi li conosco”. La stessa autoreferenzialità di certi genitori.
Basterebbe poco: lavorare sull’empatia. Specie a quell’età: prolungare il tempo scuola ma per modularlo con la didattica innovativa, con il cooperative learning, con i laboratori , quello che da sempre, senza saperlo, fanno i docenti delle “educazioni” artistica, musicale, tecnologica, motoria..ottenendo ovviamente risultati migliori, non perché “più bravi” ma perché più adeguati ai tempi e alle “empatie” naturali di quell’età.
Questo poco da farsi (che poco non è per le complessità che implica operativamente e teoricamente il concetto di empatia) è il molto da capirsi, specie nell’autoconsapevolezza del richiederlo con cognizione di causa. E i primi a non voler fuggire dalle medie saremmo proprio noi, gli insegnanti,  se ci divertissimo di più a insegnare. Ma io continuo a dire, e scusate se insisto: la scuola è un problema politico. Non affrontare in modo adeguato e non ideologico problemi seri come questo è un problema doppiamente politico.(diMila Spicola da http://laricreazionenonaspetta.comunita.unita.it)

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