E’ tempo di scelte coraggiose per la scuola
Data: Domenica, 27 novembre 2011 ore 12:00:00 CET Argomento: Rassegna stampa
Economia &
istruzione: un rapporto non facile da decifrare, che sta però nel
programma del «governo dei professori». Sono assai impegnativi i due
punti in proposito (sui 39) che abbiamo sottoscritto con
Trichet-Draghi: valutare le scuole e ristrutturare quelle «pessime»;
valutare i docenti e «premiare» quelli migliori. Sembra un proclama che
annuncia un conflitto insanabile tra le ragioni dell’educazione e
quelle del mercato. Ma forse non è così scontato. Vediamo perché. È
vero, gli economisti dell’istruzione sono inguaribili ottimisti e
mettono in relazione un più elevato livello di istruzione della
popolazione con la ricchezza di un Paese e con migliori opportunità per
le persone.
Lavoro, salute, cittadinanza, dunque democrazia… sono connessi con una
buona formazione. Anche il nuovo Governatore della Banca di Italia,
Ignazio Visco, si iscrive con i suoi interventi di ieri, tra i fautori
di una decisa sterzata a favore dei giovani, di una loro migliore
istruzione, di un loro ingresso più «alto» nella società degli adulti.
Va riconosciuto che il «mitico» ufficio studi di Via Nazionale da un
po’ di anni insiste sulla questione ed ha pure espresso un apprezzato
presidente - Piero Cipollone - dell’Invalsi, l’istituto di valutazione
del sistema educativo italiano, spesso al centro di aspre contese con i
docenti. Il fatto è che da troppo tempo ormai la scuola (in generale,
l’istruzione, la ricerca, la cultura) è oggetto di politiche
restrittive, con un peso decrescente nella ricchezza nazionale. Solo il
4,8 % del Pil si muove verso l’education (rispetto al 6,1% dell’Ocse).
L’Italia è un Paese poco generoso con i giovani, la sua scuola, l’idea
stessa che la formazione sia un investimento piuttosto che una spesa «a
perdere». I cattivi risultati si spiegano, come pure gli alti livelli
di dispersione (un ragazzo su cinque viene tagliato fuori
dall’istruzione). Ma la scuola che fa per non perderli? Tagli,
indignazione, de-motivazione, rinuncia, sfiducia: questo è il circolo
vizioso che sembra paralizzare la nostra scuola ed il suo tormentato
rapporto con i decisori politici, con la società civile, finanche con
gli studenti ed i genitori… Ma non basta. È urgente «pensare»
diversamente alle nostre strutture formative, immaginare una scuola più
a misura di ragazze e ragazzi (senza indulgere nel giovanilismo!), che
possa essere vissuta anche dagli insegnanti come occasione di crescita,
di riscatto, di rinnovata credibilità. Di qui occorre ripartire per
riforme coraggiose, anche in una stagione dove le risorse pubbliche
saranno limitate, e andando oltre i facili slogan. L’impressione è che
gli adulti siano preoccupati soprattutto di difendere le loro posizioni
(si vedano i millimetrici spostamenti delle cattedre in una scuola
superiore immobile da decenni, che fa resistenza anche ai semplici
restyling), quando invece sono in gioco domande più radicali: a) devono
ancora esistere le classi, le cattedre, gli orari, le materie, i
compiti in classe, così come li tramandiamo orami da (troppi) decenni?;
b) hanno senso curricoli didattici talmente «ingessati» da non lasciare
neanche un briciolo di scelta ai ragazzi, poche possibilità di decidere
(almeno) una parte delle cose da fare, delle «materie» di cui
innamorarsi, a cui dedicare tempo ed energia?; c) possibile che le
nostre scuole siano ancora centrate su atrii anonimi, su corridoi
simil-carceri, su aule sempre più grigie, più spoglie, a volte più
sporche, quando ben sappiamo che ambienti di apprendimento, belli,
vivibili, conviviali, sono uno stimolo allo studio, alla creatività? Se
pensiamo ai giovani, alla loro voglia di mettersi alla prova, di
sperimentare nuove forme di autonomia culturale, geografica,
professionale, non ha molto senso confermare la sequenza: maturità a 19
anni, università lunga (con il ritmo triennio + biennio + master),
impietosa ricerca di una posizione precaria «qualunque». Forse a un
18enne italiano dobbiamo offrire qualcosa di più affascinante di un
anno dietro i banchi a seguire rassicuranti lezioni frontali. La
proposta più sensata sarebbe regalargli un biglietto chilometrico, per
proiettarlo nelle capitali europee, nei quartieri start-up ove si
inventano nuove imprese, dove si immagina un futuro creativo e
solidale, per una generazione che ha fame di «futuro». Dovremo forse
ridimensionare questa «vision» e accontentarci - magari! - di una
riforma della scuola che preveda comunque percorsi più intensi e
flessibili: a 18 anni si dovrebbe andare all’Università (accompagnati
dai propri proff. migliori), scegliere un percorso specialistico,
entrare curiosi nel mondo delle imprese e dei servizi, intrecciare lo
studio con vita e lavoro (come i giovani amano fare). È una scuola più
friendly, quella di cui abbiamo bisogno? No di certo, ma nemmeno solo
di quella che si misura con i test di apprendimento dell’Invalsi (forse
troppo magnificati nella lettera all’Europa e nel programma di
governo). Sappiamo che il nostro sistema educativo ha degli evidenti
limiti, visibili anche nei confronti internazionali (ma il nostro
«spread» negli apprendimenti misurati dai punti Ocse-Pisa è assai
inferiore a quello dei titoli di stato e certe regioni italiane vanno
alla grande). Qui ha ragione Ignazio Visco: un buon sistema di
valutazione deve andare a caccia di buone scuole, scoprire i fattori di
qualità, stanare pigrizie e zone d’ombre, proporre modelli virtuosi, di
scuole, territori, professionalità che già esibiscono indicatori
comparabili con quelli di eccellenza. Non si valuta per penalizzare,
per fare graduatorie, per distribuire premi (qui stanno alcuni limiti
delle contrastate sperimentazioni Gelmini sul merito), ma per
conoscere, capire, introdurre elementi di dinamismo nelle scuole, tra i
docenti, con i dirigenti scolastici. È necessario valutare, per non
perire, come afferma Norberto Bottani. Ben sapendo che le scuole, le
Università, gli istituti di ricerca - come certo ha sperimentato il
nuovo Ministro «rettore» - sono imprese collaborative, dove vince chi
gioca di squadra, chi crea «valore aggiunto», chi costruisce comunità
professionali proiettate verso l’innovazione, dove la convivialità e
non la competizione promuove l’eccellenza (quella che non dimenticando
l’inclusione). (di Giancarlo Cerini da l'Unità)
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