Dov’è finita oggi l’"autorità" degli insegnanti?
Data: Venerdì, 25 novembre 2011 ore 11:38:58 CET Argomento: Rassegna stampa
Un secolo fa Weber
si chiedeva “perché gli uomini obbediscono?” oggi la domanda è
rovesciata: “perché gli uomini non obbediscono più?”. L’autorità è
andata via, si è consunta e, un po’ per volta, si è delegittimata.
Probabilmente la prima a logorarsi è stata l’autorità fondata sulla
tradizione. L’autorità dell’eterno ieri è andata rapidamente scemando
quando le novità hanno spodestato le eredità, quando ciò che arrivava
si è rivelato non solo quantitativamente superiore, ma anche
qualitativamente più efficace rispetto a quanto già c’era. Un tale
processo non ha caratterizzato solo le tecniche di lavoro ma anche i
modelli di organizzazione politica ed economica che ne derivavano e che
sono stati hanno progressivamente messi fuori circolo dai nuovi
principi regolativi. Ancora oggi, quando si parla di crisi
dell’autorità, si tende a ritenere proprio la crisi di quanti
esprimevano competenze, regole e comportamenti di un universo che non
c’è
più.
Il quadro è diverso se si esamina l’autorità burocratico-legale.
Questa in realtà è ancora oggi estremamente rispettata, ma solo là dove
le organizzazioni sono funzionalmente connesse ad un processo reale di
qualificazione, selezione e controllo. Gli insegnanti che operano in
scuole professionalmente qualificanti, dove il prestigio del titolo
conseguito viene confermato da un immediato inserimento nel mondo del
lavoro o da un riconosciuto accreditamento presso gli istituti di
formazione superiore, possono contare su un rispetto sufficiente delle
norme e quindi della loro autorità. Il contrario si produce invece là
dove il prestigio del titolo è generico, quando non addirittura
francamente scarso e il collegamento funzionale con il mondo del lavoro
assolutamente aleatorio o comunque indipendente dalla qualità dei
risultati conseguiti.
Tuttavia quando si parla di crisi di autorità si indica qualcosa di
sostanzialmente diverso: la perdita di credibilità di per sé, cioè di
quella capacità di essere influenti e riconosciuti in relazione ad uno
stretto legame che lega le funzioni che si esercitano alla propria
persona. Ciò non accade ovunque ma solo in quei ruoli che, in parte più
o meno rilevante, si accompagnano ad una scelta vocazionale. Molte
autorità rientrano in quest’ambito: un sacerdote, ad esempio, non è
solo un “addetto al culto divino”, ma è anche una persona che, in un
modo del tutto specifico, si è consacrato interamente ad una precisa
missione nel mondo. Lo stesso avviene per chi è padre e, più in
generale, per chi vive la propria funzione in termini di scelta
vocazionale personale.
In modo più modesto ma non meno rilevante lo stesso educatore è
osservato come colui che ha compiuto la propria scelta professionale
sulla base di una decisione personale, fatta in relazione a valori
morali e civici più che ad interessi materiali.
Il mancato rispetto dell’autorità indica qui un mancato riconoscimento
proprio di questa componente vocazionale. Tutto si manifesta come se
chi svolge questi ruoli fosse percepito come qualcuno che si fosse
ritrovato a farlo in modo casuale. Un padre che non è rispettato è, in
primo luogo, un padre nel quale non viene riconosciuta la dimensione
vocazionale, un “padre per caso” che, indipendentemente dalla sua
volontà, si è ritrovato ad esercitare questa funzione e non vi ha
aderito che in modo formale e istituzionale, senza farla propria, senza
“sposarla”. Un insegnante che non è rispettato è, anch’egli, una figura
professionale nella quale non viene riconosciuta la dimensione
vocazionale, che è quindi “insegnante per caso” e avrebbe potuto
ricoprire qualsiasi altro incarico nell’amministrazione pubblica. Il
problema del mancato rispetto dell’autorità è pertanto direttamente
conseguente alla mancata visibilità della dimensione vocazionale
presente in tutti quei ruoli e quelle funzioni che in modo esplicito o
latente la presuppongono.
Ma è proprio qui il cuore del problema: da chi deriva il mancato
riconoscimento della dimensione vocazionale? Non sempre è colpa del
padre, del sacerdote, dell’educatore. Non sempre questi sono i primi a
porre in ombra la dimensione vocazionale giudicandola “troppo
ingombrante” a favore di una “professionalità” disincantata e
interamente rinchiusa nel profilo istituzionale. Molto più spesso è il
quadro sociale dei ruoli che interviene, a priori. È a priori che si
ritiene che un docente non abbia vocazione per il suo lavoro, un padre
non abbia la vocazione per il proprio ruolo e, almeno nel passato,
quando l’anticlericalismo era l’ideologia dominante, un prete non
avesse la vocazione ma occupasse il ruolo solo per ragioni strumentali.
Nella nostra società lo stesso termine di “vocazione” è in disuso. Ce
ne siamo sbarazzati molto rapidamente, come di un fardello morale
troppo pesante e concettualmente ingestibile, senza renderci conto che
era proprio questo che fondava la nostra autorevolezza.
Il mancato riconoscimento dell’autorità in questo caso è direttamente
speculare ad un’invisibilità della dimensione vocazionale, cioè di quel
richiamo del “cuore” che è alla base di tutte le manifestazioni
dell’autorità e le sorregge. Quando manca, oppure non viene visto,
oppure non viene riconosciuto resta solo il ruolo formale, la funzione
ricoperta, e questa non basta né può bastare. (di
Salvatore Abbruzzese da Il Sussidiario)
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