Insegnamento della letteratura nei licei e all'università, una crisi di civiltà
Data: Sabato, 22 ottobre 2011 ore 03:00:00 CEST Argomento: Rassegna stampa
Non mi pare che il
professor Giunta sollevi solo il problema dell'introduzione di un
numero chiuso nelle facoltà umanistiche. Credo che la crisi di cui egli
parla sia di proporzioni ben maggiori, direi immani, perché cela in sé,
mi pare, molti fattori fra loro intrecciati (in ordine crescente di
complessità): la necessità di un
ripensamento della didattica nelle facoltà universitarie umanistiche;
la creazione di una sinergia tra scuola superiore e università; una
crisi di identità da parte di chi insegna letteratura; una più generale
ridefinizione degli statuti epistemologici delle discipline
umanistiche, che mi paiono piuttosto smarrite nel mondo contemporaneo;
una - credo - vera e propria crisi di civilità.
A me, in ordine sparso, vengono in
mente alcune cose. Non ho la presunzione di proporre soluzioni
(ho alcune idee al riguardo, ma anche molti dubbi): mi limito a
individuare alcuni
problemi.
La cultura diffusa non si sostiene con la cultura diffusa, ma in primo
luogo con l'istruzione, dice il professore. Parrebbe contraddittorio
allora proporre il numero chiuso in quelle facoltà in cui,
teoricamente, si insegna ciò che dovrebbe servire ad ogni uomo, a
prescindere dal suo impiego e ruolo sociale. Supponiamo però di
introdurlo. Come risolvere il problema della "cultura diffusa"?
Qualcuno propone il modello americano: negli Usa, anche all'università,
ci si continua a formare su tutto il fronte delle conoscenze, per cui
anche il futuro fisico o biologo dovrà seguire un corso di filosofia o
"liberals" (è risaputo, ma lo si legge ancora una volta nel pamphlet
della Nussbaum, che giustamente non piace al professore, perché intriso
di tante buone intenzioni e fin troppo politicamente corretto). Ma
quel, diciamo così, correttivo, negli Usa è necessario perché hanno
scuole secondarie di contenuto assai generalista e livello francamente
basso. Se in Italia, partecipi in questo di una più generale tradizione
europea, non abbiamo finora avuto bisogno di quel correttivo, è perché
abbiamo una scuola secondaria dove la formazione è assai più solida
(che bello, a questo proposito, il libretto di Lucio Russo, La cultura
componibile, che difende il "vecchio liceo" e il greco, lui
scienziato). Peccato che le sirene del mondo anglosassone siano sempre
attraenti ed ogni volta che ci si siede intorno a un tavolo per
decidere "che fare?", la parola d'ordine sia "fare come in America"
(talvolta si aggiunge anche "Inghilterra", per il gusto di una
spolverata di "good old Europe" e per non sembrare troppo
filoamericani). Se "fare come in America" significa trasfomare le
nostre scuole secondarie in modelli (magari peggiorati) delle loro,
avremmo bisogno di un buono psichiatra, perché forse siamo affetti da
manie suicide.
Negli interventi del ministro Gelmini sulla scuola, fra le macerie dei
tagli, che rendono ridicola la parola "riforma", si intravede tuttavia
un piccolo lume di logica, ed è una logica aberrante: primo, riduzione
del latino nei licei scientifici (senza un aumento vero del peso della
matematica: rispetto al PNI, bellissima sperimentazione, che potenziava
l'impianto tradizionale con più matematica, informatica, scienze e
fisica, le ore di matematica sono diminuite); secondo, licei senza
latino (essendo questo una materia caratterizzante il profilo liceale,
una contraddizione in termini. E - ci crederete? - vanno forte, perché
il latino spaventa ed è roba vecchia che non ha più senso studiare);
infine, introduzione della "geostoria" (sic), ovviamente per un
ammontare di ore inferiore alla somma delle precedenti ore di storia e
geografia. Tutto ciò tenuto insieme dall'idea di fondo che un liceo con
meno umanesimo sia un liceo più al passo con i tempi. L'arte, la
letteratura, la filosofia, la storia, intesi come zavorre, di cui certo
non liberarsi, ma comunque decisamente alleggerirsi. Colpi bassi sul
corpo di quel tipo di scuola che ci ha consentito di difendere, sempre
più a fatica, una "cultura diffusa". Se domani anche il liceo smarrirà
definitivamente la sua identità, dubito che avremo migliori studenti
universitari. Insomma, se oggi gli studenti che escono dal liceo
sembrano meno solidi del passato, si ricordi che si può ancora
peggiorare, e molto.
Tutto bene fin qui, allora? Ovviamente no. Difendere il valore del
curricolo del liceo tradizionale e la sua impostazione umanistica non
significa difendere ciò che difendibile non è più. C'è una quantità di
pratiche ormai inerziali che infesta l'insegnamento. E non mi riferisco
alle singole pratiche di singoli docenti (ce ne sono di bravi e perfino
ottimi), ma di un'inerzia di sistema e di costumi tradizionali, che in
ogni caso influenza anche i migliori. Mi limito a parlare della sola
letteratura e di uno solo dei dogmi didattici ereditati e mai
decisamente e con coraggio messi in discussione: nel biennio, analisi
dei generi letterari (narrativa in prima, poesia e teatro in seconda),
con gli strumenti di dissezione forniti da narratologia e
strutturalismo; nel triennio, storia della letteratura, di impostazione
desanctisiana e crociana. Insomma: ai ragazzini più piccoli "strumenti
d'analisi del testo", oggettivi e sempre validi, senza storia, perché
"prima bisogna saper leggere qualsiasi testo, poi, eventualmente, avrai
il diritto di gustare ciò che di grande è stato scritto sugli eterni
problemi dell'uomo" (in parte anche vero, ma non è un assoluto); ai
ragazzi più grandi, finalmente, l'ingresso nel sancta sanctorum dei
Padri e del Canone. (di Daniele Lo Vetere da
IlSole24Ore)
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