Scuole al margine. Un'aula in meno nel sud Italia significa ragazzini nelle mani della criminalità
Data: Mercoledì, 05 ottobre 2011 ore 10:00:00 CEST Argomento: Rassegna stampa
È il 13
maggio 2006. I circa 800 studenti dell'Istituto superiore statale
“Rosario Livatino” sono costretti a fare lezione in giardino, perché
nella notte alcuni vandali hanno allagato i locali dell'edificio,
spargendo immondizia ovunque e gettando la foto del “giudice ragazzino”
- ucciso dalla Stidda agrigentina il 21 settembre 1990 - tra i rifiuti.
Per tutta risposta l'allora dirigente scolastico Aristide Ricci, in
accordo con il corpo docente, decise di rispondere a quel messaggio
introducendo durante le ore di italiano, storia e diritto l'”ora di
legalità”, un modo per togliere il terreno da sotto i piedi ai clan
della camorra, che nel triangolo San Giovanni-Barra-Ponticelli detta
legge, basti guardare – tanto per tornare alla stretta attualità – alla
festa dei Gigli del quartiere di Barra, trasformata già da qualche anno
nella “festa del boss”[1]. Come di stretta attualità – ne parlavamo lo
scorso 21 settembre proprio su queste pagine[2] – è l'appello lanciato
da Eugenia Carfora, dirigente scolastico dell'istituto comprensivo
Raffaele Viviani di Caivano, dove gli alunni passano quasi tutto il
tempo in giardino ad ascoltare musica perché non ci sono abbastanza
professori (ne mancano all'appello diciassette) per fare lezione. Ad
ascoltare musica e guardare come si scalano le gerarchie
camorristiche.
E di professori, alla scuola italiana, ne mancano
più o meno ventimila, tagli che rappresentano la terza parte di un
piano di licenziamenti – quello previsto dalla legge di stabilità del
2008 – che in totale, tra docenti e personale amministrativo, ha
cancellato centocinquantamila posti di lavoro.
Solo quest'anno, per fare un esempio, in Lombardia saranno tagliate
2415 cattedre, 2234 in Campania, 1878 in Puglia e 1093 in Calabria,
come ricordava Rocco Vazzana dalle pagine del settimanale “Left” di
qualche settimana fa[3].
I tagli, ogni anno, sono indiscriminati. Colpiscono tanto i licei più
importanti delle grandi città del Nord quanto le piccole scuole della
periferia degradata del Meridione, dove l'unica presenza – visibile –
dello Stato, per citare l'incipit di “Cattivi guagliuni”, il nuovo
singolo della 99 Posse, è negli «alveari di cemento»[4] con cui ne è
stata realizzata l'urbanistica.
Ma la differenza è molto più ampia, perché tagliare una cattedra in una
scuola di periferia, o magari in una scuola “di frontiera” come
l'istituto Viviani, non corrisponde solo al numero di ore di
insegnamento che vengono sottratte. Tagliare una cattedra in questi
istituti, quelli che si ritrovano a fare i conti con le piazze di
spaccio e con la dispersione scolastica, significa di fatto lasciare –
o lanciare, dipende dal grado di imputazione che si vuol dare alle
istituzioni - ragazzi di 13-14 anni nelle mani della criminalità
organizzata.
Ventottopercento. Che lo Stato abbia derubricato la scuola a semplice
“centro di spesa” lo si capisce – tra le tante – anche dai numeri. Come
scriveva il 20 settembre scorso l'agenzia Redattore Sociale, infatti,
il 28 per cento degli edifici scolastici italiani non raggiunge gli
standard minimi di sicurezza. «Meno di una scuola su due fra quelle
monitorate» - scrive l'agenzia - «possiede il certificato di agibilità
statica. Il 42% delle scuole del campione (88 edifici monitorati in 12
regioni, ndr) si trova in zona sismica e lo stato della manutenzione
lascia piuttosto a desiderare. La percentuale è quasi la stessa nel
caso della certificazione igienico-sanitaria, presente solo nel 40% dei
casi. Il dato più grave è quello relativo alla certificazione di
prevenzione incendi: ne è provvista soltanto poco più di una scuola su
quattro (28%)[5]». Volendo leggere questi dati non solo nel loro senso
strettamente numerico ma anche da un punto di vista simbolico
l'importanza che le istituzioni danno alla scuola (ed al comparto
“cultura” in generale, ma questa è un'altra storia...) è evidente. E,
sempre sul piano simbolico, questo si traduce nell'idea che la scuola,
tutto sommato, non serva poi a molto.
Li chiamano “drop out”, “fuoriusciti”. Sono quei ragazzi che dovrebbero
stare a scuola e invece non ci vanno. Save the children calcola che
siano circa 800mila ogni anno, per lo più maschi (60%) compresi nella
fascia di età 13-17 anni[6]. Ogni anno questa fuoriuscita costa allo
Stato circa 3 miliardi solo di costi diretti. Soldi che, naturalmente,
potrebbero essere utilizzati diversamente.
La dispersione – che è definita come “insieme di fattori che modificano
il regolare svolgimento del percorso scolastico di uno studente” - si
registra maggiormente tra le scuole medie e i primi anni delle
superiori (in cima alla classifica gli istituti professionali) e quelle
del Meridione. Le cause che portano gli adolescenti a lasciare la
scuola sono le più svariate, da forme di nuova povertà dovute alla
crisi economica a fattori quali bocciature, espulsione dal contesto
scolastico per “troppa vivacità” o situazioni familiari difficili. Per
avere un'idea del fenomeno basta rivolgersi, ancora una volta, alla
televisione, dove film come “Io speriamo che me la cavo” (1992, regia
di Lina Wertmüller) od “'O professore” (2008, regia di Maurizio
Zaccaro) spiegano egregiamente cosa rappresenti la scuola in un
contesto a rischio.
Un contesto come quello di Parco Verde, tredici piazze di spaccio ed
un'economia che gira intorno alla droga. Per questo la dirigente
scolastica, dalle pagine dei giornali, aveva invitato a non presentarsi
«solo per aumentare i punteggi in graduatoria», rimanere un anno e poi
andarsene verso altri – e più tranquilli – lidi.
Un contesto nel quale il ruolo dell'insegnante non è semplicemente
quello di riuscire a tenere la classe attenta su lezioni di italiano,
matematica, storia o geografia. Nelle scuole delle aree a rischio il
primo compito di un insegnante è quello di far capire che il modello
alternativo a quello scolastico – quello, cioè, dei ragazzi che vendono
le “bustine” davanti alla “Viviani”, ad esempio – è un modello sul
quale non ha senso investire. Per questo non è pensabile che ai ragazzi
iscritti in queste particolari scuole si presenti un insegnante diverso
ogni anno scolastico. Bisogna, in ultima analisi, rispondere ad un
modello valoriale di un certo tipo – che porta con sé una ben
determinata architettura simbolico-identitaria – con un altro archetipo
simbolico-identitario nel quale la scuola, o comunque la cultura,
dovrebbe essere il punto principale.
La scuola della seconda occasione. Una necessità simile non può
considerare la scuola semplicemente come un edificio in cui
parcheggiare ragazzi e ragazze per sei/otto ore al giorno o un
“diplomificio”. Deve essere qualcosa di più. E quando le istituzioni –
dal governo centrale a quelli locali, in correità – sono assenti,
bisogna sperare in qualche buona pratica individuale. E capita, alle
volte, che a Napoli i miracoli non li faccia solo San Gennaro.
Nel 1997, ad esempio, tre maestri – Marco Rossi-Doria, Cesare Moreno e
Angela Villani – con l'aiuto del Comune allora guidato dalla giunta
Bassolino, decide di mettere su un progetto, “Chance” il nome scelto,
per arginare la dispersione scolastica. I media, così, iniziano a
chiamarli “maestri di strada”.
«I docenti che lo attuano devono avere un orario flessibile, essere
insegnanti di matematica che sanno fare sport o parlare di pittura o
modellare la creta e parlare in dialetto e amare il territorio dove
lavorano» diceva Rossi-Doria in merito. Il tempo passato, però, non è
un refuso. Perché – come nella peggiore delle tradizioni italiane – lo
scorso anno, a settembre 2010 [7], il progetto è stato chiuso. In
dodici anni era riuscito a togliere dalla strada e dai tentacoli della
criminalità organizzata circa seicento ragazzi dei Quartieri Spagnoli,
di Soccavo e della zona Barra-San Giovanni, tanto da essere studiato in
tutto il mondo per gli ottimi risultati ottenuti.
Non tutti quei ragazzi saranno arrivati alla laurea, ma molti hanno
ottenuto la licenza superiore, che in quelle zone è praticamente
un'utopia. Ma neanche questo, tutto sommato, è il punto più importante,
quello di cui andare orgogliosi. Ogni ragazzo uscito da quella che i
maestri chiamavano “la scuola della seconda occasione”, infatti, ha la
possibilità di coinvolgere potenzialmente centinaia di altri ragazzi
tra parenti, amici e conoscenti. Centinaia di ragazzi che a loro volta
possono coinvolgere altre migliaia di ragazzi nelle loro reti di
conoscenza e così via, togliendo – anche semplicemente in termini
quantitativi – ragazzi che la camorra coopta come manovalanza.
Chi, evidentemente, non andava orgoglioso di questi risultati sono
state proprio le istituzioni, che anno dopo anno hanno tagliato i fondi
necessari. Ogni roboante arresto che passa in televisione ha dunque ben
altro peso se si tiene conto di aspetti come questo. Perché tagliando
progetti come “Chance”, per ogni boss il cui arresto passa al
telegiornale ci sono tanti ragazzi che vanno ad aumentare le fila dei
“muschilli”.
Quell'ultimo articolo. «”Mini-corriere” della droga per conto della
nonna: dodici anni, già coinvolto nel “giro” dell'eroina. Ancora una
storia di “muschilli”, i ragazzi utilizzati per consegnare le bustine.
Questa volta ad organizzare il traffico di eroina era una
“nonna-spacciatrice”. Era lei a tenere le fila della vendita con altre
due persone ed il nipote». Questo è l'incipit dell'ultimo articolo di
Giancarlo Siani, comparso su “Il Mattino” il 22 settembre 1985[8], a
poche ore dall'omicidio.
Quella del “muschillo” (“moscerino”, in italiano) è la prima, seppur
fondamentale, tappa della gerarchia dell'organizzazione criminale.
“Muschilli” infatti, ormai è chiaro, sono i minorenni ai quali la
camorra fa spacciare la droga. Vengono “comprati” da un motorino
regalato, da un paio di occhiali o qualche capo d'abbigliamento –
firmato, of course – che arriva ai primi lavoretti.
E con i primi lavoretti arrivano anche il rispetto, l'onore e quel
modello “vincente” che oggi – grazie ad istituzioni miopi e media che
esaltano il non saper far niente – scuola e cultura non danno più. Ed è
interessante notare come quella che sempre più appare come una nuova
guerra di camorra si stia configurando – anche – come una guerra
“generazionale”, tra la vecchia guardia degli Scissionisti (Ciro
Nocerino, ucciso lo scorso 26 settembre nel quartiere Barra [9] era uno
dei fondatori) e quella che viene definita “la cupola degli under
20”[10]. E se a 20 anni la camorra ti fa “capo”, vuol dire solo una
cosa: che l'età d'ingresso si è abbassata ancora di più.
«Para combatir a la mafia, hay dos tipos de “aulas” que no pueden ser
ignoradas: el búnker y la universitaria» scriveva Silvia Ragusa su “El
Mundo” lo scorso 13 settembre [11]. «Per combattere la mafia ci sono
due tipi di aule che non possono essere ignorate: l'aula bunker e
l'aula universitaria». Un'immagine meravigliosa. Un'immagine che,
ancora una volta, lo Stato pensa bene di smontare, delegittimando le
“aule-bunker” e svuotando – con i tagli alla sicurezza o
all'istruzione, come ben sappiamo – quelle universitarie. Ma questa,
naturalmente, è un'altra storia...
* Il blog di Andrea Intonti: http://senorbabylon.blogspot.com/
( di Andrea Intonti, blogger- da Pd)
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