Nuovo apprendistato contro lo spreco di capitale umano
Data: Domenica, 25 settembre 2011 ore 10:00:00 CEST Argomento: Rassegna stampa
Cresce in
Italia il numero dei giovani che non studiano e non lavorano. Anche per il fallimento della laurea
triennale. Una soluzione potrebbe essere la formazione tecnica
universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche:
una riforma a costo zero per le casse dello Stato. L'università,
insieme a un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un
corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea
dello studente nelle aule universitarie e in azienda. Controlli
reciproci garantirebbero la qualità della formazione.
Con Turchia e Messico, l’Italia vanta il primato tra i paesi
Ocse nella percentuale di giovani Neet (Neither in Employment, nor in
Education or Training), non occupati, né in istruzione formale o
formazione. È un fenomeno in aumento: negli ultimi anni abbiamo
assistito a un forte incremento della disoccupazione giovanile e, al
tempo stesso, ad un preoccupante calo delle immatricolazioni
universitarie, diminuite del 10 per cento in tre anni. Una delle
ragioni del calo è il fallimento delle lauree triennali. Molti giovani
hanno paura a imbarcarsi in un percorso di studi che potrebbe durare
fino a dieci anni e provano a entrare immediatamente nel mercato del
lavoro pur con basse qualifiche, contratti precari e bassi salari. Al
tempo stesso, le imprese hanno ridotto gli investimenti in formazione
dei giovani che entrano in azienda.
UNA RIFORMA A COSTO ZERO…
Una riforma a costo zero per le casse dello Stato è quella di
introdurre la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole
di specializzazione tedesche, le cosiddette Fachhochschule. Ciascuna
università, anche sede periferica, in accordo con un certo numero di
imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale
caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in ateneo. Metà
dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il lavoratore
sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli
reciproci fra università e impresa sulla qualità della formazione
conferita al lavoratore che ridurrebbero fortemente il rischio di
abuso. Benché retribuito, il lavoratore non avrebbe alcun diritto
automatico a entrare in azienda.
Il rapporto tra università e ingresso nel lavoro è oggi affetto da una
specie di circolo vizioso. Il sistema universitario è spesso accusato
di preparare studenti poco adatti a entrare nel mondo del lavoro. Il
mondo delle imprese, a sua volta, è accusato di non valorizzare le
competenze apprese in università. Le indagini campionarie rivelano che
in Italia il cosiddetto mismatch, la mancata corrispondenza fra le
qualifiche acquisite nel corso di studio e quelle richieste dalle
imprese, è nettamente più alto che negli altri paesi europei, a
eccezione del Portogallo. La presenza di contratti a tempo determinato
e l’alta percentuale dei giovani che entra nel mercato del lavoro con
un contratto a progetto rafforza il circolo vizioso perché riduce gli
incentivi delle imprese a fornire formazione in azienda ai nuovi
arrivati, dato che vengono assunti con contratti a scadenza e dunque
non si investe sulla durata del rapporto di lavoro. Bisogna rompere
questo circolo vizioso incoraggiando, a costo zero per le casse dello
Stato, un ingresso formativo nel mondo del lavoro. Ma prima di
illustrare nei dettagli la nostra proposta è utile richiamare cosa è
stato fatto a riguardo negli ultimi due anni.
L’APPRENDISTATO CONFEDERALE DI SACCONI
Nel luglio 2011 il Consiglio dei ministri ha approvato una “riforma
dell’apprendistato” presentata come il principale canale di ingresso
nel mondo del lavoro dei giovani italiani. L’idea della riforma è
quella di demandare alle parti sociali, attraverso la contrattazione
collettiva, la definizione di specifiche clausole contrattuali legate
alla formazione e all’inserimento contrattuale e presumibilmente anche
la gestione dei percorsi formativi. La legge approvata si limita a
stabilire la durata dell’apprendistato in tre anni e a individuare
quattro tipologie di apprendistato: i) quello per la “qualifica e il
diploma professionale” per gli under 25 con la possibilità di acquisire
un titolo di studio in ambiente di lavoro; ii) quello “di mestiere” per
i giovani tra i 18 e i 29 anni che potranno apprendere un mestiere o
una professione in ambiente di lavoro; iii) quello di “alta formazione
e ricerca” per conseguire titoli di studio specialistici, universitari
e post-universitari e per la formazione di giovani ricercatori per il
settore privato; iv) quello per la “riqualificazione di lavoratori in
mobilità” espulsi da processi produttivi.
Il problema centrale di ogni contratto di apprendistato è assicurarsi
che abbia davvero contenuto formativo. Nella pratica molti contratti di
apprendistato vengono utilizzati solo come strumenti per ottenere più
flessibilità e minori costi del lavoro. Non è casuale che la quota di
assunzioni con i cosiddetti “contratti di formazione e lavoro” sia
fortemente diminuita in Italia da quando si è permesso un maggiore
ricorso ai contratti a tempo determinato e al parasubordinato.
Il governo affronta il problema chiedendo di fatto ai sindacati di
normare e monitorare i contratti di apprendistato. Ma il sindacato in
tutti questi anni avrebbe già potuto monitorare la gestione di questi
contratti da parte dei datori di lavoro e verificarne il contenuto
formativo. Non lo ha fatto probabilmente perché non ha la forza, la
presenza in tutte le aziende, per farlo. E forse non è neanche capace
di farlo. I sindacati da anni gestiscono corsi di formazione finanziati
dal Fondo sociale europeo. E l’esperienza è tutt’altro che
incoraggiante.
E GLI ISTITUTI TECNICI SUPERIORI DEL MIUR
Nello scorso maggio il Miur ha introdotto gli Istituti tecnici
superiori, un passo utile per avvicinare mondo della formazione e mondo
delle imprese. Gli Istituti tecnici superiori rappresentano un corso
parallelo a quello universitario e sono fondazioni costruite da scuole,
università e imprese. Si tratta indubbiamente di un’iniziativa
interessante, ma nella nostra idea si dovrebbe dar vita a veri e propri
corsi di laurea. Non servono altre fondazioni. Ne abbiamo fin troppe in
Italia. Le università, probabilmente, sono poi restie a creare percorsi
paralleli a quelli universitari. I trienni specializzanti devono invece
offrire una prospettiva a quelle sedi universitarie che non raggiungono
la massa critica che loro permette di attivare corsi di biennio o
superiori di qualità.
IL CONTROLLO RECIPROCO FRA AZIENDA E UNIVERSITÀ
La verifica dei contenuti formativi forniti dall’azienda dovrebbe
invece venire affidata a chi ha come compito istituzionale proprio la
formazione. La riforma del governo dimentica del tutto l’università. È
un errore molto grave. Vediamo come è possibile creare una
collaborazione e al tempo stesso un controllo reciproco fra imprese e
università nella gestione dell’apprendistato.
Il sistema universitario italiano ha adottato, ormai da quasi un
decennio, il percorso universitario del “tre” più “due”. Secondo l’idea
originale della riforma, la prima laurea triennale generalista dovrebbe
essere seguita e conclusa dalla maggior parte di chi si iscrive
all’università, mentre la laurea specialistica dovrebbe essere
riservata agli studenti più meritevoli dal punto di vista accademico.
La riforma ha riguardato quasi tutte le discipline e tutti i paesi
europei, con l’eccezione della scuola di medicina e della laurea in
giurisprudenza, che hanno generalmente mantenuto la durata tradizionale
di 6 e 5 anni. Ad ogni modo, la laurea triennale avrebbe dovuto
permettere alla maggior parte degli studenti di entrare nel mondo del
lavoro. Così non è stato. Quasi tutti gli studenti iscritti alla
triennale proseguono con il biennio specialistico e il mondo delle
aziende non è riuscito ad accettare l’idea che la laurea triennale sia
sufficiente per entrare nel mondo del lavoro da laureato. È difficile
stabilire se la colpa sia del mondo delle imprese o del mondo
universitario, ma è evidente che il sistema scuola-lavoro, sulla laurea
triennale, non ha funzionato. Occorre quindi un nuova idea di
apprendistato.
IL NUOVO APPRENDISTATO UNIVERSITARIO
L’idea è semplice. Ciascuna università, insieme a un numero di imprese
localizzate sul territorio, dovrebbe istituire un corso di laurea
triennale di specializzazione tecnica. Lo studente lavoratore acquisirà
metà dei crediti del corso in azienda e metà dei crediti in università.
Sia le imprese che le università metteranno a disposizione un tutor che
seguirà il ragazzo in università e in azienda. Il ragazzo o la ragazza
saranno formalmente impiegati presso l’impresa con un contratto di
apprendistato della durata di tre anni, ma l’azienda non avrà alcun
obbligo di assumere il giovane con un contratto unico di inserimento
alla fine del triennio. Questo tipo di percorso è facilmente
realizzabile nelle discipline aziendali, in quelle bancarie e
assicurative, nelle discipline contabili, in giurisprudenza e anche
nelle amministrazioni pubbliche. E, a seconda della specializzazione
del territorio di riferimento, può essere introdotto in imprese
chimiche, elettroniche, bio-mediche, nelle scienze medicali, nel design
e nella gestione del turismo.
In Italia vi sono circa ottanta atenei, troppi. Molti non sono in grado
di fare ricerca. Non hanno la massa critica per farlo. Ma possono
garantire un buon livello di didattica. Ciascuno di questi atenei
dovrebbe stringere degli accordi con le associazioni di categoria e i
sindacati presenti sul territorio. Le imprese che aderiranno
all’accordo dovranno soltanto impegnarsi a prendere nella loro forza
lavoro un certo numero di apprendisti per anno. Ovviamente le province
dell’Italia centrale daranno origine a percorsi di specializzazione
tecnica diversi da quelli del Nord Italia e del Meridione. Si potrebbe
così instaurare una specie di federalismo universitario basato sul
rapporto impresa locale e università locale. Nel Mezzogiorno ci
potrebbe essere una specializzazione nell’industria turistica mentre in
alcune regioni settentrionali vi sarebbero corsi di apprendistato
universitario in meccanica e scienze biomedicali.
Un aspetto importante riguarda il contratto di lavoro del giovane
studente. Il contratto di lavoro in apprendistato universitario
potrebbe essere simile a un contratto a progetto o a contratto a tempo
determinato e non ci sarebbe alcun obbligo dell’impresa all’assunzione
in via permanente. Tecnicamente è forse solo necessario che il
ministero dell’Università e della ricerca autorizzi gli atenei a creare
questo tipo di corso di laurea. Spetterebbe poi alle imprese locali e
alle università organizzare i corsi.
Si possono anche fare delle stime. I grandissimi atenei potrebbero
facilmente organizzare una decina di questi corsi con bacino di circa
800 studenti per ateneo, pari a 80 studenti per anno in ciascun corso
di apprendistato. I piccoli atenei difficilmente ne organizzeranno più
di due o tre ciascuno. In questo modo si potrebbe arrivare ad avere
ogni anno 12-15mila nuovi giovani occupati in contratto di
apprendistato. A regime, e calcolando i giovani apprendisti su tre
anni, la riforma potrebbe portare i giovani occupati in apprendistato
intorno alle 50mila unità, un numero di occupati che avrebbe effetti
aggregati sul mercato del lavoro. Inoltre, dopo un triennio tra
università e azienda, le prospettive occupazionali di lungo periodo di
questi giovani sarebbero certamente migliori di quelle attuali. I
giovani, una volta laureati con il contratto di apprendistato
potrebbero poi entrare definitivamente nel mercato del lavoro grazie a
contratti a tempo indeterminato come il Contratto unico di inserimento.
(da http://www.lavoce.info di Tito Boeri e Pietro
Garibaldi)
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