Quarantacinque anni fa, il mio primo incontro con la scuola. Il vecchio docente racconta il vecchio preside
Data: Lunedì, 12 settembre 2011 ore 20:00:00 CEST
Argomento: Redazione


Agli inizi della mia carriera di insegnante di scuola superiore, non era ancora nata l’autonomia scolastica, né inventato il Dirigente scolastico; il preside si chiamava semplicemente signor Preside, era il capo d’Istituto e dava le qualifiche alla fine di ogni anno scolastico. Il mantra sessantottino, sbolliti gli iniziali eroici furori, stava per acquietarsi nel rosario laico dei decreti delegati, et amen! Così, fino quasi alla fine degli anni novanta. I.D.E.I e PON e POF, crediti e debiti, e tant’altre novità terminologiche d’importazione, sarebbero venuti molto tempo dopo a movimentare la routinaria vita degli insegnanti. Ma si era ormai nel nuovo nel nuovo millennio!
Tra i ricordi, solo il più emozionante e il più significativo, per me, della mutazione dei tempi attuali: quello del mio primo approccio col capo d’Istituto di un liceo classico, dove ero stato chiamato, fresco di nomina annuale. Metà d’ ottobre. Mi reco a scuola con grande anticipo, e col cuore in subbuglio.
Un attempato bidello claudicante, con sbadigliante cortesia, intuisce, a vedermi , il motivo della mia presenza, e mi indica a gesti la strada dritta che porta alla Presidenza . Busso. Entro con timore e tremore: la stanza è ampia e luminosa. In fondo, al centro della bianca parete, uno smilzo crocifisso di legno campeggia stanco, vegliato ai lati, da due foto istituzionali ingrandite in bianco e nero: Paolo VI, e Saragat, di fresco presidente della repubblica. In un angolo, a destra, accanto ad un armadietto stracolmo di libri, di vocabolari e di scartoffie varie, un tricolore sbiadito sonnecchia, aspettando giornate di gloria. La mia sbirciata ignora il suo vilipendio futuro e dice solo Sei bella ,o mia Patria, o mia bandiera. Un attimo di riflessione sospeso nel Nulla; poi un forte e deciso : Avanti, prego!, e come d’incanto, alta, non bella ma di gentile aspetto, e autorevole, dietro una lucida e poderosa scrivania color finto-noce, s’incarnò maestosa, dalla cintola in su, la figura del signor preside : fronte alta e spaziosa, da intellettuale, uomo navigato , esperto “ de li vizi umani e del valore”, capelli brizzolati, occhiali spessi sulla punta del naso, due fessure gli occhi, che sapevano di” sudate carte” di latino e di greco, e di versi d’amore e di gloria, e di superiore umorismo, più che di leggi, di comma e di cervellotici codicilli; sobrio vestito grigio- scuro, rigorosamente giacca e cravatta. Poi, un accenno di sorriso bonario, ma non da bonaccione, una specie di svirgolata di labbra, uno sguardo comprensivo e profondo, una sincera e calorosa stretta di mano mi dissero “Professore, la scuola è per chi la ama, senza amore nessun sapere si trasmette. Ti attende un duro impegno, e per giunta mal retribuito; educare i giovani non è facile, costa fatica, ma gratifica; non ti preoccupare, ce la farai se porti fiducia serietà impegno e umiltà nel tuo lavoro, come ce l’ho fatta io; nessuno nasce imparato, ognuno ha da apprendere da tutti. Il metodo? Io credo che chi sa lo trova dentro di sé quello adatto a trasmettere agli altri il proprio sapere; non pensare al programma, educa su misura, pensando alla centralità dell’allievo, alla formazione della sua personalità ,senza sciupare i talenti di alcuno; la cultura è tutto ciò che rimane dopo aver dimenticato tutto, insegnare è una donazione, atto di gioia, di onestà intellettuale , un piacere dello spirito, un dono d’amore e di cultura e un accrescimento reciproco. Ho fiducia in te.” Poi, accomiatandosi , m’aprì la porta e il suo sguardo da miope si tradusse “Si ricordi , professore, non è una programmazione a generare cultura, ma è la cultura a permettere una programmazione, non lo dimentichi, poiché è solo come uomo di cultura che potrà essere una “personalità” dotata di prestigio e di autorevolezza e di credibile ascendenza. Le auguro buon lavoro e una felice carriera.
Altro non ricordo, di quel mio primo giorno, e del mio primo capo d’istituto, se non che quando uscii da quella Presidenza rutilavano ancora dentro il mio cervello solo quello sguardo e quella stretta di mano e quegli occhi da miope che nell’accoglienza avevano significato per me più di tante parole , e di tanti pretestuosi e saccenti discorsi e consigli di pedagogia e di didattica e di docimologia.. Ma questo accadeva nel secolo scorso!

Nuccio Palumbo
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