Israel: vi racconto il
Data: Lunedì, 05 settembre 2011 ore 11:51:42 CEST Argomento: Opinioni
La complicata vicenda della formazione e del reclutamento dei nuovi
docenti, tema ampiamente dibattuto su questo giornale, ha visto
elementi di novità dopo la conferenza stampa del ministro Gelmini lo
scorso 31 agosto, quando la titolare di Viale Trastevere ha dichiarato
i «numeri» dei docenti che saranno immessi in ruolo dalle graduatorie,
e quelli relativi ai nuovi docenti da abilitare. Il dibattito offre l’occasione a Giorgio
Israel di fare con ilsussidiario.net un punto sull’intera vicenda, e
sui criteri che stanno prevalendo dopo le iniziali dichiarazioni
riformatrici, nella scrittura delle «riforme» della scuola e
dell’università.
«La politica ha manifestato la sua
debolezza di fronte a corporazioni, sindacati e tecnocrazie
ministeriali, cedendo alla logica della scuola come ammortizzatore
sociale» dice Israel. Il futuro? «Confesso di essere pessimista. Ci
vorrebbe un’inversione totale di orientamento che non appare
all’orizzonte...».
- Il ministro Gelmini, nella sua conferenza stampa del 31 agosto,
ha fornito una risposta ai molti dubbi - espressi da più voci anche su
questo giornale - sui numeri dei nuovi docenti e di quelli da assumere
sulla base delle graduatorie a esaurimento. Qual è la sua opinione in
proposito?
- Mi pare che il ministro abbia sciolto i dubbi nel senso di
confermare puntualmente le cifre e le scelte che hanno generato le
polemiche. Quindi, mi pare che nulla sia cambiato.
- Il punto di vista del ministro è riconducibile alle posizioni
formulate in una ormai nota lettera al Corriere del 24 luglio: ci
rifiutiamo di alimentare nei giovani false speranze, diceva, perché «lo
Stato non può creare artificialmente posti di lavoro che non esistono».
- La dichiarazione che «lo Stato non può creare artificialmente
posti di lavoro che non esistono» è coerente con l’atteggiamento del
ministro fin dalla soppressione delle SSIS viste come una fabbrica di
precariato e con la scelta di fissare dei tetti per le nuove lauree
magistrali per la formazione degli insegnanti e per il TFA (Tirocinio
Formativo Attivo), che ovviamente dovevano essere contemperati con
l’esaurimento del precariato pregresso. Noto tuttavia che in una
conferenza stampa di un anno fa (2 settembre 2010) il ministro
sottolineava che il problema precari era immenso, che «nessun Governo è
in grado di assorbirne 200 mila: prioritario è non crearne altri», ed
enfatizzava l’importanza del nuovo sistema di formazione iniziale.
- Davvero?
- Poi si è passato a parlare di esaurimento del precariato
pregresso nell’arco di 6-7 anni. Adesso si parla di immissione di tutti
nell’arco di un triennio - secondo le richieste avanzate con molta
durezza dai sindacati. E l’avviso a non nutrire troppe aspettative ha
cambiato destinatario: i giovani. I quali sono ormai un esercito in
attesa di circa 60.000 unità, ma privo di strutture organizzative che
lo difenda. È evidente che se il problema del precariato viene
affrontato in questi termini, i numeri per il nuovo sistema di
formazione non possono che essere esigui.
- La scelta politica è stata quella di privilegiare lo svuotamento
delle graduatorie a discapito dei nuovi percorsi abilitanti. Che ne
pensa?
- Penso che verrà assestato un colpo letale al rinnovamento
generazionale e culturale della scuola italiana, in barba a tutta la
retorica giovanilista che ci viene propinata da mane a sera. Mi chiedo
persino a che pro spendersi tanto a costruire un nuovo sistema di
formazione iniziale se alla fine la montagna partorisce un topolino.
Noto soprattutto che la prospettiva di una sostanziale chiusura
dell’accesso dei giovani all’insegnamento significa anche assestare un
colpo letale all’università: le facoltà che formano nuovi insegnanti
(soprattutto Lettere e le facoltà scientifiche) subiranno una drastica
diminuzione di iscritti, con quali conseguenze per la cultura
umanistica e scientifica di questo paese è facile immaginare.
- Tutti coloro che hanno chiesto un ricalcolo del fabbisogno hanno
sostenuto la distinzione di abilitazione e reclutamento, dicendo che
questo avrebbe rotto il circolo perverso del «diritto al posto».
- Questa distinzione ha ispirato il lavoro della commissione che ho
presieduto. In primo luogo, perché avrebbe consentito una maggiore
elasticità nei numeri: non si vede perché l’abilitazione debba
costituire la garanzia di avere un posto. Questa è una tipica malattia
italiana: ottenere la garanzia del posto fisso subito. Invece, prima ci
si abilita alla professione docente, poi, secondo modalità di
reclutamento definite a parte - concorsi, chiamata diretta, o altro,
non entro ora nel merito - si viene assunti. Ma c’era un’altra ragione
ancor più importante per tener ferma quella distinzione, e che spesso
non viene colta. In una situazione compromessa come la nostra, si
trattava di operare un taglio netto tra passato e futuro, creando un
nuovo sistema di formazione per il futuro, da mettere a regime in
totale indipendenza dalle eredità pregresse.
- E invece?
- Se si fossero mescolate le due questioni sarebbe subito iniziato
un lavorìo per risolvere al livello del nuovo sistema di formazione il
problema del precariato, corrompendone subito la qualità culturale e
gli intenti e lasciando che il passato afferrasse il futuro per i
piedi. Evidentemente, il problema del precariato esiste, ma è un
problema da risolvere in termini politici. La scelta dei «numeri» è
politica e non tecnica. Non sarebbe stato serio occultare e «risolvere»
a un livello falsamente tecnico un problema politico, che la politica
in prima persona ha il dovere di risolvere a viso aperto. Ma proprio
perché abbiamo impostato il problema in termini di formazione e non di
reclutamento è nato il problema dei numeri e la politica è stata
costretta a scegliere.
- E lo ha fatto a favore del precariato.
- Proprio così. Ancora una volta la politica ha manifestato la sua
debolezza di fronte a corporazioni, sindacati e tecnocrazie
ministeriali, cedendo alla logica della scuola come ammortizzatore
sociale. Come ha detto a Ilsussidiario.net Ernesto Galli Della Loggia,
non c’è futuro per un paese che continua a pensare che la cosa più
importante di tutte sia assumere decine di migliaia di precari.
- Ma come mai secondo lei la politica del ministero, dopo che
l’iter del Regolamento per la formazione dei docenti aveva lasciato ben
sperare, ha subito questa involuzione?
- No, è proprio l’iter del Regolamento che non ha lasciato ben
sperare: agli inizi sembrava di poter essere ottimisti, ma poi le cose
hanno preso una brutta piega. Per affrontare in modo equo la situazione
occorreva prefigurare un riassorbimento del precariato (con regole
meritocratiche) nell’arco di 7-10 anni e intanto avviare in modo
vigoroso il nuovo sistema, culturalmente più qualificato. Dopo tre anni
di pausa, un numero di circa 60.000 posti per i giovani laureati
sarebbe stato del tutto ragionevole. Per contemperare le due esigenze,
scontentando un po’ tutti, occorreva opporsi alle pressioni corporative
e sindacali, oltre che a prassi invalse nella gestione ministeriale. Ma
per questo occorreva una forza e una decisione politica che questo
governo da tempo non ha più, e che peraltro nessuno dei ministri
dell’Istruzione dell’ultimo ventennio (almeno) ha avuto.
- Anche alla luce del ruolo che lei stesso ha svolto, esaminando
tutto il problema con uno sguardo più ampio, dove sono stati commessi
degli errori, in quali passaggi e da parte di chi?
- Su questo punto vorrei essere chiaro una volta per tutte:
l’esperienza di un professore in contesti come questo è istruttiva e un
giorno conto di raccontarla in dettaglio, perché illustra bene come gli
interessi corporativi in questo paese sono capaci di demolire le
migliori intenzioni. Il ministro ci chiese di operare nel senso che
sopra ho descritto e in tempi rapidissimi, per non lasciare vuoti dopo
la soppressione delle SSIS. La commissione ha iniziato i lavori il 5
settembre 2008 e ha prodotto con inedita celerità un progetto di
regolamento consegnato il 24 dicembre 2008. Va riconosciuto agli uffici
legali del ministero di aver approntato la versione legislativa in
tempi rapidissimi: entro la fine di gennaio 2009. Poi è iniziato il
processo di consultazione di associazioni professionali e sindacati che
ha prodotto una mole enorme di critiche e suggerimenti che, per lo più,
hanno prodotto soltanto dilazioni perché si elidevano quasi tutte a
vicenda. Non entro nel merito, ma va detto che assieme a proposte
ragionevoli (come l’aumento delle ore di tirocinio) ve ne sono state
altre assurde e persino giuridicamente incompatibili con l’autonomia
universitaria. Ma l’aspetto più devastante è stata l’insistita
richiesta di saldare nuovamente la tematica del reclutamento a quella
della formazione e di introdurre una serie interminabile di modifiche
sia tese a difendere gli interessi di gruppi e camarille accademiche e
scolastiche formatesi attorno alle SSIS, sia a introdurre «norme
transitorie» volte alla difesa degli interessi del precariato. Va dato
atto al consigliere Max Bruschi di aver difeso in tutti i modi lo
spirito del regolamento...
- E poi cos’è accaduto?
- Questo è stato possibile fino a un certo punto, come testimonia
l’art. 15 del decreto, che costituisce un ammasso di norme transitorie,
spesso discutibili e incoerenti e che marca in modo evidentissimo lo
stravolgimento già avvenuto del progetto: basta mettere il testo
iniziale e quello finale l’uno accanto all’altro. Poi c’è stato il
calvario interminabile dell’esame da parte degli organi di controllo e
ulteriori richieste di revisione sempre dettate da esigenze di norme
transitorie. Va detto che anche il dibattito nelle commissioni
parlamentari è stato tutt’altro che agevole, poiché ha privilegiato
l’audizione di tutte le istanze contrarie al progetto: non un membro
della commissione è stato convocato... Così siamo giunti dall’inizio
del 2009 alla primavera 2011, per avere l’approvazione definitiva!
Quasi due anni e mezzo... Ma il colpo definitivo e letale - che mi
induce a rigettare la paternità del prodotto finale - è stato il
decreto attuativo dell’aprile 2011.
- Nel quale, professore?
- ...nel quale è stato introdotto l’obbligo di non attivare più di
una laurea magistrale regionale, mettendo assieme tutte le università
regionali, pubbliche e private chiamate ad individuarne una sola come
sede della gestione della laurea e, come se non bastasse, si è
prescritto che «di norma» anche il TFA doveva essere centralizzato
nella stessa università. Questo ha costituito uno stravolgimento totale
dello spirito del nostro progetto che mirava a superare il principale
difetto delle SSIS (che pure in certe sedi hanno avuto pregi, ma sempre
questo difetto), e cioè di essere nel totale controllo di gruppi
cristallizzati e autoperpetuantesi di docenti universitari e di docenti
delle scuole (nella figura di supervisori prorogati in eterno). Il
nostro progetto mirava a creare un rapporto agile, elastico,
decentralizzato, non burocratico tra università e istituti scolastici,
con l’intento di «costringere» tutto il mondo universitario a
coinvolgersi nella formazione (anziché delegarla pigramente ai soliti
noti) e creare un più vasto apporto da parte delle scuole, non più
ristretto ai soliti docenti distaccati a vita. L’intenzione era di dare
linfa e vitalità al sistema, di produrre un continuo arricchimento
culturale attraverso un’interazione ampia e non burocratica tra le due
istituzioni.
- Ma così non è andata: è prevalso il centralismo.
- Invece ora ci troviamo di fronte a una struttura il cui
centralismo accademico-burocratico fa impallidire l’autoreferenzialità
delle SSIS: tutto è in mano dei comitati regionali universitari e delle
unità scolastiche regionali, organismi troppo lontani dalla realtà
culturale e didattica delle università e delle scuole. E il fatto
curioso è che non si riesce a capire chi sia l’autore di un decreto
attuativo tanto assurdo e sconcertante. Quel che è certo è che si
tratta della rivincita delle corporazioni stataliste e centraliste che
- tipico male di questo paese - hanno preferito una guerriglia
vietnamita di tre anni, incuranti delle esigenze dei giovani laureati,
pur di non perdere le loro posizioni di potere. Non a caso ora si parla
addirittura di creazione di un ente analogo alla Codissis (la
conferenza dei direttori delle SSIS) e c’è persino chi vaneggia di
creare un ente nazionale unico per la formazione pedagogica degli
insegnanti. Si tenta persino di sterilizzare le novità culturali
contenute nelle tabelle delle lauree della primaria e delle medie
inferiori, convocando riunioni in cui si compilano «syllabus» che i
docenti sarebbero tenuti a seguire nei loro corsi. Altro che
statalismo... roba sovietica...
- Cosa si doveva fare per evitare il disastro che descrive?
- Esprimere una volontà politica abbastanza forte da far approvare
in tempi rapidissimi - sia pure accettando modifiche ragionevoli - il
regolamento in versione non stravolta. Ma voglio terminare con un
esempio della confusione dilagante. Giorni fa mi è stato chiesto perché
mai si sono previsti nella tabella della LM95 dei crediti obbligatori
di scienze naturali per i laureati triennali in matematica, e di
matematica per i laureati in scienze naturali. Si lamenta che questa
«rigidità» ora crei problemi a persone che in questo triennio si sono
laureate al di fuori delle nuove regole. Ma la domanda è: quale gruppo
di persone in stato di salute mentale potrebbe mai pensare di stilare
un regolamento nella previsione che non venga applicato prima di tre
anni?... E diciamo pure forse quattro o cinque, perché le circolari
ministeriali che impongono (ora) termini strettissimi di attivazione di
lauree e TFA non si accompagnano a nessun atto che prenda le misure
necessarie per consentire tale attivazione in modo concreto. I numeri
hanno ballato fino ad ora e non risulta che nessuno stia pensando a
organizzare le prove di accesso.
- La riforma più liberale e radicale sarebbe forse quella di
gestire la questione docente improntandola all’autonomia della
professione e del reclutamento. Un po’ quanto previsto dal pdl Aprea.
Che ne pensa in proposito?
- Vorrei essere chiaro in merito. Chi parla di approvazione del pdl
Aprea nello scorcio di questa legislatura gravata da problemi
gravissimi, vende favole e manifesta quel che molto probabilmente vi è
dietro tutta questa strana vicenda: il desiderio di affossare del tutto
la nuova normativa per la formazione iniziale, e di farlo rendendola
irrilevante. Tanto varrebbe dire chiaramente: abbiamo scherzato per tre
anni, buttiamo tutto alle ortiche e qualcun altro ci penserà, per
l’intanto facciamo una mega sanatoria dei precari che quantomeno serve
a rabbonire politicamente i sindacati, merce preziosa in questi tempi.
Reclutamento diretto da parte delle scuole? Per fare una simile
rivoluzione occorrerebbe valutarne tutti gli aspetti in modo serio e
responsabile, e soprattutto crederci, altrimenti siamo a una vacua
retorica aziendalista. Guardando a quel che è accaduto con la riforma
universitaria, mi pare che in fin dei conti si finisce col muoversi in
senso opposto, anche qui in piena subordinazione allo statalismo
ministerial-sindacale.
- Si è detto: liberalizziamo, le università assumono in piena
libertà, e poi le valutiamo dai risultati.
- Ma la riforma va in senso opposto, imponendo regole strette già
per l’idoneità nazionale, regole pesanti che tolgono qualsiasi
autonomia di valutazione alle commissioni. La neonata Anvur ha prodotto
direttive per le valutazioni, improntate alla più ottusa bibliometria,
non tenendo in alcun conto le osservazioni del Cun e del mondo
universitario (e le critiche che ormai piovono dall’estero nei
confronti di questi metodi). D’ora in poi, all’arbitrio delle
commissioni si sostituirà quello di regole quantitative cieche,
discutibili, e autorevolmente contestate. La valutazione diventerà roba
da burocrati e passacarte, calcolatori di h-index. Poi, come se non
bastasse, verrà la valutazione ex-post, anche questa con gli stessi
discutibilissimi criteri. Altro che «scegliete liberamente, poi vi
valuteremo». Qui trionfa la più occhiuta e opprimente burocrazia
statalista, forse perché ormai è uno sport nazionale dire che
l’università è la sentina di tutti i mali e quindi va commissariata in
ogni suo atto. Dovremmo allora credere che la scuola sia invece
totalmente esente da tutti questi mali, al punto da consegnare alla
corporazione dei dirigenti scolastici la libertà totale di assumere?
Andiamo... Non soltanto esistono anche qui mele marce, ma un singolo
istituto scolastico è una struttura piccola e ben più indifesa di
un’università.
- Sta dicendo che prevarrebbero logiche familistiche e clientelari?
- È facile immaginare cosa potrebbe succedere in certe zone del
paese, dove la criminalità organizzata scoprirà nella compilazione
delle liste di assunzione nelle scuole un altro lucroso giro di
affari... Certo, si può studiare come prevenire questi rischi, ma non è
cosa da prendere sottogamba cavandosela con la retorica dell’autonomia.
Di certo, prima di fare una cosa del genere il minimo è mettere in
piedi un serio, serissimo sistema di valutazione ex-post. Ma anche qui
le cose non promettono di andar meglio che con l’università. I primi
passi mossi in tale direzione, con i progetti sperimentali del
ministero, sono stati caratterizzati da leggerezza e superficialità e
c’è da preoccuparsi seriamente all’idea che vengano generalizzati. Si
apprende che è in cantiere un altro progetto sperimentale in cui la
valutazione degli istituti verrà affidata a commissioni la cui
formazione sarà a cura dei dipartimenti universitari di psicologia...
Al riguardo è curioso che non si senta la voce di coloro che si
scagliano quotidianamente contro la «prepotenza» dell’accademia
universitaria.
- Le cose da fare subito?
- Confesso di essere pessimista. Ci vorrebbe un’inversione totale
di orientamento che non appare all’orizzonte. Ci vorrebbe soprattutto
una fiducia nelle persone che valgono, la capacità di mobilitare le
forze vive e davvero appassionate a insegnare, che credono nella
cultura e nei valori e non si sono appiattite in una sterile
metodologia da «burosauri». La vera meritocrazia è valorizzare queste
forze, valorizzare la cultura e non i parametri. Questa è stata
l’ispirazione iniziale di questo ministero, mentre ora prevale la
subordinazione al corporativismo e alla tecnocrazia. Quando si apprende
che verranno spesi - negli attuali chiari di luna - un centinaio di
milioni per introdurre il wi-fi in scuole disastrate (vi sono scuole in
cui quando piove dal tetto occorre staccare le LIM...); quando si
apprende che la principale preoccupazione è spendere e spandere per
tecnologia ed editoria digitale (addirittura corredata di
videogiochi!); quando si leggono i tabulati dei ricchi compensi che
prendono certi «esperti» per formulare test insulsi; quando si apprende
che un dirigente ministeriale ha invitato gli insegnanti a stabilire in
modo friendly i rapporti con gli studenti attraverso Facebook...
dopo quel che è successo in Inghilterra... bene, cascano le braccia. La
via per ridare dignità alla funzione docente non è questa, non è
almanaccare marchingegni tecnocratici, fare retorica e mandare a picco
le riforme che privilegiano il merito.
ilSussidiario.net (lunedì 5 settembre 2011)
redazione@aetnanet.org
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