"Test Invalsi? Ecco i veri limiti". Perché la valutazione dell'invalsi puo' e deve essere sottoposta alla critica
Data: Mercoledì, 24 agosto 2011 ore 08:21:36 CEST Argomento: Rassegna stampa
Domenico Chiesa
è presidente del Forum regionale per l’educazione e la scuola del
Piemonte, un’associazione che raccoglie le 13 più importanti
associazioni professionali di insegnanti, dirigenti e scuole che
operano in regione. Inoltre coordina il servizio della provincia di
Torino “laboratorio del biennio”. L’ obiettivo è sostenere le scuole
superiori nell’assolvimento dell’obbligo scolastico fino a 16 anni, e
tra i settori di lavoro c’è quello del fornire strumenti per la
documentazione, il monitoraggio e la valutazione degli interventi
migliorativi messi in atto nella scuola superiore. E’ con lui che
parliamo dei test Invalsi, quest’anno proposti anche nelle scuole
superiori e che tante proteste hanno suscitato nel mondo della scuola.
Un dibattito interessante quello che si sta sviluppando,
macchiato però da chiusure, paure, ideologie contrapposte. La questione
della valutazione, invece, è un elemento cruciale per rimettere in moto
un processo positivo nella scuola italiana. Ma i limiti dei test
Invalsi sono certamente molteplici, e Chiesa propone in questa
intervista di aprire un dibattito e una riflessione approfondita su
questi limiti proprio per cercare di avviare un ragionamento sulla
valutazione scolastica
Quali sono secondo lei i limiti principali dei test proposti
dall’Invalsi? A mio avviso il problema principale è che la valutazione
non può mai essere slegata da uno scopo specifico. Se voglio valutare
qualcosa devo sapere cosa voglio valutare e dotarmi degli strumenti
coerenti. La valutazione, insomma, non può essere uno scopo in sé. Per
questo motivo non può essere valutata indipendentemente dallo scopo.
E qual è lo scopo dei test Invalsi?Questo è il problema: non è affatto
chiaro. Nella scuola, infatti, esistono tre scopi per valutare e ognuno
di questi ha una strumentazione e una procedura propri che sono
coerenti con lo scopo prefissato.
Quali sono questi tre livelli? Il primo livello è la valutazione
dell’apprendimento degli studenti. Esatto, direi che è questo lo scopo
dei test Invalsi. Ma allora non sono prove adatte a valutare queste
competenze, né nei contenuti né nel metodo.
E perché? Questo tipo di valutazione deve necessariamente essere
interna al processo di insegnamento- apprendimento. Deve essere
totalmente condivisa da studenti e insegnanti. L’insegnante, come
professionista, è quello che organizza i tempi e i modi di questa
valutazione, ma c’è un pieno coinvolgimento da parte dello studente che
è interessato al suo apprendimento. E’ una scuola malata quella che fa
della valutazione lo spauracchio o la ricerca della copiatura.
E’ chiaro che, a suo avviso, il metodo del test “calato dall’alto” è
già inadeguato allo scopo della “misurazione” delle competenze dello
studente. Ma vorrei capire più nello specifico perché ritiene le prove
Invalsi inadatte anche nel contenuto, poiché il parere di diversi
insegnanti è che si tratti di prove interessanti e stimolanti,
tutt’altro che nozionistiche. Anche io la penso così. Mi sono trovato
di fronte a delle prove di matematica molto belle, che richiedevano un
altissimo livello di ragionamento, di fronte alle quali, forse, anche
un adulto colto avrebbe avuto delle difficoltà. Faccio un esempio: si
chiedeva la somma di 10 elevato alla 37 con 10 elevato alla 38 (somma
di due potenze con la stessa base e diversi esponenti). Ora, per
risolvere questo problema è necessario mettere in atto un ragionamento
sulle potenze cogliendo e traendo conseguenze dal fatto che i due
esponenti sono numeri successivi e quindi… Bisognerebbe approfondire
valutando quanto questo ragionamento sia una vera competenza di
cittadinanza o la capacità di utilizzare la formalizzazione matematica
rimanendo però in ambito disciplinare.
Giusto, non è auspicabile? Certo che lo è, ma si tratta di ragionamenti
che dovrebbero essere svolti in classe, che richiedono la possibilità
di avere un’interlocuzione con l’insegnante, che non possono essere
utilizzate come “metro di misura” delle competenze di ragazzi che
frequentano professionali e licei, in periferia e nel centro città. La
valutazione sarebbe, senza dubbio, minata alla base. Quando si valuta
qualcosa bisogna utilizzare uno strumento adatto a quella misurazione.
Devo sapere che la corrente non si misura con il metro. Diverso è il
caso se quelle prove venissero spedite all’inizio dell’anno nelle
scuole e rappresentassero un modello con cui confrontarsi nel processo
di apprendimento. Questo lo troverei senza dubbio utile, e un elemento
di stimolo importante per i professionisti dell’insegnamento, cioè gli
insegnanti.
Passiamo al secondo livello di valutazione. Lo scopo di questo secondo
livello è la valutazione dell’unità scolastica. E questa valutazione è
condivisa da tutti gli operatori della scuola, dagli insegnanti al
dirigente, agli operatori scolastici.
E qual è l’oggetto di questa valutazione? E’ l’insieme delle variabili
che determinano i risultati dell’apprendimento. E che c’entrano gli
operatori scolastici, cioè i bidelli? E’ semplice: una scuola in cui
funzionano tutti i supporti alla didattica lavora molto meglio e tutti
i soggetti che operano nella scuola hanno una funzione educativa.
Ridurre il numero di operatori scolastici, ad esempio, non è un fatto
puramente economico. Ha delle ricadute sulla qualità della didattica.
Quindi si tratta di una valutazione del funzionamento, non
dell’apprendimento… No, si valutano tutte le variabili legate
all’insegnamento/apprendimento: la qualità del curricolo, la qualità
delle relazioni umane, e terzo la qualità del contesto ambientale in
cui avviene l’insegnamento-apprendimento, che coinvolge l’intero
assetto organizzativo dello spazio, del tempo, delle strutture che
rappresentano evidentemente il contenitore non neutro entro cui
l’insegnante insegna e lo studente apprende.
E chi è che valuta? La scuola stessa. Una valutazione di questo genere
dovrebbe stare dentro il piano dell’offerta formativa: sarebbe giusto
che la scuola a partire dalla valutazione della sua unità, si ponesse,
e li dichiarasse, degli obiettivi da raggiungere e mettesse in campo
dei processi per raggiungerli. La scuola, se ritiene il caso, può
dotarsi anche di competenze esterne per supportare la valutazione, ma
si tratta di una questione che fa parte del patto che la scuola fa con
il territorio di riferimento. In questo caso la valutazione ha uno
scopo preciso: migliorare la qualità dell’unità scolastica.
E il terzo livello qual è? E’ la valutazione di sistema. Questo è ciò
che indubbiamente è di responsabilità sovrascolastica, a livello
regionale, nazionale, internazionale: si valuta la scuola a livello di
sistema. Rettifico, dire che è questo l’obiettivo dell’Invalsi. E
invece no: perché l’Invalsi mescola questi tre piani. Non si capisce
bene fino a che punto sia una valutazione dello studente, delle scuole
o del sistema scolastico e sulla base di questa mancata chiarezza non
utilizza strumenti coerenti.
Ma come si misura un sistema? Non sono un esperto del settore, ma per
quanto ne so, la prima caratteristica di uno studio di sistema è che
tale valutazione avvenga su un campione e non sull’universo. Perché?
Proprio per evitare di mescolarsi con gli altri livelli di valutazione.
Per esempio le indagini Ocse-Pisa sono a campione? Esattamente, sì,
sono a campione. Quali sono gli aspetti positivi di un’indagine a
campione applicata a un sistema? Che risulta chiaro lo scopo: sto
valutando un sistema, non sto valutando un’unità scolastica, né uno
studente. Si tratta di un criterio fondamentale. L’invalsi è anche un
istituto che serve ad aiutare le scuole a fornirsi di strumenti, di
fornire un aiuto scientifico, per costruire dei sistemi di valutazione.
Se l’Invalsi vuole valutare il sistema deve trovare degli strumenti e
delle procedure adatti a questo specifico scopo. Valutare insieme
l’apprendimento dello studente, il processo di miglioramento di una
unità scolastica e l’insieme del sistema, non va bene. Come sempre in
Italia si parla delle cose in modo confuso e non si capisce l’obiettivo
e la sostanza di ciò di cui si sta discutendo. Si sollevano soltanto
polveroni.
Il risultato? Il risultato è che non ci sarà mai un confronto vero sul
tema della valutazione e sarà sempre più difficile attuare interventi
di valutazione coerenti. Il problema della scuola italiana non è nella
mancanza di una valutazione come fatto esterno e risolutivo. Quanto
piuttosto nell’avvio di un processo di innovazione che migliori i
risultati e che preveda anche le necessarie e adeguate forme di
valutazione.
E come si fa? Si fa operando sulle variabili che sono coerenti con il
risultato, che riguardano curricolo, relazione e contesto. La
valutazione, in ognuno dei tre livelli che abbiamo descritto, può e
deve svolgere un ruolo nello stimolo alla condivisione al
raggiungimento di un miglioramento. Lei insiste tanto sulla
condivisione, non capisco se è un atteggiamento “buonista”, un auspicio
perché le cose vadano meglio, oppure un preciso elemento affinché la
valutazione funzioni. Lo dico scientificamente: stiamo misurando un
oggetto sociale, non stiamo misurando un dato fisico. Stiamo misurando
delle cose che sono soggetto di valutazione e allo stesso tempo attori
di miglioramento. Se una scuola bara non è in un processo di
miglioramento. Perché gli studenti chiedono di copiare i test e gli
insegnanti glielo permettono? Perché evidentemente vivono quello
strumento come un nemico e non come una cosa utile al proprio
apprendimento.
E qual è la soluzione? La soluzione è che bisogna tornare a mettere in
atto un miglioramento della scuola che riparta dal processo di
insegnamento e di apprendimento in classe, il che vuol dire che
ovviamente ci sono dei soggetti che sono competenti e responsabili di
questo miglioramento: dagli insegnanti, alla struttura della singola
scuola, al sistema nazionale. Ma serve anche un’altra cultura della
scuola che responsabilizzi gli studenti, le famiglie e la società.
Questo processo è indubbiamente interrotto: non c’è investimento, ma
soprattutto non c’è il riconoscimento che questo è il problema della
scuola. In questo quadro di problemi, io credo che chi vuole riattivare
questo processo di innovazione debba pretendere che venga messa in atto
anche la dimensione valutativa nella direzione che dicevo prima, come
fatto condiviso e attraverso uno strumento chiaro, specifico per
raggiungere lo scopo ai vari livelli. Non ci sono amici o nemici della
valutazione. Metterla così significa ridurre di nuovo tutto a
comportamenti, manichei, ideologici e infruttuosi. Si tratta di
superare un livello di banalizzazione, superficialità e banalizzazione
che è in atto. Chiaro che anche io, in questa chiacchierata, ho
banalizzato, schematizzato. Ci sarebbe da discutere giornate intere,
riempire di contenuti queste indicazioni di lavoro. E, forse, cogliere
un segnale molto triste che ci viene dalle proteste in atto.
Quale? Che molti insegnanti vivono con fastidio la valutazione, come un
esercizio di potere, perché in effetti, oggi, la valutazione
all’interno della scuola è un esercizio di potere. Raramente si tratta
di uno strumento che viene inserito all’interno del processo di
insegnamento-apprendimento. Tutto viene ridotto al voto, in una
contrapposizione studente-docente. Raramente, ripeto, la valutazione
viene riconosciuta come una prova che serve sia al docente che allo
studente per capire a che punto si è arrivati e come occorre andare
avanti. Questa sì sarebbe un’altra scuola.
(da il manifesto di Cinzia Gubbini)
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