Arte e ambiente tra i valori fondanti della nostra Nazione. C'è da esserne fieri?
Data: Mercoledì, 17 agosto 2011 ore 13:18:15 CEST Argomento: Rassegna stampa
Fiero di essere italiano?
Cittadino di un Paese dall'economia immobile, afflitto da un'evasione
fiscale sterminata (oltre 100 miliardi di euro l'anno secondo Il Sole
24 Ore), intento a tagliare le spese in ricerca, cultura, istruzione e
tutela? Dove la principale stampella della maggioranza di Governo è un
partito che minaccia la secessione? Dove crescono la disoccupazione
giovanile e l'emigrazione dei ricercatori, e il governatore Draghi
parla di "macelleria sociale" in atto? Sarebbe più facile, per questo
"tema svolto", inventariare dubbi e imbarazzi, e non dichiarare
fierezze.
Eppure...
Eppure mi capita di sentirmi fiero di essere italiano. Due
piccole storie recenti. Prima scena in Scozia, dove tutti parlano del
tesoro perduto di William Blake. Ecco, in due parole, la storia: nel
2001 un libraio compra per 1.000 sterline da un antiquario di Glasgow
diciannove disegni acquarellati di Blake, una serie che il grande
artista visionario aveva composto nel 1805 per illustrare il poema The
Grave di Robert Blair.
L'incisore fu l'italiano Luigi Schiavonetti, ma almeno sette di quei
disegni non furono mai incisi. La Tate Gallery offre subito 4,2 milioni
di sterline, ma il proprietario non si accontenta, chiede otto milioni.
La Tate non li ha, e dunque (nel rispetto delle leggi del Regno Unito)
i disegni vengono messi all'asta uno per uno, e acquistati da
diciannove collezionisti diversi, il cui nome non viene rivelato.
Risultato: un gruppo di disegni concepito come un tutto unico è stato
irrimediabilmente disgregato, nessuno potrà mai rimetterlo insieme,
nemmeno per una mostra.
Ecco quel che accade quando la legge antepone le ragioni del mercato e
del profitto a quelle della cultura e del pubblico interesse. Commento
del Times Literary Supplement (17 giugno): «L'avidità privata e
l'inerzia del legislatore sono disperanti. È ora di aprire un dibattito
sulla proprietà dei beni culturali, e chiedersi se l'interesse privato
debba sempre prevalere sul bene comune». Ebbene: in Italia questo
dibattito vi è stato per secoli, ha condotto già negli Stati preunitari
a una normativa che antepone il pubblico bene all'interesse privato.
Nell'Italia unita è così almeno dalla legge Rava-Rosadi del 1909, e
fino al Codice Urbani oggi in vigore. Se anziché a Glasgow i disegni di
Blake fossero riemersi a Venezia o a Palermo, sarebbero ora di un museo
o di un privato, ma certamente ancora tutti insieme, come vogliono le
nostre leggi. Possiamo sentirci fieri di essere italiani.
Seconda scena, Stati Uniti. Si parla di come si va evolvendo la cultura
ambientalista per reagire ai pericoli crescenti di un mondo
globalizzato, dove le ciniche ragioni del profitto devastano l'aria, le
acque e i luoghi colpendo alla cieca i cittadini, corpo e anima. Si
parla di possibili rimedi, di trattati internazionali, di norme di
autoregolazione, di come diffondere un'etica dell'ambiente. Si conviene
che è urgente costruire nuove nozioni giuridiche, che possano
installarsi al centro di ogni sistema legale, a livello internazionale
ma anche nelle singole nazioni. Dominano il discorso due nozioni
giuridiche nuove e "in crescita" nella riflessione (anche filosofica ed
etica) di questi anni: i diritti delle generazioni future e la nozione
di comunità di vita.
In America, la discussione sui diritti delle generazioni future si
richiama spesso a un testo fondativo del presidente Theodore Roosevelt
(1909): «Conservare vuol dire perseguire il maggior vantaggio per il
maggior numero possibile di cittadini, per quanto più tempo possibile.
Il criterio del "maggior numero possibile" deve applicarsi all'intero
svolgersi del tempo: e in esso noi, che viviamo oggi, non siamo che una
frazione insignificante. Abbiamo il dovere di rispettare l'insieme
degli uomini, specialmente le generazioni non ancora nate: dobbiamo
dunque impedire che una minoranza priva di principii distrugga un
patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno. Il movimento
per la conservazione dell'ambiente e delle risorse naturali è
essenzialmente democratico per spirito, finalità e metodo». Il tema,
giuridico ed etico, dei diritti delle generazioni future è sempre più
discusso anche in Italia (specialmente da Stefano Rodotà, o nel libro
di Raffaele Bifulco, Diritto e generazioni future. Problemi giuridici
della responsabilità intergenerazionale). È, in questi termini e nei
nostri orizzonti, un tema nuovo. Ma in esso risuona fortissima la voce
antica del pubblico interesse come sovraordinato al profitto privato: e
che cos'altro era la nozione giuridica di publica utilitas o di bonum
commune, se non il richiamo alla responsabilità di ciascuna generazione
nei confronti di quelle che seguiranno?
La supremazia del pubblico interesse ricorre quasi ossessivamente nei
cento Statuti dell'Italia comunale, nelle norme dei re di Napoli e dei
pontefici, viene fortemente riaffermata nella legge di tutela del
patrimonio culturale del 1909 (citata sopra), nella legge Croce sul
paesaggio (1920-22), nelle leggi Bottai (1939), nel Codice Urbani oggi
in vigore, ma soprattutto nella nostra Costituzione repubblicana, la
prima al mondo in cui la tutela del patrimonio storico e artistico e
del paesaggio fu scolpita fra i principi fondamentali dello Stato
(articolo 9). Con un proprio linguaggio (che si richiamava al diritto
romano), lo sguardo lungimirante dei nostri padri, fino ai Costituenti,
già individuava nei "diritti delle generazioni future" il nucleo
generativo della tutela. Proteggere l'ambiente, ma quale? La nuovissima
nozione giuridica di comunità di vita (di cui ha scritto Umberto
Vincenti, Diritto senza identità) risponde alle esigenze del nostro
tempo meglio di ogni artificiosa segmentazione per categorie. Importa
tutelare non tanto, uno per uno, i diritti di piante, animali,
paesaggi, acque, quanto l'insieme di città e campagna, fauna e flora e
prodotti dell'ingegno umano; insomma, il legame intrinseco fra le
persone dei cittadini come individui e come collettività organizzata e
l'ambiente in cui essi dispiegano la propria vita, e che pertanto
esalta o mortifica le loro libertà. Una concezione come questa implica
l'assoluta identità di paesaggio e ambiente (nella sua accezione più
ampia, che include ogni forma di vita, dagli uomini alle piante).
Implica che il paesaggio "estetico" (da guardare) a cui siamo abituati
deve sapersi fare paesaggio "etico", ambiente in cui vivere. Ma questa
intima fusione di paesaggio e ambiente, a cui si sta ora arrivando a
partire dai guasti che osserviamo e da quelli che temiamo, è già
scritta nella nostra Costituzione. In essa la parola "ambiente" nemmeno
c'è (negli anni della Costituente, 1946-47, la moderna cultura
ambientalistica non si era ancora formata): ma la Corte costituzionale
ha forgiato la tutela dell'ambiente come valore costituzionale primario
combinando in via interpretativa la tutela del paesaggio (articolo 9) e
il diritto alla salute «come fondamentale diritto dell'individuo e
interesse della collettività» (articolo 32). Una nozione giuridica
"d'avanguardia", nata ieri, è stata dunque anticipata nella nostra
Costituzione: una prova fra le tante della sua lungimiranza, della
necessità di applicarla prima di cambiarla.
Se due nozioni giuridiche tanto nuove hanno in Italia radici così
antiche e profonde, ce n'è abbastanza per esser fieri di essere
italiani. Ma un dubbio resta: chi lavora (anche in Parlamento) per
demolire la Costituzione, per svendere il patrimonio pubblico, per
indebolire le istituzioni di tutela, per aprire crepe nelle leggi, per
devastare ambiente e paesaggio riuscirà anche a screditare e ridurre in
polvere queste residue fierezze di un italiano?
(di Salvatore Settis
da IlSole24Ore)
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