Statali figli di un dio minore così un decennio di manovre ha colpito i lavoratori pubblici. La crociata ideologica del centrodestra
Data: Lunedì, 15 agosto 2011 ore 10:46:31 CEST Argomento: Rassegna stampa
Se devi
risparmiare, tartassa lo statale. Tu non sai perché ma lui sì. Il tiro
al dipendente pubblico non è un´invenzione di Tremonti e Brunetta. E´
anzi, come confermano molti testimoni d´eccezione, un filo rosso che
attraversa gli anni Duemila in Italia. «Tipico delle politiche di
centrodestra con qualche complicità ideologica anche nel
centrosinistra», sintetizza Massimo Cacciari, filosofo e sindaco di
Venezia per quindici anni. Oggi che la manovra torna a colpire chi
lavora per la Pubblica Amministrazione, il sospetto è che ci sia del
dolo. Che insomma si approfitti dell´urgenza economica per dare un
altro colpo a chi lavora per il pubblico: «In questa crociata - osserva
Nerio Nesi, ex ministro dei Lavori Pubblici - si incontrano le istanze
anti-Stato della Lega con l´insofferenza verso lo Stato tipica del
berlusconismo».
Un sindacalista come Savino Pezzotta, che ha guidato per sei anni
l´organizzazione più forte tra i pubblici dipendenti, la Cisl,
conferma: «Adesso si sta davvero esagerando. Siamo di fronte a una scelta non politica o
economica ma ideologica che si accanisce contro i pubblici dipendenti
come se la rovina della Pubblica Amministrazione diventasse un
vantaggio per le imprese private. E´ quasi sempre vero il contrario: in
uno Stato che funziona le imprese private lavorano meglio. Fate un
viaggio in Francia per verificarlo».
Le radici ideologiche del tiro allo statale sono molto profonde:
«Nascono - spiega il filosofo Cacciari - da una vulgata sciocca del
liberismo. Gli effetti sono devastanti perché si dice a chi è impiegato
nei settori pubblici che il suo lavoro non conta niente. Anche coloro
che hanno una notevole professionalità vengono trattati e retribuiti
come parassiti». Cacciari offre una testimonianza diretta: «Quando ero
sindaco di Venezia la mia segretaria lavorava in modo eccellente per
dodici-tredici ore al giorno e guadagnava 1.600 euro al mese. Non la
definirei una fannullona. Come non
sono fannulloni i professori di liceo che al massimo della carriera
sfiorano i 1.800 euro al mese. Quella dei dipendenti pubblici
privilegiati e nullafacenti è una fregnaccia».
Eppure non è sempre stato così. C´è stata un´epoca d´oro in cui lo
statale non era considerato tanto male. Il suo potere d´acquisto era
discreto e i partiti politici, lungi dal tartassarlo, lo vezzeggiavano.
I colletti bianchi dello Stato sono stati storicamente il bacino del
voto moderato della Dc. Che cosa è cambiato? Il sociologo Marco Revelli
vede nella parabola discendente dei pubblici dipendenti «un´altra
dimostrazione del fatto che quello di Berlusconi non è per nulla un
governo moderato. E´ un governo estremista, nei modi, negli
atteggiamenti e nelle scelte. E´ il
governo del dito medio di Bossi, delle invettive di Brunetta, il
governo che colpisce il ceto medio perché pensa che quel ceto sia
incapace di reagire». E non reagirà? «Una rivolta del ceto medio è
difficile da prevedere. In genere si tratta di persone che pensano come
i ricchi e si arrabattano con uno stipendio da poveri. Gente che,
nonostante tutto, vota Berlusconi perché fa status, perché non si
abbasserebbe mai a votare il centrosinistra. Parlo naturalmente degli
impiegati dei ministeri e della Pubblica Amministrazione. Diverso è il
discorso per insegnanti e professori universitari: i tagli nei loro
confronti sono un caso di vendetta contro un ceto intellettuale che il
berlusconismo sente estraneo».
Che le battute leghiste su Roma ladrona abbiano contribuito a creare
l´immagine negativa del dipendente statale fannullone è difficile da
contestare. Ma che una buona fetta di dipendenti pubblici non abbia
fatto molto per combattere lo stereotipo, è altrettanto evidente. Così
bisogna tornare a interrogare i sindacalisti che del mondo del pubblico
impiego finiscono per essere i più profondi conoscitori. Paolo Nerozzi,
oggi parlamentare del Pd, ha guidato i dipendenti pubblici della Cgil
negli anni Novanta: «Anche all´inizio di quel decennio - ricorda -
l´Europa chiese all´Italia uno sforzo eccezionale per ottenere
l´ingresso nell´euro. E anche allora una parte consistente della
manovra venne dal pubblico impiego. Ma gli interventi, compiuti dai
governi Amato, Berlusconi e Prodi, seguirono tutti una linea che non
era affatto ideologica: si trattava di cancellare dei privilegi come le
pensioni dopo sedici anni di lavoro e di premiare la professionalità.
Perché si fa presto a generalizzare: tutti sono disposti a inveire
contro i dipendenti pubblici che rubano lo stipendio, ma il maestro di
tuo figlio è spesso un genio e l´infermiera che accudisce tua madre in
ospedale è un angelo».
Distinguere dunque: negli anni Novanta i sindacati proposero di
premiare chi è impegnato nei servizi alla persona, come insegnanti e
dipendenti della sanità, rispetto ai semplici impiegati a orario fisso
occupati dietro una scrivania. Negli anni Duemila quello sforzo di
distinguere si è perso sia tra chi attacca i dipendenti pubblici sia
tra chi li difende. Sono diventati tutti santi o fannulloni. Pezzotta
fa un parziale mea culpa: «Parlo per me, naturalmente, non mi
permetterei di giudicare gli altri. Abbiamo commesso anche noi degli
errori. Il principale è stato quello di difendere diritti acquisiti
nella Pubblica Amministrazione senza puntare sui doveri dei lavoratori
in un settore tanto importante per la vita di tutti». Cacciari esprime
lo stesso concetto in modo più crudo: «Dopo aver annientato la classe
operaia difendendone i diritti in modo corporativo, la sinistra ha
cominciato a fare lo stesso con i dipendenti pubblici. Abbiamo una
straordinaria capacità di segare l´albero su cui siamo seduti».
Come si esce dalla spirale? Quando e se si ribelleranno i tartassati
del pubblico impiego? Revelli e Pezzotta sono pessimisti: «L´unico
effetto che produce questa campagna ideologica - dice l´ex segretario
generale della Cisl - è quella di creare lavoratori arrabbiati contro
il loro datore di lavoro, cioè contro la Pubblica Amministrazione.
Dipendenti che lavorano male, che si sentono delegittimati e umiliati,
che radicalizzano la loro ostilità e che finiscono per creare
inefficienze confermando le tesi di chi li combatte». La rivolta dei
pubblici dipendenti? «Non credo che accadrà - prevede Revelli - anche
perché non si vede come e chi li possa rappresentare politicamente. Nel
bipolarismo sociale non c´è spazio per quel ceto medio. Questo non vale
solo in Italia naturalmente. Ma è un aspetto che il berlusconismo ha
accentuato». Nerozzi però mette in guardia: «Sono abbastanza vecchio
per ricordare che cosa accade quando si ribellano i dipendenti
pubblici, parlo degli infermieri degli ospedali o degli insegnanti. Era
il 1977. Spero che non si arrivi a quel punto».
L´alternativa virtuosa sarebbe quella di creare una scuola di Pubblica
Amministrazione, sul modello francese: «Devo testimoniare - dice Nesi -
che agli alti livelli della dirigenza dello Stato ho spesso incontrato
professionalità di grande livello. A dimostrazione che anche da noi,
pur senza una tradizione centenaria come accade in Francia, esiste una
"scuola" virtuosa che andrebbe incentivata».
L´unico che non vuol sentire parlare di crociate è naturalmente il
principale accusato, il ministro Renato Brunetta che ha firmato i
provvedimenti di questa manovra: «Una crociata contro gli statali?
Guardi io sono professore universitario da decenni e non penso proprio
di poter essere rappresentato da una semplificazione falsa come quella
che lei propone. Non è con le battute che si può ragionare. Le battute
le lascio ai clown».
(da la Repubblica di Paolo Griseri)
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