La
situazione in essere delle pensioni è grigia. Il futuro delle pensioni
è nero.
La domanda è: Calerà
il peso delle
pensioni sulla nostra finanza pubblica? Secondo
uno studio
della Commissione UE, in Italia, malgrado l’invecchiamento della
popolazione,
la spesa per pensioni in rapporto al Pil diminuirà, sia pure di poco, e
aumenterà invece di quasi 3 punti di Pil negli altri Paesi dell’euro.
La
manovra appena approvata – una manovra
discutibile, ma necessaria per scongiurare una crisi da debito pubblico
– è pesante
per quanto riguarda le pensioni. Ed è proprio sulla questione delle
pensioni
che l’Italia esibisce uno dei tanti paradossi che segnano la nostra
convivenza.
E’
diventato quasi proverbiale lamentare il peso delle pensioni sulla
nostra finanza
pubblica. E a guardare i grandi numeri questa lamentela è certamente
fondata. La
spesa per le pensioni in rapporto al valore di quel che viene prodotto
in
Italia (Pil) è la più pesante in Europa. Ed è così da molto tempo. A
prima
vista, sembra quindi giusto, quando diventa inevitabile agire sulla
spesa,
colpire le pensioni. Ma come si concilia questo grosso peso della spesa
pensionistica
con l’esistenza di tante pensioni dall’importo esiguo? Si concilia
perché nel
passato le pensioni sono state usate a scopo assistenziale, concedendo
vitalizi
anche a chi aveva lavorato poco o a chi si trovava in particolari
condizioni:
non a caso, sempre guardando ai confronti internazionali, la nostra
spesa per
pensioni è record, ma la spesa sociale complessiva è bassa: segno che
quella
parte della spesa sociale – assistenza, sanità … - che no riguarda le
pensioni
è particolarmente modesta.
Ma veniamo
al paradosso. Proprio perché la spesa per pensioni è un fardello
pesante, già
da vent’anni tutte le manovre di contenimento della spesa hanno cercato
di
stringere sulle pensioni. Certamente,
non si può ridurre quelle già in essere. Si può agire al margine,
riducendo
privilegi e benefici per i pensionandi futuri. E questo è stato fatto,
al
limite dell’ingiustizia. Per esempio, l’Italia è l’unico Paese
dove le
pensioni non sono pienamente indicizzate ai prezzi. Negli altri Paesi,
o sono
indicizzate ai salari (come era in Italia prima
della riforma Amato del 1992) o sono indicizzate al costo della
vita. E la
manovra appena approvata ha ulteriormente limato questa indicizzazione.
Inoltre,
abbiamo innalzato l’età pensionabile; questa è una misura sacrosanta:
se si
vive più a lungo, si può anche lavorare più a lungo, altrimenti, col
l’allungamento
della vita si finisce col ricevere dalla pensione – che è
un salario differito! – molto di più rispetto ai contributi
che abbiamo versato. E abbiamo anche, correttamente, indicizzato l’età
di
pensionamento degli anni residui (speranza di vita). Riforme, queste,
scaglionate fra il 1992 e il 2009, che sono un modello per il resto
dell’Europa
(come ha riconosciuto una recente analisi dell’Economist). Uno studio
della
Commissione Europea conclude che, malgrado l’invecchiamento della
popolazione,
la spesa per pensioni rispetto al Pil diminuirà in Italia, sia pure di
poco,
mentre aumenterà, per quasi tre punti di Pil, negli altri Paesi
dell’euro.
Il
paradosso quindi sta nel fatto che per la spesa pensionistica siamo gli
ultimi della
classe se guardiamo alla situazione in essere, e i primi della classe
se guadiamo
al futuro. Naturalmente, la consolazione è magra, perché vuol dire che
chi
andrà in pensione avrà trattamenti molto più ridotti rispetto a quelli
goduti
dai padri e dalle madri. Chi è già in
pensione non potrà contare su un pieno adeguamento ai prezzi (questo
rimane
solo per le pensioni minime), e chi ancora ci deve andare ci andrà più
tardi e
riceverà di meno rispetto al passato ( anche se godrà della pensione
per un tempo
più lungo, dato l’allungamento della vita). A tutti questi
sacrifici si
potrebbe ovviare se l’economia italiana riprendesse a crescere (sarebbe
più
facile risparmiare per una pensione integrativa). Ma questo è un altro
problema.
(Il Sole24Ore, 24/7/2011)
Fabrizio
Galimberti
fabrizio@bigpond.net.au